Lavoratore in malattia: il datore di lavoro può contestare la diagnosi del certificato medico anche senza proporre querela di falso
30 Gennaio 2025
Massima Nell’ambito del potere di controllo sullo stato di malattia del dipendente, il datore di lavoro, gravato in caso di sua contestazione dell’onere di provare che l’infermità è simulata ovvero che l’attività posta in essere dal lavoratore durante l’assenza è potenzialmente idonea a pregiudicare o comunque ritardare il rientro in servizio, può contestare l’esattezza della diagnosi riportata nel certificato medico senza allo scopo dover proporre querela di falso ed avvalendosi di ogni altro mezzo di prova. Il caso Una lavoratrice viene licenziata per uso improprio dell'assenza per malattia, tale da far presumere la simulazione della stessa o comunque un comportamento contrario ai doveri di correttezza, buona fede, fedeltà aziendale nell'esecuzione del rapporto idoneo a determinarne il prolungamento. L'atto di recesso, impugnato avanti il giudice, viene ritenuto illegittimo dalla Corte di Appello all'esito del procedimento di reclamo ex l. n.92/2012, con applicazione a carico della società della sanzione reintegratoria prevista dall'art. 18, comma 4, St. lav. Nella pronuncia, la Corte territoriale, recependo l'esito della consulenza tecnica medica d'ufficio in tale grado di giudizio disposta, dichiarava la compatibilità delle attività fisiche espletate dalla dipendente rispetto alla situazione patologica descritta dai certificati di malattia (cervicobrachialgia acuta con vertigine), escludendo che tali condotte fossero idonee a causare un ritardo nella guarigione o un peggioramento del quadro complessivo. Veniva pertanto ritenuto insussistente il fatto contestato, perché privo di potenzialità lesiva del vincolo fiduciario. La società soccombente ricorre quindi avanti al giudice di legittimità per la cassazione della sentenza. La questione Il datore di lavoro può contestare l’esattezza della diagnosi riportata nel certificato medico senza allo scopo dover proporre querela di falso ed avvalendosi di ogni altro mezzo di prova? Le soluzioni giuridiche La questione sottoposta alla S.C., come si è visto prima, attiene ad un licenziamento comminato per malattia ritenuta dal datore simulata o, in via subordinata, aggravata incautamente dalla condotta tenuta dalla lavoratrice nel periodo di assenza dal servizio. Le attività fisiche svolte dalla dipendente non sono state infatti reputate dall'azienda compatibili con la condizione patologica lamentata (cervicobrachialgia acuta con vertigine) e, pertanto, giusta causa di licenziamento. Il Giudice di legittimità è stato chiamato a verificare la correttezza della pronuncia che, definendo il giudizio di merito, aveva dichiarato l'illegittimità del recesso datoriale con conseguente ordine di reintegrazione della lavoratrice ai sensi dell'articolo 18, comma 4, della legge n. 300 del 1970. La Suprema Corte, con la sentenza in commento, accogliendo uno dei tre motivi di ricorso della società ha disposto la cassazione di tale sentenza di appello. In definitiva, viene demandata al giudice di merito una nuova valutazione del carattere genuino o meno della patologia lamentata dalla lavoratrice: sulla scorta del principio, affermato dagli ermellini a smentita del contrario convincimento espresso dalla Coorte territoriale, che il datore di lavoro può contestare la sussistenza della malattia senza presentare una querela di falso. Queste, in particolare, le argomentazioni spese in proposito nella pronuncia di legittimità: - preliminarmente, deve considerarsi che durante il periodo di sospensione del rapporto determinato dalla malattia permangono in capo al lavoratore tutti gli obblighi non strettamente inerenti allo svolgimento della prestazione lavorativa ma comunque ispirati all'esigenza di salvaguardare l'interesse creditorio del datore di lavoro all'effettiva esecuzione della prestazione dovuta (cfr. Cass. n. 13980/2020; Cass. n. 13063/2022); - tra questi, in primis, gli obblighi di diligenza e fedeltà di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c., oltre che gli obblighi di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c.; - la ratio di tale precetto può rivenirsi nel fatto che l'art. 2110 c.c., in deroga ai principi generali, riversa sul datore di lavoro, seppure entro certi limiti, il rischio della temporanea impossibilità lavorativa dovuta a infermità, - esigenze sistematiche impongono pertanto, osserva la S.C. , che la deroga stessa venga armonizzata con i princìpi di correttezza e buona fede i quali devono presiedere all'esecuzione del contratto: i quali assumono rilevanza non solo sotto il profilo del comportamento dovuto in relazione a specifici obblighi di prestazione ma anche sotto il profilo delle modalità di generico comportamento delle parti ai fini della concreta realizzazione delle rispettive posizioni di diritti e obblighi (Cass. n. 9141/2004); - in tale prospettiva, l'accertamento in ordine alla sussistenza o meno dell'inadempienza idonea a legittimare il licenziamento del lavoratore accusato di aver abusato delle prerogative in tema di malattia, sia attraverso la sua fraudolenta simulazione sia svolgendo un'attività idonea a pregiudicare o ritardare il recupero delle normali energie psico fisiche, si risolve in un giudizio di fatto, che dovrà tenere conto di tutte le circostanze del caso concreto. Come tale, esso è riservato al giudice del merito, con i consueti limiti di sindacato in sede di legittimità (ex multis, Cass. n. 17625/2014; Cass. n. 21667/2017); - la Corte in ogni caso precisa che l'onere di provare le circostanze di fatto sopra menzionate incombe esclusivamente sul datore di lavoro (Cass. n. 13063/2022); - a tale scopo, lo stesso può comunque avvalersi di ogni mezzo di prova utilizzabile in giudizio per l'accertamento dei fatti, anche sollecitando il giudice ad esperire una consulenza tecnica d'ufficio ovvero ad attivare i suoi poteri officiosi ex art. 421 c.p.c.; - il giudice, a sua volta, nel rispetto del criterio (tipico del rito del lavoro) del giusto contemperamento del principio dispositivo con le esigenze della ricerca della verità materiale, dovrà poi valutare modalità, tempi e luoghi della diversa attività svolta dal dipendente in costanza di malattia, attribuendo rilievo, anche ai fini dell'elemento soggettivo, alla circostanza che si tratti di attività ricreativa o ludica ovvero prestata a favore di terzi; occorrerà altresì esaminare le caratteristiche della patologia diagnosticata per certificare l'assenza per malattia; - infine, conclude la Corte, occorrerà verificare, eventualmente con l'ausilio peritale, se da tali elementi scaturisca la prova che la malattia fosse fittizia ovvero che la condotta tenuta dal lavoratore fosse potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro al lavoro; - nell'ambito di tale quadro metodologico, pur essendo il certificato redatto da un medico convenzionato con un ente previdenziale o con il Servizio Sanitario Nazionale per il controllo della sussistenza delle malattie del lavoratore atto pubblico che fa fede, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che l'ha formato nonché dei fatti che il pubblico ufficiale medesimo attesta aver compiuto o essere avvenuti in sua presenza, è insegnamento consolidato della giurisprudenza di legittimità che tale fede privilegiata non si estende anche ai giudizi valutativi che il sanitario in occasione del controllo ha espresso in ordine allo stato di malattia e all'impossibilità temporanea della prestazione lavorativa (Cass. 11 maggio 2000 n. 6045; Cass. n. 18507 del 2016 e ivi ulteriori rinvii); - i giudizi in questione, infatti, pur dotati di un elevato grado di attendibilità in ragione della qualifica funzionale e professionale del pubblico ufficiale e dotati, quindi, di una particolare rilevanza sotto il profilo dell'art. 2729 c.c., consentono al giudice di considerare anche elementi probatori di segno contrario, ut supra acquisiti al processo. Osservazioni Lo malattia rappresenta, sul piano statistico, la più comune causa di sospensione del rapporto lavorativo per sopravvenuta impossibilità della prestazione di lavoro. Parecchi, pertanto, i motivi di contenzioso sottoposti alla valutazione della giurisprudenza. Come noto, nell'ordinamento lavoristico, la nozione di malattia consiste nella condizione di infermità che determini in capo al lavoratore una concreta ed attuale incapacità al lavoro, pur se di durata transitoria. Ai sensi dell'art. 2110 c.c., due sono i principali effetti dell'evento sul rapporto:
Affinché tali effetti normativi possano realizzarsi a vantaggio del lavoratore e, per contro, il datore di lavoro (o l'istituto di previdenza) possa verificare la fondatezza dell'assenza, la legge e la contrattazione collettiva impongono al lavoratore ammalato alcuni strumentali adempimenti:
La violazione di tali adempimenti, in linea generale, è sanzionata con il mancato pagamento dell'indennità economica di malattia a carico dell'Inps nonchè, a seconda dei casi, con l'applicazione di sanzioni disciplinari da parte del datore di lavoro, che possono arrivare sino al licenziamento (cfr. Cass. n.15226/2016). In un caso abbastanza recente, il giudice penale è giunto a ritenere il lavoratore responsabile del reato di truffa aggravata per avere falsamente riferito al proprio medico sintomi di una patologia in realtà inesistente, inducendolo in errore nel rilascio della certificazione finalizzata a giustificare l'assenza dal lavoro (Cass. pen., sez. II, 17 luglio 2019, n.44578). L'art.5 legge n.300/1970vieta in ogni caso al datore di lavoro di compiere accertamenti diretti di carattere sanitario sulla condizione di infermità ed idoneità al lavoro del dipendente assente per malattia, potendo tale controllo essere effettuato soltanto tramite le apposite strutture sanitarie pubbliche (ASL e INPS). In ogni caso, posto che la finalità della citata norma è tipicamente quella di garantire l'imparzialità della valutazione tecnico medica, affidandola ad organi pubblici, i risultati della stessa non sono in di per sé insindacabili. Il controllo domiciliare tramite c.d. visita fiscale non costituisce quindi l'unico mezzo concesso al datore di lavoro per verificare l'effettività dello stato di malattia e d'incapacità del dipendente nel periodo d'astensione dal servizio, conservando il primo sempre la facoltà di contestare, ritenendoli fittizi, i surriferiti elementi costitutivi del diritto esercitato dal lavoratore. Come riconosciuto in giurisprudenza, ciò può avvenire attraverso la valorizzazione di ogni circostanza di fatto volta a dimostrare l'insussistenza della patologia o quantomeno uno stato di incapacità lavorativa del lavoratore tale da giustificarne l'assenza, essendo peraltro il certificato del medico curante soggetto ad una definitiva valutazione di merito da parte del giudice (cfr. Cass. n.17113/2016; Cass. n. 609/1990). Assumono a tal proposito rilevanza presuntiva (art. 2729 c.c.) i c omportamenti tenuti dal dipendente nella vita di tutti i giorni in concomitanza dell'assenza, accertabili anche tramite indagini investigative (sulla liceità delle quali, in rapporto agli artt. 5 e 8 Stat. lav., cfr. Cass. n.3630/2017; Cass. n.20433/2016). Tali comportamenti, se incompatibili con l'infermità dichiarata, possono anch'essi giustificare l'irrogazione di sanzioni disciplinari di afflittività proporzionalmente crescente a seconda della gravità dell'infrazione come previsto dall'art. 2106 c.c. Ad esempio, si è ritenuto legittimo il licenziamento intimato al lavoratore che nei giorni di malattia aveva svolto attività lavorativa gratuita in favore di un familiare, reputandosi tale attività del tutto incompatibile con lo stato di salute. Nella specie, il giudice ha valutato l'attività lavorativa descritta in contrasto, oltre che con la denunciata patologia osteoarticolare, anche con il dedotto stato depressivo in quanto l'attività di vigilanza contro i furti e assistenza ai clienti prestata dal lavoratore presso il negozio del fratello comportava la necessità di una costante focalizzazione dell'attenzione e di contatti anche antagonistici con persone non conosciute (Cass., sez. lav., 07/10/2014, n.21093). Al contrario, sono stati dal giudice considerati illegittimi, tra gli altri, i licenziamenti del lavoratore che durante la malattia è uscito di casa per acquisti ed altre attività quotidiane (Cass. n. 23858/2024; Cass. n.6375/2011) o ha giocato a tennis senza su ciò mentire al proprio datore di lavoro (Cass. n.1374/2018). Più di recente, è assurto agli oneri della cronaca il caso del lavoratore assente per malattia (nella circostanza, sindrome ansiosa) sorpreso a partecipare quale musicista/cantante ad una serata di piano bar, l'illegittimità del cui licenziamento la Corte di Cassazione ha confermato: statuendo che l'impegno in attività ricreative non configura in sé un comportamento pregiudizievole con la dichiarata condizione depressiva (Cass. 29/11/2024, n. 30722). Altrettanto, qualche anno fa, avvenne per una lavoratrice affetta da analoga patologia e recatasi in spiaggia durante la fascia oraria di reperibilità (Cass. n.21621/2010). In prospettiva sistematica, altre situazioni valutate dalla giurisprudenza ai fini disciplinari sopra dedotti sono:
Attraverso le considerazioni sopra riportate, la S.C. ha rimarcato che la valutazione della reale sussistenza della malattia del lavoratore deve tenere conto di ogni prova fattuale ritualmente acquisita o acquisibile nel processo, senza limitarsi alle sole attestazioni di carattere medico. Lo stesso giudice di legittimità, nondimeno, ha ribadito l'onere del datore di lavoro – che intenda contestare le evidenze della certificazione a lui esibita dal dipendente - di dimostrare attraverso validi strumenti probatori che la malattia era simulata o ritardasse il ritorno al lavoro. La sentenza, in buona sostanza, con utili indicazioni pratiche chiarisce le modalità e i limiti con cui ciò può avvenire. Un appunto, però, a nostro giudizio va svolto riguardo ad uno degli argomenti espressi nella decisione medesima. Nel respingere l'ulteriore censura dell'azienda ricorrente (terzo motivo di ricorso, formulato sensi del n.5 dell'art.360 c.p.c.), secondo cui l'impugnata pronuncia di merito avrebbe omesso l'esame di alcune circostanze di fatto decisive che, se esaminate e debitamente apprezzate, avrebbero di per sé, a prescindere quindi dal la certificazione medica, di ritenere accertata la simulazione della malattia in quanto attestanti una condizione di salute della lavoratrice incompatibile con la malattia stessa, la Corte pare contraddirsi. Per motivare il rigetto, infatti, il giudice di legittimità nega profilo di decisività, sull'esito della causa, a tali circostanze di fatto, riduttivamente ritenute mere censure di malgoverno della documentazione sanitaria: dimenticando però trattarsi dei medesimi atti e fatti da doversi invece considerare e valorizzare sul piano probatorio, in conformità al principio di diritto innanzi enunciato nella sentenza stessa. Bussole di inquadramento |