Lavoro
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Valido il licenziamento per giustificato motivo oggettivo se la professionalità del dipendente non è pragmaticamente paragonabile a quella dei colleghi

06 Febbraio 2025

Nella sentenza in esame, i giudici della Corte di Cassazione, al termine di un annoso procedimento che ha visto la cassazione con rinvio di più di una sentenza della Corte d’Appello competente, analizzano e definiscono quale tipo di esame debba essere eseguito dal datore di lavoro nella scelta del dipendente da licenziare per ragioni organizzative, tenuto conto della professionalità e delle mansioni concretamente svolte, anche in relazione a quelle degli altri colleghi, non rilevando l’eventuale nuova assunzione precedentemente effettuata dal medesimo datore per un ruolo professionale simile, ma con modalità esecutive diverse.

Massima

In caso di licenziamento per soppressione della posizione, l'onere del datore di lavoro si limita alla dimostrazione dell'inesistenza di posizioni vacanti compatibili con le mansioni del lavoratore, senza obbligo di estendere la ricerca ad altre funzioni non strettamente correlate, né si spinge a dover creare posizioni nuove o ad adibire il lavoratore a mansioni diverse dalla professionalità di riferimento. Inoltre, qualora si sia in presenza di personale omogeneo e fungibile, non necessariamente devono trovare applicazioni tutti i criteri previsti dall'art. 5 l. n. 223/1991, ma deve tenersi conto delle modalità esecutive delle mansioni assegnate ai lavoratori coinvolti, con particolare attenzione a quelle concretamente svolte da questi ultimi ai fini della scelta del dipendente da sacrificare all'esito di detta comparazione.

Il caso

Nell’ottobre 2013 la società datrice di lavoro aveva comminato a un proprio dipendente un licenziamento per giustificato motivo oggettivo che, una volta impugnato, era stato giudicato dalla Corte d’Appello di L’Aquila come illegittimo, condannando la società al pagamento di una somma a titolo di c.d. tutela indennitaria forte. Tale illegittimità era stata ancorata all’assunzione, avvenuta poche settimane prima del licenziamento, di un nuovo dipendente con mansioni asseritamente analoghe a quelle del lavoratore cessato, sul presupposto che tale condotta si scontrasse con la volontà datoriale di riduzione dei costi aziendali.

La questione

Qualora si sia in presenza di personale omogeneo e fungibile, trovano necessariamente applicazione tutti i criteri previsti dall’art. 5 l. n. 223/1991, o deve tenersi conto delle modalità esecutive delle mansioni assegnate ai lavoratori coinvolti?

Le soluzioni giuridiche

All’esito del giudizio di legittimità, la Suprema Corte cassava la sentenza d’appello con rinvio presso quest’ultima, a seguito di quanto rappresentato dalla società datrice, concordando con la prospettiva della medesima, secondo la quale, al fine di stabilire la fondatezza delle ragioni di un licenziamento, è sufficiente che “le ragioni inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro causalmente determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa e non essendo sindacabile, sotto il profilo della congruità ed opportunità, la scelta datoriale di sopprimere un determinato posto di lavoro”.

Pronunciando in sede di rinvio, la Corte d’Appello ha ritenuto che l’ex dipendente avesse, in effetti, diritto al diverso regime di tutela c.d. indennitaria “debole”, condannando il lavoratore alla restituzione di parte di quanto ricevuto in virtù della propria precedente pronuncia, riscontrando, comunque, una violazione di carattere procedimentale nel licenziamento. La Corte ha, così, valutato in quanto il lavoratore era stato assunto come “responsabile vendite Retail” per il mercato del Brasile e del Sud America, con il compito di provvedere alla vendita diretta in loco dei prodotti aziendali; tutte queste attività, successivamente all’allontanamento di quest’ultimo, sono state assegnate al direttore della divisione export che, invece, operava dalla sede di Pescara della società. A parere della Corte d’Appello, dunque, la soppressione della posizione era effettiva, e ciò era confermato dalla successiva organizzazione interna adottata a livello aziendale. Inoltre, l’assunzione di un diverso lavoratore alcune settimane prima del licenziamento non rilevava ai sensi dell’effettiva esistenza della possibilità di repêchage, come rivendicato dall’ex dipendente, in quanto a quest’ultimo aveva un inquadramento contrattuale superiore, erano affidate diverse aree geografiche e diverse modalità di attuazione delle attività assegnate, sebbene i due avessero comparabili profili professionali ed equivalenti mansioni di vendita di prodotti all’estero.

Fermo quanto precede, il licenziamento era stato ritenuto illegittimo sotto il solo profilo procedurale (per le ragioni accertate con la sentenza di primo grado) e, conseguentemente, meritevole della tutela più debole, sopra menzionata.

Ulteriormente impugnata dall’ex dipendente, la pronuncia della Corte d’Appello veniva cassata in sede di legittimità in quanto i giudici territoriali avevano erroneamente riconosciuto in capo al lavoratore l’onere di provare l’assenza di ulteriori posizioni vacanti ai quali poterlo assegnare al fine di scongiurarne il licenziamento, oltre ad avere erratamente valutato come infungibili le due posizioni lavorative venute in considerazione.

Posta la pacificità del dovere in capo al datore di lavoro di provare l’effettiva impossibilità di adibizione del licenziando lavoratore a diversa posizione eventualmente disponibile all’interno dell’azienda, la Suprema Corte valutava che, tecnicamente, il ruolo precedentemente assegnato al ricorrente non fosse stato effettivamente soppresso, bensì meramente smantellato e ridistribuito all’interno dell’organizzazione aziendale. Ciò posto, a parere della Corte di Cassazione, la Corte territoriale avrebbe dovuto valutare non l’infungibilità delle posizioni, ma l’eventuale professionalità omogenea tra le mansioni affidate ai due dipendenti.

Tornata a pronunciarsi, per la terza volta, sulla vicenda, la Corte di L’Aquila, si esprimeva su quest’ultimo punto, di rilevante interesse, chiarendo che la professionalità del dipendente licenziato – impiegato di primo livello e addetto in loco alle vendite al dettaglio nell’area del Brasile e del Sud America – e quella del lavoratore assunto poco prima del ricorrente – quadro e operante dalla sede aziendale tramite distributori locali – fossero inevitabilmente diverse, giocando un ruolo essenziale e idoneo a distinguere le due posizioni la capacità di relazionarsi direttamente con i rivenditori sul luogo di vendita estero, inclusa la capacità linguistica a ciò necessaria, stante la diversa modalità di esecuzione di tali attività di chi agisce “da remoto” (appunto, il quadro assunto precedentemente al licenziamento). Pertanto, confermava l’infungibilità delle due posizioni e, dunque, la tutela indennitaria c.d. “debole” in favore del lavoratore cessato.

Contro tale ultima pronuncia, ricorreva innanzi alla Cassazione l’ex dipendente lamentando, inter alia, l’errore dei giudici abruzzesi per aver ritenuto che i criteri di scelta e di comparazione per valutare il giustificato motivo oggettivo di licenziamento debbano riferirsi solo a lavoratori con mansioni identiche tra loro, avendo dovuto giudicare non sulle modalità esecutive delle prestazioni loro assegnate, ma sulle loro professionalità. Nello specifico, il ricorrente riteneva non rilevante a escludere la comparazione tra i due il fatto che il dipendente assunto poche settimane prima del licenziamento del lavoratore cessato si occupasse di attività di vendita tramite intermediari, laddove a quest’ultimo era affidata la vendita diretta dei prodotti aziendali, in loco.  

La Corte di Cassazione si è espressa con favore rispetto all’operato – da ultimo – dei giudici territoriali di L’Aquila. In particolare, quest’ultima ha valutato attentamente le professionalità del dipendente licenziato (impiegato di primo livello) e del lavoratore assunto in precedenza (quadro), osservando che il primo disponesse di competenze strettamente connesse alla commercializzazione dei prodotti aziendali, senza ulteriori professionalità e che, pertanto, “non poteva essere considerato compatibile con nessuna delle altre attività societarie […] ma solo a quella dei servizi commerciali e dell’export”. Tale considerazione – che vale la prova dell’infungibilità delle due posizioni – è ulteriormente corroborata, secondo la Suprema Corte, dal fatto che tutte le attività precedentemente assegnate al dipendente cessato siano state, successivamente a tale evento, ridistribuite ad altri colleghi (e non al lavoratore di livello quadro, assunto precedentemente), i quali le hanno svolte direttamente o delegandole ad altri subordinati, che operavano attraverso degli intermediari stabiliti nel territorio di interesse.

Ha concluso, dunque, la Corte d’Appello – così come, sposandone la decisione, la Suprema Corte – che l’impossibilità di repêchage sia stata ampiamente provata dal datore e che fosse evidente l’assenza di diverse posizioni cui adibire il dipendente cessato al momento della comminazione del licenziamento.

Neppure, secondo la Suprema Corte, l’assunzione precedente alla cessazione può essere considerata quale elemento che scardini la fondatezza delle motivazioni organizzative poste alla base del licenziamento stesso. Quest’ultima ha infatti ulteriormente confermato la disomogeneità delle professionalità dei due lavoratori coinvolti, individuandone, anzitutto, il diverso inquadramento, dal quale derivavano anche due differenti trattamenti economici. Oltre a ciò, proseguono gli Ermellini, il dipendente licenziato, che si occupava di vendite a dettaglio in loco presso determinati territori sudamericani, aveva necessariamente delle competenze (anche e soprattutto, per esempio, linguistiche) delle quali l’altro lavoratore, invece, era manchevole, essendo assegnata a quest’ultimo l’attività di vendita da remoto, per il tramite di intermediari attivi fisicamente su diversi territori mediorientali.

A conferma della legittimità del licenziamento comminato, infine, anche laddove si volessero mettere a paragone le due figure, la Corte precisa che entrambi i dipendenti fossero non coniugati e senza figli a carico, valendo così la sola anzianità aziendale quale elemento di discrimine e valutata dagli stessi giudici decisamente cedevole rispetto alle ulteriori diversità tra i due ruoli in senso pratico, già ampiamente evidenziate.

Concludono, infine, gli Ermellini, confermando la corretta lettura della documentazione probatoria da parte dei giudici aquilani, corroborando l’esistenza della prova, fornita dal datore, dell’impossibilità di adempiere all’obbligo di repêchage, posta l’assenza di posizioni vacanti alle quali il dipendente licenziato poteva essere utilmente assegnato, ricordando anche la granitica giurisprudenza di legittimità che, ormai pacificamente, stabilisce che il datore non sia tenuto a creare nuove posizioni o a modificare l’organizzazione aziendale al fine di conservare un posto di lavoro che esso intenda cessare.

Per i motivi di cui sopra, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso dell’ex dipendente, confermando l’ultima pronuncia della Corte d’Appello di L’Aquila sulla vicenda.

Osservazioni

Nonostante l’annoso percorso che la vicenda in argomento ha subito prima di giungere alla conclusione qui commentata, la decisione degli Ermellini si colloca pienamente nell’alveo degli orientamenti consolidati relativi alle questioni di diritto trattate.

Infatti, oltre a confermare la necessità che sia il datore di lavoro a farsi carico dell’onere di dimostrare l’assenza di posizioni vacanti e compatibili con la professionalità del dipendente che questi intende licenziare, gli Ermellini – posto il complesso iter seguito dal caso in esame – sono anche stati costretti a valutare elementi particolarmente pragmatici dello stesso, dai quali hanno estratto un principio generale ora formalizzato nella sentenza analizzata.

Superando tutte le considerazioni rimuginate sui singoli aspetti della vicenda, nonché le rivisitazioni che le cassazioni con rinvio e i ricorsi sulle sentenze così prodotte hanno comportato, l’elemento che qui si ritiene di maggiore interesse riguarda il fatto che i giudici di legittimità hanno, difatti, apertamente sposato quell’orientamento – ancora non consolidato – che consente una minore rigidità nel riferimento ai criteri applicabili nei casi di licenziamento collettivo in bilanciamento tra loro (e.g., anzianità aziendale, carichi familiari e necessità tecnico organizzative) anche alle ipotesi di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo. In particolare, infatti, questi ultimi hanno chiarito che, dinanzi a una valutazione pratica – e non meramente formale – delle mansioni effettivamente svolte dai due lavoratori, tali criteri debbano essere considerati nella loro totalità e, laddove solo uno di essi riconosca un vantaggio a uno dei soggetti sopra gli altri, ciò non può dirsi sufficiente a giustificare l’espulsione del dipendente sfavorito, soprattutto laddove permangano forti dubbi rispetto all’effettiva fungibilità delle funzioni ricoperte dai lavoratori coinvolti.  

Invero, a valle di tutte le considerazioni relative alla vicenda in esame, sorprende chi scrive che le Corti coinvolte non abbiano più attentamente valutato la discordanza di concetto tra l’assunzione di un nuovo dipendente – peraltro, un quadro, con un costo aziendale certamente maggiore rispetto a un impiegato – solo poche settimane prima rispetto alla comunicazione del provvedimento espulsivo contro il lavoratore ricorrente.

Se, infatti, successivamente alla comminazione di un licenziamento i giudici sono particolarmente attenti a valutare ulteriori assunzioni o, comunque, attività che, per la loro natura, contrastino con i principi riorganizzativi o economici posti alla base della cessazione da parte datoriale, stupisce che il solo elemento cronologico, posto in precedenza e non a seguito dell’espulsione, possa far venir meno tali valutazioni. Si tratta, invero, di un argomento solo in parte toccato dalle considerazioni degli Ermellini e rispetto al quale – a prescindere dall’analisi finale, che qui si condivide, sulla effettiva differenza tra le due posizioni lavorative esaminate – sarebbe stato interessante calarsi in più profonde riflessioni che hanno portato le corti di merito a ritenere coerente con l’addotta soppressione per riduzione dei costi una nuova assunzione sostanzialmente concomitante.

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