Lavoro
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Il degrado del motivo economico ed organizzativo dietro ad un licenziamento discriminatorio

10 Marzo 2025

Una dirigente portatrice di un grave handicap, all’esito di un lungo periodo di malattia, faceva rientro a lavoro senonché, dopo appena un mese, veniva licenziata per giustificatezza: l’azienda, durante la sua assenza, aveva deciso di adottare una riorganizzazione comportante la soppressione proprio del suo posto di lavoro. Si dà il caso, però, che vi fossero altri colleghi, nella sua medesima posizione apicale, e che la scelta del manager da licenziare fosse ricaduta proprio su di lei, l’unica disabile. In netto disaccordo rispetto a quanto deciso dalla sentenza di seconde cure, la Suprema Corte coglieva l’occasione per ribadire nuovamente che anche un licenziamento motivato da ragioni economiche o organizzative possa essere considerato discriminatorio se attuato direttamente o indirettamente in ragione di un fattore di rischio, quale nel caso concreto la disabilità della lavoratrice.

Massima

La sussistenza di una motivazione organizzativa legittima non esclude di per sé la natura discriminatoria di un licenziamento. Anche un licenziamento motivato da ragioni economiche o organizzative può essere considerato discriminatorio se attuato direttamente o indirettamente in ragione di un fattore di rischio, quale la disabilità del lavoratore.

Il caso

La sentenza in commento tratta del ricorso introdotto da parte di una lavoratrice, dirigente, che nel corso del rapporto di lavoro aveva subito una grave ed invalidante malattia con intervento operatorio, a seguito del quale era stata riconosciuta portatrice di handicap grave ai sensi dell'art. 3 della legge n. 104/1992. La lavoratrice, dopo essere stata assente dal lavoro per un lungo periodo di malattia, anche a seguito di un incidente stradale che le aveva provocato una frattura del calcagno, veniva licenziata.

Più precisamente, dopo appena un mese dalla ripresa del servizio, la società datrice licenziava la dirigente per giustificatezza, consistita nella soppressione del posto di lavoro per l'avvenuta riduzione di attività e di clientela.

Si aggiunga che il datore di lavoro, durante l'assenza per malattia della lavoratrice, le aveva inviato numerose e-mail, espressione di una serie continua, pressante ed ansiogena di solleciti alla ripresa dell'attività, di insistenti richieste di notizie sui possibili tempi di recupero, sino a comunicarle puntuali suggerimenti medici sulle modalità dallo stesso ritenute più consone alla gestione delle terapie riabilitative. Il datore di lavoro, nelle medesime e-mail, si spingeva sino ad esprimere confronti con le condotte tenute da colleghi colpiti da patologie simili, così da fiaccare la tenuta psicologica di una lavoratrice già sfibrata dall'insorgenza di una grave patologia.

L'ex dirigente adiva l'autorità giudiziaria competente dolendosi della discriminatorietà e ritorsività del licenziamento, irrogatole in verità a causa del suo grave handicap, nonché per il lungo periodo di malattia che aveva immediatamente preceduto l'atto espulsivo. Richiedeva altresì un risarcimento del danno pari ad Euro 52.446,00 per la lesione della salute derivante dal disturbo psichiatrico contratto a causa delle numerose e-mail a lei inviate in modo costante ed insistente dal datore di lavoro. In primo grado il ricorso dell'ex dirigente veniva in toto rigettato.

La Corte d'Appello di Roma riformava parzialmente la sentenza di prime cure, condannando la datrice di lavoro a corrispondere alla lavoratrice la somma di Euro 52.446 a titolo di risarcimento del danno biologico patito.

Tuttavia, nel medesimo grado, il ricorso della lavoratrice veniva considerato carente di allegazioni idonee a connotare di discriminatorietà il licenziamento. Il part-time, concesso ad altre colleghe non era stato mai richiesto dalla lavoratrice, e le sue mansioni dirigenziali erano incompatibili con l'homework. I giudici di merito, al contempo, riconoscevano la giustificatezza del licenziamento per riorganizzazione aziendale e soppressione del posto di lavoro. Emergeva, infatti, che, durante l'assenza della dirigente, vi era stata una riassegnazione tra i colleghi dei clienti da ella prima seguiti, nessuno la aveva sostituita nella sua posizione, ma i suoi compiti erano stati accentrati nelle mani del superiore o dei colleghi. Veniva inoltre evidenziato come al licenziamento della dirigente non si applica l'obbligo di repêchage; ne conseguiva l'irrilevanza di una possibile fungibilità della posizione della lavoratrice con quella di colleghi di pari carica o dell'eventuale riallocazione in altro settore.

Avverso tale decisione, l'ex dirigente proponeva ricorso per Cassazione. La Suprema Corte, ribaltando quanto statuito dai giudici di merito, accertava la discriminatorietà del licenziamento. La sopravvenuta disabilità della lavoratrice aveva fatto ricadere la scelta del manager da licenziare proprio su di lei (tra le diverse posizioni di lavoro interscambiabili): la ricorrente era l'unica disabile tra i manager aziendali, ed era stata l'unica tra questi ad essere licenziata. A questo punto, i giudici di legittimità riconoscevano l'errore di diritto in cui era incorsa la Corte di appello, nell'affermare che il licenziamento non potesse essere discriminatorio in ragione dell'esistenza dell'elemento forte del motivo riorganizzativo accertato nel giudizio.

La questione

L a S.C. nel caso in esame risponde alle seguenti domande: è sufficiente la presenza di un motivo economico per escludere la discriminatorietà nel caso di licenziamento? Come la nozione di licenziamento discriminatorio si applica a una lavoratrice con disabilità grave? Quali prove sono richieste a una lavoratrice disabile che afferma di essere vittima di discriminazione nel licenziamento?

Le soluzioni giuridiche

La sussistenza di una genuina motivazione economica e organizzativa del licenziamento non esclude la sua discriminatorietà

La sentenza in commento, più che analiticamente, ha affrontato il tema della discriminatorietà di un licenziamento effettivamente rispondente ad un'esigenza economica ed organizzativa dell'azienda. Nella vicenda in oggetto vi era stata una reale contrazione dell'attività e della clientela, confermata da più testimoni, con conseguente soppressione del posto di lavoro della dirigente, colpita dall'espulsione. Giova sul punto premettere come nell'ipotesi di licenziamento individuale del dirigente d'azienda, ai sensi dell'art. 10 della legge n. 604/1966, non trova applicazione la disciplina limitativa dei licenziamenti, infatti, anche se il Codice Civile, menziona la categoria dei dirigenti all'interno del più ampio genus dei prestatori di lavoro subordinato (art. 2095 c.c.), tuttavia, si tratta di una figura caratterizzata da un elevato grado di professionalità, autonomia e potere decisionale, alla stregua di un alter ego del datore di lavoro. Conseguentemente risulta affievolito il concetto di subordinazione quanto ai suoi canoni classici (ad es. rispetto dell'orario di lavoro, indicazione delle mansioni) e la cessazione del rapporto di lavoro è caratterizzata dalla libera recedibilità di cui agli artt. 2118 e 2119 c.c., salvo il rispetto del concetto di giustificatezza, cristallizzato dalla contrattazione collettiva, unico argine all'arbitrio datoriale.

Ora, la nozione di giustificatezza del recesso va tenuta distinta da quella di giustificato motivo. Essa è ravvisabile ove sussista l'esigenza, economicamente apprezzabile in termini di risparmio, della soppressione della figura dirigenziale in attuazione di un riassetto societario, quindi, il dirigente potrà solamente verificare se sussista un nesso causale tra le ragioni del licenziamento e le relative ripercussioni sul rapporto di lavoro, non potendo sindacare il merito di tali scelte, garantite dal precetto di cui all'art. 41 Cost. (da ultima Cass. civ., sez. lav., ord., 16 dicembre 2022, n. 36955). Di conseguenza solo nel caso in cui fosse verificata l'assenza del rapporto causa-effetto, il recesso da parte del datore di lavoro potrebbe considerarsi ingiustificato. Inoltre, per i medesimi motivi, l'obbligo di repêchage - operante per quanto riguarda operai, impiegati e quadri in base al costante orientamento giurisprudenziale - non trova invece applicazione nei confronti del personale inquadrato con qualifica dirigenziale (Cass. civ., sez. lavoro, 12 luglio 2016, n. 14193).

Un limite alla sostanziale libertà di recesso datoriale sussiste laddove emerga, in base ad elementi oggettivi, la natura discriminatoria o contraria a buona fede della riorganizzazione (Cass. civ., sez. lav., ord., 04 gennaio 2019, n. 87).

Ora, se è vero che l'apparente legittimità sotto tale profilo del licenziamento era idonea ad escluderne la natura ritorsiva, lo stesso poteva dirsi per la discriminatorietà, pure lamentata dalla ricorrente? La Corte d'Appello a tale quesito avrebbe dato risposta affermativa, posto che, con una soluzione fulminea, escludeva la natura discriminatoria dell'atto espulsivo, citandola: “attesa la rilevanza dell'elemento forte del motivo riorganizzativo, come visto accertato". I Giudici di merito incorrevano così in una violazione di legge attraendo la disciplina del licenziamento ritorsivo a quello discriminatorio, ormai però emancipato rispetto al primo.

La Suprema Corte emendava tale errore cassando la sentenza impugnata.

Principio oggi pacifico e ribadito in numerose pronunce della Corte di Cassazione è quello che afferma l'autonomia concettuale del licenziamento discriminatorio rispetto a quello irrogato per motivo illecito determinante (si vedano a titolo esemplificativo Cass. civ., sez. lav., sent., 27 febbraio 2015, n. 3986; Cass. civ., sez. lav., sent., 17 novembre 2017, n. 27325). Quest'ultimo configura un licenziamento nullo quando il motivo ritorsivo, come tale illecito, sia stato l'unico determinante dello stesso, ai sensi del combinato disposto dell'art. 1418 c.c., comma 2, artt. 1345 e 1324 c.c. Viene allora in gioco la nozione, prevista dall'art. 18 co. 1 della l. 300/1970, di licenziamento «determinato da motivo illecito determinante ai sensi dell'art. 1345 c.c.», che, usando le parole della Corte di Cassazione, «costituisce l'ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito (diretto) o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione (indiretto), che attribuisce al licenziamento il connotato della ingiustificata vendetta» (Cass. civ., sez. lav., sent., 03 dicembre 2015, n. 24646). In altre parole, la previsione richiamata «può essere vista come repressiva di pratiche arbitrarie, ovvero, in un senso ancor più generale (ed in larga misura coincidente con il concetto di abuso del diritto), come deterrente alla tentazione, per il datore di lavoro, di fare del suo potere di licenziamento un uso ricattatorio o vendicativo» (Diritto e Processo del Lavoro e della Previdenza Sociale, Giuseppe Santoro Passerelli - VII Ed., 2017, Vicenza). La Corte di Cassazione sul punto ha avuto più volte occasione di affermare che "il divieto di licenziamento discriminatorio (...) è suscettibile di interpretazione estensiva sicché l'area dei singoli motivi vietati comprende anche il licenziamento per ritorsione o rappresaglia, che costituisce cioè l'ingiusta e arbitraria reazione, quale unica ragione del provvedimento espulsivo, essenzialmente quindi di natura vendicativa. In tali casi, tuttavia, è necessario dimostrare che il recesso sia stato motivato esclusivamente dall'intento ritorsivo" (Cfr. Cass. civ., sez. lav., sent., 18 marzo 2011, n. 6282). È noto come gravi sul lavoratore l'onere di dimostrare che il recesso sia stato motivato esclusivamente dall'intento ritorsivo (Cass. civ., sez. lavoro, sentenza, 03 dicembre 2015, n. 24646; Cass. civ., sez. lav., sent., 08 agosto 2011, n. 17087; Cass. civ., sez. lav., sent., 18 marzo 2011, n. 6282), e tale prova può essere offerta anche mediante presunzione gravi, precise e concordanti. Se così stanno le cose, corretto poteva apparire il rigetto della doglianza della lavoratrice della ritorsività del licenziamento, intimato a causa del suo lungo periodo di malattia, proprio perché non era stato dimostrato l'unico motivo illecito determinante, concorrendo quest'ultimo con l'accertata sussistenza del motivo economico ed organizzativo. Ben diverso appare però il terreno del licenziamento discriminatorio. In particolare: “La discriminazione, diversamente dal motivo illecito, opera obiettivamente, ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta - ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro; sicché, diversamente dall'ipotesi di licenziamento ritorsivo, non è necessaria la sussistenza di un motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c., né la natura discriminatoria può essere esclusa dalla concorrenza di un'altra finalità, pur legittima, quale il motivo economico” (ex multisCass. civ., sez. lavoro, sent., 05 aprile 2016, n. 6575). Il menzionato principio è stato definitivamente cristallizzato per la prima volta in occasione dell'emblematico caso del licenziamento di una dipendente che aveva manifestato l'intento di sottoporsi all'estero a pratiche di inseminazione artificiale. La datrice di lavoro, avverso la sentenza di appello che accertava la discriminatorietà del licenziamento, proponeva ricorso in Cassazione, sostenendo come la discriminatorietà e la natura unica e determinante del motivo illecito risultavano escluse dal tenore della lettera di licenziamento e dalla successiva specificazione dei motivi. La comunicazione di licenziamento evidenziava, infatti, quale ragione del recesso, le ricadute negative delle assenze programmate sulla funzionalità dello studio e, dunque, una ragione economica, circostanza che, a dire della società, di per sé escludeva il motivo discriminatorio, così come il carattere unico e determinante del motivo illecito. La Suprema Corte rigettava il ricorso, confermando la nullità e la discriminatorietà del licenziamento. E ciò proprio perché, a differenza del licenziamento ritorsivo, nel caso dell'atto discriminatorio la concorrenza di un giustificato motivo non è idonea ad escludere la sua discriminatorietà: essa può accompagnarsi ad altro motivo legittimo, e rendere comunque nullo il licenziamento. La nullità derivante dal divieto di discriminazione, infatti, discende direttamente dalla violazione di specifiche norme di diritto interno ed eurounitario, senza passare attraverso la mediazione dell'art. 1345 c.c.

Nel panorama del diritto interno rilevano le previsioni della l. n. 604/1966, art. 4,l. n. 300/1970, art. 15,l. n. 108/1990, art. 3. Precisamente, la l. n. 108/1990, art. 3 dispone che il licenziamento determinato da ragioni discriminatorie - ai sensi della l. 15 luglio 1966, n. 604, art. 4 e della l. 20 maggio 1970, n. 300, art. 15 - è nullo, indipendentemente dalla motivazione addotta. È così evidenziata, da un lato, una netta distinzione della discriminazione dall'area dei motivi, dall'altro, l'idoneità della condotta discriminatoria a determinare di per sé sola la nullità del licenziamento. Nello stesso senso rileva la previsione, già contenuta nella L. n. 125 del 1991, art. 4 (ed oggi nel d.lgs. n. 150/2011, art. 28) secondo cui il lavoratore che esercita l'azione a tutela dalla discriminazione può limitarsi a fornire soli elementi di fatto, evincibili anche da dati di carattere statistico (relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all'assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti), idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell'esistenza di atti o comportamenti discriminatori. Spetta in tal caso al convenuto l'onere della prova sull'insussistenza della discriminazione. A sua volta, l'art. 2 d.lgs. 216/2003 parifica agli atti discriminatori anche le molestie commesse per motivi legati alla disabilità: "Sono, altresì, considerate come discriminazioni, ai sensi del comma 1, anche le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per uno dei motivi di cui all'articolo 1, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo".

Nell'orbita del diritto eurounitario, il divieto di discriminazione per ragioni di handicap/malattia trova le sue radici nella Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (CDPD) che è stata ratificata dall'Italia con legge n. 18 del 2009, poi approvata con la decisione 2010/48/CE del Consiglio del 26 novembre 2009; nella Direttiva UE 2000/78 del 27 novembre 2000; nella Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea, che prevede il motivo della disabilità nell'ambito dell'art. 21 (espressione del divieto generale di discriminazioni), il quale contiene anche una disposizione specifica, ossia l'art. 26, che riconosce il diritto dei disabili di beneficiare di misure intese a garantirne l'autonomia, l'inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità; nella giurisprudenza della CGUE, come meglio si dirà in seguito.

Alla luce di quanto esposto, errava la Corte d'Appello capitolina nel limitarsi semplicemente ad osservare che esistesse una ragione legittima di licenziamento giustificato, così omettendo di valutare come il medesimo atto impattasse dal punto di vista della discriminazione per disabilità dell'ex dirigente. L'errore veniva corretto dalla sentenza in commento, che si pone in linea con la giurisprudenza di legittimità, che dopo l'emblematica pronuncia Cass. civ., sez. lavoro, sent., 05 aprile 2016, n. 6575 è univoca nell'affermare che un licenziamento discriminatorio rimane tale anche se accompagnato da un motivo economico legittimo, che nella vicenda concreta consisteva nella soppressione del posto di lavoro della dirigente per riduzione di attività e di clientela. Si citano testualmente le parole della Suprema Corte: “i motivi quarto e quinto, relativi all'effettiva esistenza del motivo economico posto alla base del licenziamento, devono ritenersi assorbiti alla luce della disciplina del d.lgs. n. 216/2003 cit. e delle considerazioni svolte in proposito”.

La disabilità come fattore tipico di discriminazione ed il licenziamento discriminatorio: quali conseguenze?

Dalla riconduzione alla natura discriminatoria dell'atto espulsivo, la Corte di cassazione trae determinate conseguenze giuridiche, la cui applicazione viene rimessa al Giudice del rinvio.

Come noto, infatti, il licenziamento discriminatorio è stato inizialmente previsto dall'art. 4 della l. n. 604/1966, come quello “determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall'appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali …indipendentemente dalla motivazione adottata”.

In seguito, la legge n. 108/1990 ha esteso tale fattispecie stabilendo, all'art. 3, che è la disposizione specificamente richiamata dal comma 1 novellato dell'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 che “il licenziamento determinato da ragioni discriminatorie ai sensi dell'articolo 4 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e dall'articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall'articolo 13 della legge 9 dicembre 1977, n. 903, è nullo indipendentemente dalla motivazione adottata…”.

L'art. 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300 sancisce la nullità di “patti o atti diretti a fini di discriminazione … di handicap …”.

Le norme di diritto interno si pongono nel più ampio contesto sovranazionale. Le norme di diritto interno si pongono nel più ampio contesto sovranazionale.

Nella già citata Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, adottata il 13 dicembre 2006, ratificata e resa esecutiva dall'Italia con l. n. 18 del 2019, approvata a nome della Comunità europea con la decisione 2010/48/CE del Consiglio del 26 novembre 2009, si trova il riconoscimento del "diritto al lavoro delle persone con disabilità, su base di uguaglianza con gli altri" (art. 27). La Convenzione definisce (art. 2) per "discriminazione fondata sulla disabilità qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che abbia lo scopo o l'effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento o l'esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo. Essa include ogni forma di discriminazione, compreso il rifiuto di un accomodamento ragionevole".

In ambito comunitario, la direttiva 2000/78/CE sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, dopo una serie di considerando, all'art. 1 sancisce che essa " mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sugli handicap… per quanto concerne l'occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento".

L'art. 21 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'UE infine proclama: “E' vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sulla disabilità”.

La disabilità è un fattore tipico di protezione, previsto come tale dalla normativa prima citata. Ad esempio, in base alle norme antidiscriminatorie e alla giurisprudenza che si è formata, in sede nazionale ed eurounitaria adottare comportamenti che penalizzino le assenze dei lavoratori e delle lavoratrici, senza distinguerne l'origine, la natura e le motivazioni, è un comportamento discriminatorio se il motivo dell'assenza è una causa tipica di discriminazione, come è per la disabilità.

La stretta correlazione tra le disposizioni, interne e sovranazionali, a tutela della disabilità, individuata come specifico fattore di discriminazione, e la loro funzione di salvaguardia del principio di parità di trattamento, rientrante nel novero dei diritti fondamentali che costituiscono parte integrante dei princìpi generali del diritto comunitario, preclude la possibilità di negare alla condotta datoriale che concreti una violazione di tali disposizioni la natura di atto discriminatorio e, quindi, nullo.

In particolare, il datore di lavoro che licenzi una persona in condizione di disabilità, in violazione degli obblighi posti per rimuovere gli ostacoli che impediscono alla persona stessa di lavorare in condizioni di parità con gli altri lavoratori, attua una discriminazione diretta, in quanto la persona subisce un trattamento sfavorevole in ragione di una sua particolare caratteristica che costituisce il fattore discriminante protetto.

La qualificazione del licenziamento come discriminatorio, stante l'intima connessione tra l'effetto vietato dell'atto e le conseguenze sanzionatorie, impone di applicare la tutela di cui ai primi due commi dell'art. 18 legge 20 maggio 1970, n. 300.

La sentenza in commento considerando tale fattore tipico di discriminazione ha concluso che: “se si esclude la disabilità, non si saprebbe nemmeno perché sia stata scelta come manager da licenziare proprio la ricorrente”.

Ma vi è di più. L'art. 5 Direttiva quadro 2000/78/CE sulla lotta alle discriminazioni per quanto concerne l'occupazione e le condizioni di lavoro, recepita in Italia col d. lgs. 9 luglio 2003 n 216 (art. 3 co. 3 bis), prevede l'adozione di «soluzioni ragionevoli» per consentire ai disabili di svolgere un lavoro, salvo comporti un onere finanziario sproporzionato per il datore di lavoro.  Infine, l'art. 5 par. 3 e art. 1 co. 2 della Convenzione ONU del 2006 sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dalla legge 3 marzo 2009 n 18, obbliga gli Stati Parti a prendere tutti i provvedimenti appropriati per assicurare che siano forniti «accomodamenti ragionevoli» a garantire la tutela dei diritti dei disabili che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo; con la specificazione che disabile è chi ha minorazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali a lungo termine.

Il legislatore interno, come si è detto, ha dato attuazione alla Direttiva quadro 2000/78/CE con il d. lgs 9 luglio 2003 n 216 (art. 3), tuttavia, tale attuazione si è rivelata imperfetta, posto che non era stato fatto espresso riferimento all'obbligo di adattamento ragionevole delle posizioni lavorative, tanto che a seguito di procedura di infrazione la Corte di Giustizia dell'Unione Europea (Quarta Sezione) 4 luglio 2013 ha condannato la Repubblica Italiana, «non avendo imposto a tutti i datori di lavoro di prevedere, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, soluzioni ragionevoli applicabili a tutti i disabili, è venuta meno al suo obbligo di recepire correttamente e completamente l'articolo 5 della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro». Inoltre, al par 65 ha censurato la l. 68/1999 che: «per quanto riguarda la legge n. 68/1999, essa ha lo scopo esclusivo di favorire l'accesso all'impiego di taluni disabili e non è volta a disciplinare quanto richiesto dall'articolo 5 della direttiva 2000/78», in buona sostanza chiedendo di parificare la nozione di disabilità prevista dalla l. 68/1999 all'ambito di applicazione europeo.

Il legislatore italiano è dovuto così intervenire nel 2013 (art. 9, d.l. 28 giugno 2013 n 99 conv. in Legge 9 agosto 2013 n 99), introducendo nel corpo del d. lgs. 9 luglio 2003 n 216 un co 3-bis all'art. 3, prevedendo che: «Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori», in tal modo sanando la disarmonia con il diritto europeo.

L'individuazione concreta del novero degli accomodamenti ragionevoli è spettato all'interprete che ad esempio, in materia licenziamento per inidoneità fisico psichica alla mansione derivante da una condizione di handicap la casistica giurisprudenziale sul tema ha ritenuto che un operaio specializzato che sappia svolgere anche le mansioni saldatore possa scambiare la propria mansione con quella di un collega saldatore che è in grado di svolgere le mansioni di operaio specializzato per salvaguardare il proprio posto di lavoro (Cass. civ. sez. lav.,  19 marzo 2018, n 6798); ed ancora è stato giudicato illegittimo il licenziamento del dipendente autista di autobus, visto che avrebbe potuto essere ripescato nelle mansioni di controllore, addetto al lavaggio del mezzo o addetto alla biglietteria (Cass. civ., sez. lav., 9 marzo 2021, n 6497, Relatore Amendola). Lo stesso principio è stato ribadito con riferimento ad un ferroviere che era stato licenziato senza che fosse ricollocato nella mansione di ausiliario uffici (Cass. civ., sez. lav., 12 aprile 2024 n 9937, Relatore Amendola) e rispetto all'operaio licenziato al quale era stata prescritta dal medico competente una limitazione alla movimentazione manuale di carichi pari a massimo a 5-6 Kg, nonostante lo stesso lavoratore avesse indicato nel ricorso introduttivo quali potevano essere tali ragionevoli accomodamenti (condivisi dalla Corte), come la riduzione dell'orario di lavoro, una diversa organizzazione del lavoro con adibizione e mansioni meno gravose, l'acquisto di macchinari con funzione di ausilio alla movimentazione dei carichi pesanti accedendo a finanziamenti pubblici (App. Venezia-Sezione Lavoro, sentenza n. 55.2024  (in https://www.postosicuro.info/risorse-giuridiche/licenziamento-per-inidoneita-alla-mansione-e-obbligo-di-accomodamenti-ragionevoli).

La Suprema Corte si è spinta ad affermare, rigettando il ricorso del datore di lavoro, che, “quand'anche la conservazione del rapporto di lavoro comporti costi aggiuntivi in considerazione di una ridotta produttività dovuta a ragioni di salute, ciò non è di per sé sufficiente a escludere la possibilità di adottare accomodamenti ragionevoli (che possono consistere anche nell'adibizione del lavoratore a diverse mansioni, pure inferiori), la quale viene meno solo laddove essi comportino un sacrificio economico sproporzionato del datore di lavoro” (Cass. civ., sez. lav., 13 novembre 2023, n. 31471).

Ebbene, anche nella sentenza commentata, ponendosi nell'alveo di tale evoluzione giurisprudenziale, ha ritenuto che “l'errore di giudizio della Corte, sulla mancata valutazione della tesi formulata dalla ricorrente in termini di interscambiabilità con altri senior manager (sia quadri, sia dirigenti), risulta anche da un'altra considerazione: laddove essa ha ritenuto questa ultima allegazione, formulata ai fini della disparità di trattamento, una rivendicazione dell'insussistente diritto del dirigente, in quanto tale, al repechage arrivando a sostenere, appunto, “l'irrilevanza della fungibilità della posizione della L. con quella dei colleghi di pari carica o della eventuale riallocazione di un altro settore…mentre la ricorrente lamentava qui non la mera illegittimità del licenziamento per la mancata prova della impossibilitò di una sua differente ricollocazione lavorativa, bensì la disparità di trattamento e la discriminatorietà originaria dell'atto di licenziamento”. In altri termini, pur non affermandolo espressamente, proprio richiamandosi all'obbligo datoriale di adottare soluzioni ragionevoli, censura la sentenza impugnata che non aveva considerato la possibilità di scambiare la posizione lavorativa della lavoratrice, con quella di altri colleghi dirigenti, oppure, di adibirla a mansioni inferiori, pur di salvare il posto di lavoro della medesima.

L'onere della prova “alleggerito” per il lavoratore che lamenti di essere stato discriminato

La Corte territoriale scivolava su un'altra dirimente questione: la distribuzione dell'onere probatorio in tema di discriminatorietà. In particolare, i giudici capitolini ritenevano che la lavoratrice non avesse dimostrato “un trattamento più favorevole nei medesimi termini riferiti alle predette colleghe, sia stato riservato a dipendenti con la sua stessa posizione apicale”, finendo per affermare che “non risultano allegate circostanze idonee a connotare di discriminatorietà l'intimato licenziamento”.

Vale la pena rammentare le allegazioni in realtà addotte dalla lavoratrice: l'esistenza comprovata del fattore di rischio costituito dall'handicap grave; l'atto in sé pregiudizievole costituito dal licenziamento; la mancanza di qualsiasi elemento giustificativo in ordine alla scelta di comminare il licenziamento proprio alla ricorrente e non anche agli altri colleghi nella medesima posizione apicale; la comprovata esistenza di concomitanti atti indesiderati commessi per disabilità e qualificati come discriminatori per legge (le e-mail inviatele dal datore di lavoro durante la sua malattia dandole consigli sulla sua guarigione ed invitandola a rientrare in azienda in maniera assidua e pressante tanto da arrecarle un danno psicologico da stress accertato dalla c.t.u. nella misura percentuale del 20% a titolo di danno biologico); l'esistenza di significativi argomenti a carattere statistico: la lavoratrice aveva allegato di essere l'unica dirigente disabile e di essere stata l'unica licenziata rispetto ad altri preferiti nella medesima posizione apicale.

La sentenza in commento, condivisibilmente, si discostava dalle conclusioni, all'evidenza illogiche ed incoerenti, alle quali era giunta la Corte d'appello di Roma. All'opposto, infatti, la Suprema Corte riteneva le suddette allegazioni più che esaustive rispetto all'onere della prova della discriminazione richiesto alla lavoratrice dalle disposizioni di seguito citate.

In tema di licenziamento discriminatorio, il riparto dell'onere probatorio segue i canoni speciali di cui all'art. 4 del d.lgs. 216 del 2003, e non quelli ordinari di cui all'art. 2729 c.c. In tal modo, colui che lamenti di essere vittima di discriminazione viene liberato da un pesante carico, quello di fornire presunzioni gravi, precise e concordanti. D'altronde, dalla rigida applicazione dell'art. 2729 c.c. deriverebbe l'assurda pretesa di richiedere al lavoratore, già vittima di discriminazione, la dimostrazione dell'”animus necandi”, che all'evidenza si risolverebbe in una vera e propria probatio diabolica.

Per scongiurare tale rischio e favorire il più debole del rapporto, anche nell'ottica di un bilanciamento di oneri tra le parti, il punto 4 dell'art. 28 del d.lgs. 150/2011, direttamente richiamato dall'art. 4 comma 2 d.lgs. 216/2003, stabilisce che "quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l'onere di provare l'insussistenza della discriminazione. I dati di carattere statistico possono essere relativi anche alle assunzioni, ai regimi contributivi, all'assegnazione delle mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e ai licenziamenti dell'azienda interessata". Così si è pronunciata Cass. civ., sez. lav., sent. 02 gennaio 2020, n. 1, in accoglimento del ricorso avanzato da un sindacato, contro la sentenza di secondo grado che aveva ritenuto carente la dimostrazione della discriminatorietà dei trasferimenti impugnati. Questi avevano colpito il 6% degli addetti allo stabilimento di cui, si dà il caso, che l'80% fossero lavoratori iscritti al medesimo sindacato. La Corte d'Appello aveva addossato al sindacato l'onere probatorio definito attraverso il richiamo integrale ai canoni dell'art. 2729 c.c., senza tener conto del criterio di agevolazione che si esprime in una diversa ripartizione degli oneri di allegazione e soprattutto della relativa prova. La Suprema Corte, stante l'inconfutabile dato statistico, cassava la sentenza di seconde cure, che non aveva correttamente valutato l'assenza di discriminatorietà.

Ben nota è anche la regola di giudizio speciale, sempre desumibile dal punto 4 dell'art. 28 d.lgs. 150/2011, sul quale la Corte di cassazione, con sentenza n. 9870 del 28/03/2022, aveva affermato che: "in tema di discriminazione indiretta nei confronti di persone con disabilità ai sensi della legge n. 67 del 2006, l'art. 28, comma 4, d.lgs. n. 150/2011 (disposizione speciale rispetto all'art. 2729 c.c.) realizza un'agevolazione probatoria mediante lo strumento di una parziale inversione dell'onere della prova: l'attore deve fornire elementi fattuali che, anche se privi delle caratteristiche di gravità, precisione e concordanza, devono rendere plausibile l'esistenza della discriminazione, pur lasciando comunque un margine di incertezza in ordine alla sussistenza dei fatti costitutivi della fattispecie discriminatoria; il rischio della permanenza dell'incertezza grava sul convenuto, tenuto a provare l'insussistenza della discriminazione una volta che siano state dimostrate le circostanze di fatto idonee a lasciarla desumere”.

Pur affermando il medesimo principio, ovvero: “In tema di licenziamento discriminatorio, in forza dell'attenuazione del regime probatorio ordinario introdotta per effetto del recepimento delle direttive n. 2000/78/CE, n. 2006/54/CE e n. 2000/43/CE, così come interpretate dalla CGUE, incombe sul lavoratore l'onere di allegare e dimostrare il fattore di rischio e il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe, deducendo al contempo una correlazione significativa tra questi elementi, mentre il datore di lavoro deve dedurre e provare circostanze inequivoche, idonee ad escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria del recesso”, ma rigettando il ricorso della lavoratrice, si è espressa Cass. civ., Sez. lavoro, Sentenza, 27/09/2018, n. 23338. C'è da dire che nel caso concreto non veniva ravvisata la configurabilità di una condotta discriminatoria nel licenziamento di una lavoratrice affetta da handicap, in forza della dimostrata necessità di riduzione del personale di un'unità, ma soprattutto per il divieto di recesso nei confronti dell'unica altra dipendente, oltre alla ricorrente, però affidataria di un bimbo e quindi non licenziabile ai sensi dell'art. 54, comma 9, del d.lgs. n. 151 del 2001.

Rileva altresì citare, nello stesso senso, Cass. civ., sez. lav., sent., 26 febbraio 2021, n. 5476, pronunciatasi dinanzi alla domanda con cui una lavoratrice aveva dedotto la sussistenza di una discriminazione per averle il datore di lavoro negato la proroga di un contratto a termine, a dire della ricorrente a causa del suo stato di gravidanza. Sul punto, la lavoratrice allegava che il datore di lavoro avesse invece concesso il rinnovo di contratti a termine a tutti i colleghi che si trovavano nelle sue stesse condizioni contrattuali. Sulla base di tale circostanza la Suprema Corte cassava la sentenza di merito. Quest'ultima aveva infatti respinto la predetta domanda sulla base del fatto che, nel corso del giudizio, non fossero stati forniti elementi circa la stipula di nuovi contratti con gli altri dipendenti fondati sulla medesima causale di quello della lavoratrice. Così si finiva, però, per porre a carico della dipendente una prova piena di tutti gli elementi significativi di una discriminazione, e senza nemmeno considerare il criterio della vicinanza della prova, posto che i contratti in questione si trovavano certamente nella materiale disponibilità del solo datore di lavoro.

Più recentemente si è espressa Cass. civ., sez. lav., ord., 03 febbraio 2023, n. 3361 in tema di comportamenti datoriali discriminatori fondati sul sesso. La lavoratrice richiedeva l'accertamento e la repressione del comportamento, a suo dire discriminatorio, tenuto dalla parte datoriale e connesso alla disdetta dal contratto di apprendistato professionalizzante intimatale, a fronte di circa duecento apprendisti che invece erano stati assunti a tempo indeterminato. Il fattore di discriminazione veniva individuato con riferimento alle due gravidanze portate a termine dalla lavoratrice nel corso del rapporto di apprendistato. La Corte di appello di Cagliari, in riforma della sentenza di primo grado, respingeva l'originaria domanda della lavoratrice, ritenendo gli elementi addotti a sostegno del carattere discriminatorio della condotta tenuta dalla datrice di lavoro mancanti dei necessari caratteri di precisione e concordanza tali da fondare una presunzione di comportamento discriminatorio superabile solo in presenza di prova negativa offerta dalla parte datoriale. La Suprema Corte cassava la sentenza di secondo grado così affermando: “l'art. 40 del d.lgs. n. 198/2006 stabilisce un'attenuazione del regime probatorio ordinario in favore della parte ricorrente, che è tenuta solo a dimostrare un'ingiustificata differenza di trattamento o una posizione di particolare svantaggio, dovuta al fattore di rischio tipizzato dalla legge, toccando poi al datore la prova dell'assenza di discriminazione”. Non era stato infatti adeguatamente valutato dai giudici di merito che la ricorrente fosse portatrice di un fattore di rischio, avendo condotto a termine due gravidanze durante l'apprendistato, e che detto elemento, considerato congiuntamente al dato statistico, ossia che tutti gli altri apprendisti, circa duecento, fossero stati assunti, faceva ricadere sul datore di lavoro l'onere di provare l'assenza della lamentata discriminazione.

Richiamati alcuni rilevanti precedenti giurisprudenziali, nella sentenza annotata, il Supremo Collegio evidenziava come i giudici di secondo grado avessero violato il criterio di alleggerimento della prova stabilito dall'ordinamento, avendo spostato tutto l'onere di allegazione e prova a carico della lavoratrice, ritenendo che non avesse allegato gli elementi idonei a dimostrare la discriminazione, laddove invece nemmeno è richiesto al lavoratore di allegare e provare la discriminazione, bensì di fornire elementi di fatto, dai quali si possa desumere l'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori. Compete al datore di lavoro convenuto dimostrare che il fatto non esista ovvero le circostanze inequivoche, idonee a escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della condotta, in quanto dimostrative di una scelta che sarebbe stata operata con i medesimi parametri nei confronti di qualsiasi lavoratore privo del fattore di rischio, che si fosse trovato nella stessa posizione.

Ebbene, indubbio appariva che la lavoratrice fosse portatrice di un grave handicap, che durante il suo periodo di malattia era divenuta vittima di veri e propri atti discriminatori (costanti e-mail ansiogene in cui le veniva richiesto di tornare in azienda), e che, al suo rientro, fosse stata l'unico bersaglio colpito dalla riorganizzazione aziendale, non essendo stati licenziati altri colleghi di lavoro, pur nella medesima posizione apicale, ma la scelta era ricaduta proprio su di lei, l'unica disabile. Tali allegazioni sarebbero state senz'altro sufficienti, già in secondo grado, a desumere la discriminatorietà del licenziamento irrogato. La Suprema Corte, sembra quasi con l'amaro in bocca, così rimarcava: “Pertanto, se si esclude la disabilità, non si saprebbe nemmeno perché sia stata scelta come manager da licenziare proprio la ricorrente”.

Osservazioni

In conclusione, la sentenza analizzata si colloca nell'alveo dell'insegnamento ormai consolidato della Suprema Corte, teso a garantire l'effettività della tutela del lavoratore disabile, estendendone la tutela in ossequio alla disciplina di derivazione eurounitaria, prevalente ormai sul principio dell'insindacabilità delle scelte organizzative imprenditoriali. Ma se tale evoluzione appare ormai inarrestabile rispetto alla fase patologica del rapporto di lavoro subordinato, un elemento di novità della decisione in commento attiene alla applicazione della menzionata disciplina a quella particolare figura di prestatori di lavoro subordinato, quale è il dirigente.

Costui, infatti, è un vero alter ego del datore di lavoro, infatti, ricopre un ruolo apicale all'interno dell'organigramma aziendale e la cui attività sia caratterizzata da un elevato grado di professionalità, autonomia e potere decisionale. Così, difformemente rispetto alle categorie degli impiegati, degli operai e dei quadri, figure professionali gerarchicamente subordinate ai dirigenti, questi ultimi svolgono le proprie funzioni con la finalità di promuovere, coordinare e gestire la realizzazione degli obiettivi dell'impresa, ricevendo dal datore di lavoro esclusivamente un indirizzo generale e mantenendo un elevato grado di autonomia sulle modalità di attuazione. Da tale premesse ne deriva che al dirigente non si applica la disciplina particolarmente tutelante prevista per il prestatore di lavoro subordinato, potendo il recesso avvenire liberamente, salvo il rispetto del canone di buona fede, incardinato nelle nozioni contrattualmente previste.

Se così stanno le cose la disciplina di derivazione eurounitaria posta a tutela del disabile pone una deroga a tale libertà di recesso datoriale, equiparando, in questa fase, il dirigente agli altri prestatori di lavoro subordinato. Così se normalmente non è canone ermeneutico che si applica al dirigente l'onere di ripescaggio nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, laddove questi sia soggetto disabile, il dovere di repechage viene riesumato sotto forma di obbligo di accomodamento ragionevole, che impone al datore di lavoro verificare l'interscambiabilità “della posizione della lavoratrice. con quella dei colleghi di pari carica o della eventuale riallocazione di un altro settore”. Obbligo di ripescaggio che in presenza del lavoratore disabile è ancora più pregnante, posto che non si arresta dinanzi al divieto di insindacabilità delle scelte organizzative aziendali (lo aveva affermato l'ormai remota sentenza di Cassazione civile Sez. Unite sentenza n. 7755 del 7 agosto 1998), ma permette al Giudice di penetrare nell'organizzazione datoriale, sindacandone le scelte, con il solo limite del rispetto delle norme inderogabili, quale ad esempio l'art. 2103 cc.

Infine, nel caso in questione non assume rilievo la violazione del principio di buona fede da parte del datore di lavoro posto a presidio della tutela del dirigente espulso, ma la violazione del superiore principio di parità di trattamento del lavoratore in relazione al fattore di discriminazione della disabilità, con la conseguenza che il licenziamento che ne discende dovrà essere dichiarato nullo (art. 18 co. 1 e 2 l. n. 300 del 1970 o 2 d. lgs. 4 marzo 2015, n. 23) in quanto discriminatorio.

Riferimenti

Giuseppe Santoro Passerelli, Diritto e Processo del Lavoro e della Previdenza Sociale, VII Ed., 2017, Vicenza

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