Lavoro
ilGiuslavorista

L’illegittimità del licenziamento per omessa contestazione disciplinare, tra nullità di protezione ed insussistenza del fatto contestato

27 Marzo 2025

Il licenziamento conseguente al radicale difetto di contestazione dell'infrazione disciplinare da parte del datore di lavoro deve essere sussunto nell’ambito dell’insussistenza del fatto contestato, comportando l’inesistenza dell’intero procedimento e non solo l’inosservanza delle norme che lo disciplinano. Tuttavia, mentre per un orientamento giudiziario in tale evenienza ricorrerebbe una nullità di protezione con conseguente applicabilità del regime di tutela di cui all’art.2 comma 1, d.lgs. 23/2015 e correlata declaratoria di nullità del licenziamento con ordine di reintegra, indipendentemente dalla soglia dimensionale aziendale; per altro orientamento l’apparato sanzionatorio sarebbe, invece, da ricondurre alla specifica previsione dall’art. 3, comma 2, del medesimo corpo regolativo, quale ius singulare, con conseguente applicabilità della sanzione dell’annullabilità con reintegrazione del lavoratore e condanna datoriale alla tutela indennitaria prevista dal legislatore per l’ipotesi di insussistenza del fatto contestato.

Il quadro normativo

Le pronunce oggetto della presente disamina di approfondimento dipanano dalla problematica relativa al licenziamento conseguente al radicale difetto di contestazione dell'infrazione disciplinare da parte del datore di lavoro, con le correlate derivazioni afferenti all’accertamento dell’insussistenza del fatto contestato ed alla relativa applicazione del corretto regime rimediale sancito dall’ordinamento giuslavoristico.

Sotto il profilo dell’addentellato normativo applicabile alla casistica in esame, dunque, il primo rimando dispositivo è certamente da ricondurre al dettato dell’art. 7 l. n. 300/1970 (c.d. Statuto dei Lavoratori), che sancisce come il datore di lavoro non possa adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l'addebito e senza averlo sentito a sua difesa.

Come rilevato, infatti, dalla stessa Consulta nella pronuncia Corte cost. n. 128/2024, la preventiva contestazione del fatto disciplinarmente rilevante si pone quale presupposto logico e giuridico necessario per la valutazione di illegittimità del recesso, sotto il profilo della necessaria causalità dello stesso, in uno alla circostanza per cui l’irrogazione della massima sanzione espulsiva in assenza di una coerente e specifica fattispecie accusatoria, al di fuori delle regole procedimentali previste per legge, finisce con il privare, di fatto, il lavoratore di strumenti di difesa essenziali.

Se così è, condiviso ed esteso appare l’orientamento valutativo per cui l’ipotesi in cui le condotte poste alla base del licenziamento disciplinare non siano state precedentemente contestate seguendo l’iter previsto dall’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori integra la fattispecie dell’insussistenza del fatto contestato, in quanto implicitamente comprensivo anche dell'ipotesi di inesistenza della contestazione stessa.

Senonché e come è noto, a partire dal 07 marzo 2015, in conseguenza dell’entrata in vigore della riforma del Jobs Act, sussiste, nel nostro ordinamento, un regime differente di tutele applicabile a seconda della ricaduta operativa del singolo rapporto di lavoro nell’alveo del contratto a c.d. tutele crescenti, ovvero nella sfera di perdurante copertura della disciplina di cui all’art. 18 l. 300/1970.

Ed invero, per quel che rileva ai fini della presente trattazione, il comma 4 dell’articolo 18 Statuto dei lavoratori (l. 20 maggio 1970, n. 300) dispone come il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma e al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In ogni caso la misura dell'indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione, maggiorati degli interessi nella misura legale senza applicazione di sanzioni per omessa o ritardata contribuzione, per un importo pari al differenziale contributivo esistente tra la contribuzione che sarebbe stata maturata nel rapporto di lavoro risolto dall'illegittimo licenziamento e quella accreditata al lavoratore in conseguenza dello svolgimento di altre attività lavorative.

Diversamente, al comma 6 del medesimo articolo, si dispone come nell'ipotesi in cui il licenziamento sia dichiarato inefficace per violazione della procedura di cui all'articolo 7 dello Statuto dei Lavoratori, si applica il regime di cui al quinto comma (e, dunque, il Giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all'anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell'attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo), ma con attribuzione al lavoratore di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, con onere di specifica motivazione a tale riguardo, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti che vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso applica, in luogo di quelle previste dal presente comma, le tutele di cui ai commi quarto, quinto o settimo.

Diversamente, il d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, recante disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183, all’art. 2 prevede che il giudice, con la pronuncia con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto, in uno al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata la nullità e l'inefficacia, stabilendo a tal fine un'indennità commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.

Al contrario, l’art. 3 della medesima previsione legislativa sancisce come nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità.

Esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro ai sensi dell'articolo 4, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181, e successive modificazioni. In ogni caso la misura dell'indennità risarcitoria relativa al periodo antecedente alla pronuncia di reintegrazione non può essere superiore a dodici mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione, senza applicazione di sanzioni per omissione contributiva.

Infine, l’art. 4 d.lgs. 23/2015 sancisce come nell'ipotesi in cui il licenziamento sia intimato con violazione della procedura di cui all'articolo 7 della legge n. 300 del 1970, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a una mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità, a meno che, sulla base della domanda del lavoratore, si accerti la sussistenza dei presupposti per l'applicazione delle tutele di cui agli articoli 2 e 3 del medesimo decreto.

Le differenti conclusioni delle pronunce in esame

La magistratura del lavoro del Tribunale di Roma è intervenuta di recente ed a distanza di pochi mesi sull'argomento, consegnandoci due pronunce che, se pur connotate dalla medesima questione tematica e similare fattispecie causale, finiscono con l'applicare un regime differente di tutela, a seguito della diversa qualificazione rimediale di approdo finale.

Entrambi i casi sottoposti all'attenzione del Giudice capitolino, invero, hanno riguardato il licenziamento disciplinare comminato a dei dipendenti senza la preventiva contestazione della condotta stigmatizzata e, dunque, in palese violazione del menzionato disposto di cui all'art. 7, l. 300/70.  

Le conclusioni espresse nelle due sentenze citate appaiono, però, sostanzialmente differenti.

Nella prima pronuncia (Trib. Roma 12 ottobre 2024), infatti, l'estensore prende le mosse dalla constatazione per cui il radicale difetto di contestazione dell'infrazione determina non solo l'inosservanza delle norme che lo disciplinano ma l'inesistenza stessa dell'intero procedimento.

Nel caso di specie, il datore di lavoro rientrava, però, tra le imprese con meno di 15 dipendenti e il lavoratore risultava assunto dopo l'entrata in vigore del d.lgs. n.23/2015, da cui il problema dell'individuazione della tutela applicabile per il licenziamento intimato senza previa contestazione, dovendosi escludere l'operatività del disposto dell'art.3, comma 2, d.lgs. 23/2015, che consente la tutela reintegratoria per insussistenza del fatto nel caso di imprese integranti il requisito dimensionale di cui all'articolo 18, ottavo e nono comma, della legge n. 300 del 1970.

Ebbene, secondo il Giudicante nel caso di specie l'assenza di preventiva contestazione disciplinare da parte datoriale costituisce non una mera deviazione formale dallo schema procedimentale della norma disciplinare, bensì una vera e propria nullità di protezione, che incide concretamente sulle garanzie di difesa del lavoratore.

Ciò in quanto la procedura prevista in materia disciplinare dall'art. 7 dello Stat. Lav. è inderogabile ed è fondata su un evidente scopo di tutela del contraente debole del rapporto, come sancito a chiare lettere dal tenore della norma imperativa, che dispone come il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l'addebito.

Pertanto, non può che richiamarsi l'art.2 comma 1, d.lgs. 23/2015, in base al quale il giudice, con la pronuncia con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio a norma dell'articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità previsti dalla legge, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e qualunque sia la dimensione dell'azienda.

Su tali presupposti, l'estensore dell'ottobre 2024, nel dichiarare la nullità del licenziamento intimato ha condannato parte datoriale alla reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro con le mansioni e il livello precedenti, nonché al pagamento di una somma pari all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione, oltre al versamento dei contribuiti assistenziali e previdenziali, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria come per legge.

Nella seconda pronuncia in esame, invece, il Tribunale di Roma perviene all'applicazione di un regime di tutela differente.

Per l'estensore del febbraio 2025, infatti, nell'ipotesi in cui parte datoriale abbia proceduto al licenziamento in tronco del dipendente senza il rispetto del disposto dell'art. 7 dello Statuto dei lavoratori e senza la preventiva contestazione disciplinare, si rileva un radicale difetto di contestazione dell'infrazione, che comporta l'inesistenza dell'intero procedimento e non solo l'inosservanza delle norme che lo disciplinano.

In tale ambito, tuttavia la necessaria apprezzabilità giuridica del fatto contestato, pur materialmente verificatosi, determina ineludibilmente la sua insussistenza, ai fini e per gli effetti previsti dal comma 2, art. 3 d.lgs. n. 23/2015.

Su tali presupposti, dunque, il secondo estensore, dopo aver evidenziato l'assenza di contestazione sul fatto che i requisiti dimensionali dell'impresa superino le soglie indicate dall'art. 9, d.lgs. n 23 citato (che rinvia all'art. 18, dello Statuto dei lavoratori), conclude per l'annullamento (e non la nullità) del comminato licenziamento, con condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro e al pagamento di un'indennità risarcitoria in misura non superiore a dodici mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento.

Le due sentenze a confronto

La diversità di approdo delle sentenze in menzione ci consente di operare un raffronto tra istituti e discipline di diversa derivazione, ma che risultano, nondimeno, intimamente connessi dal comune file rouge rimediale, inevitabilmente ancorato alle tutele offerte dall'ordinamento per l'ipotesi di integrale mancato rispetto delle garanzie procedurali e sostanziali previste in sede disciplinare.

Come è noto, infatti, è da ritenersi come ius receptum il principio della natura ontologica del licenziamento disciplinare riferito ai comportamenti imputabili ad una condotta asseritamente manchevole del lavoratore, indipendentemente dalla sua qualificazione da parte datoriale e dall'inclusione o meno tra le misure disciplinari previste dallo specifico regime del rapporto.

Senonché e come evidenziato negli accenni sopra riportati alla normativa di riferimento, la violazione dell'art. 7 dello Statuto dei lavoratori può comportare due diversi ordini di conseguenze, dai risvolti completamente differenti.

Se, invero, il procedimento risulta attivato dal datore di lavoro ma sussistono vizi procedimentali o formali (rilevanti ai sensi dell'art. 4 del d.l.gs. n. 23/2015, corrispondente al comma 6 dell'art. 18 st. lav.), il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità, come prescritto dall'art. 4 appena citato.

Ciò a meno che, sulla base della domanda del lavoratore, si accerti la sussistenza dei presupposti per l'applicazione delle tutele di cui agli articoli 2 e 3.

Ed infatti, qualora il datore di lavoro non abbia in radice rispettato il disposto dell'art. 7 dello Statuto dei lavoratori, avendo proceduto direttamente al licenziamento omettendo in toto la preventiva contestazione disciplinare, tale condotta determina l'inesistenza dell'intero procedimento e non solo l'inosservanza delle norme che lo disciplinano.

Non ricorrerebbe, infatti, in tal caso un'ipotesi di mera nullità formale per difetto procedimentale, ma un vizio sostanziale e radicale, che compromette la possibilità di ritenere sussistente giuridicamente il fatto posto a fondamento giustificativo dell'atto risolutorio e ciò, si badi, vale anche per i lavoratori assoggettati al regime delle tutele crescenti, tenuto conto, quanto alla specifica questione dibattuta, della sostanziale uniformità di disciplina delle due normative successive.

Il principale profilo dibattimentale, tuttavia, dipana dalle considerazioni connesse al recente intervento della Corte Costituzionale nostrana, la quale, nel sancire l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (limitatamente alla parola «espressamente») ci ha consegnato una specifica distinzione delle ipotesi di nullità espressa, per le quali è prevista la tutela reintegratoria, da quelle di nullità non espressa, in relazione alle quali manca una specifica indicazione.  

E così, mentre per i casi di licenziamento disciplinare, la normativa de qua dispone la divaricazione del regime di tutela reintegratoria dell'art. 3, comma 2, da quello di tutela indennitaria dell'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, in caso di licenziamento nullo per violazione di una norma imperativa (ma non attinto nel novero delle nullità espresse), parrebbe mancare l'individuazione della tutela per questa fattispecie esclusa dal regime della reintegrazione.

Ebbene, è da tale impostazione che prende le mosse l'estensore capitolino della pronuncia dell'ottobre 2024, evidenziando come, nelle ipotesi di imprese che non integrano il requisito dimensionale di cui all'articolo 18,8 e 9 comma, della legge n. 300 del 1970, si pone il problema di individuare la tutela applicabile per il licenziamento intimato senza previa contestazione, in quanto si tratta di ipotesi non espressamente disciplinata.

Secondo il Giudicante, invero, esclusa l'applicazione del rimedio reintegratorio di cui al secondo comma dell'art.3 del d.lgs. 23/2015 (valevole per l'insussistenza del fatto nel caso di imprese con meno di 15 dipendenti), residuerebbe la sola tutela indennitaria di cui al 1 comma del medesimo art.3, applicabile, tuttavia, per le ipotesi meno gravi (della non ricorrenza degli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa), rispetto all'ipotesi della sostanziale insussistenza del fatto per omessa contestazione disciplinare.

Né, come visto in precedenza, potrebbe applicarsi la tutela di cui all'art.4 d.lgs. n.23/2015, che riguarda solo violazioni di tipo formale, mentre il caso in oggetto, caratterizzato dalla mancanza assoluta di contestazione, incide sulle garanzie di difese previste dalla legge per il lavoratore incolpato.

Secondo il primo estensore, infatti, in tali ipotesi si è in presenza non già di una mera deviazione formale dallo schema procedimentale della norma disciplinare, bensì di una vera e propria nullità c.d. di protezione, avendo la previsione de qua natura inderogabile ed essendo posta a tutela del contraente più debole del rapporto, vale a dire il lavoratore.

Ebbene, in tale ipotesi, varrebbe l'applicazione del principio di rilevabilità d'ufficio delle nullità negoziali emergenti ex actis, da configurarsi, alla stregua delle indicazioni provenienti dalla Corte di giustizia dell'Unione Europea, come una species del più ampio genus rappresentato dalle prime, caratterizzata da una legittimazione ristretta (potendo essere fatta valere dal solo soggetto nel cui interesse è prevista) e dalla rilevabilità d'ufficio, ovviamente subordinata alla verifica dell'utilità pratica che il soggetto protetto possa trame.

Tale impostazione consente, allora, di ricondurre la fattispecie in esame nell'alveo operativo dell'art.2 comma 1, d.lgs. 23/2015, tra le ipotesi di tutela reintegratoria derivanti dall'accertamento di nullità virtuali, ovvero di quelle che, pur in mancanza di tale espressa previsione, costituiscano ipotesi di contrarietà a norme imperative ai sensi del primo coma dell'art.1418 c.c.

Non ricorrerebbe, invero, in tale circostanza, il caso in cui la legge “dispone diversamente” quanto all'impianto sanzionatorio, in quanto, come già detto, essa non rientra né nell'art.9, né nell'art.4, né nell'art.3 del Dlgs 23/2015.

Pertanto, risulterebbe validamente operante il disposto del citato art.2 comma 1, d.lgs. 23/2015, in base al quale il giudice, con la pronuncia con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché riconducibile agli altri casi di nullità (espressamente) previsti dalla legge, ordina al datore di lavoro la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e qualunque sia la dimensione dell'azienda.

Di diverso avviso appare, invece, il tenore della successiva e più recente pronuncia del medesimo Tribunale romano, che, se pur condividendo l'impostazione stigmatoria iniziale del primo estensore, pare divergere con riferimento alla riconducibilità della fattispecie in esame nell'alveo delle nullità virtuali ed all'applicazione della tutela reintegratoria di cui al citato articolo 2.

L'approdo comune, infatti, attiene alla considerazione per cui la fattispecie relativa alla totale omissione del procedimento disciplinare deve essere correttamente sussunta nell'ambito dell'insussistenza del fatto contestato, presupposto questo condiviso anche nella prima parte della citata sentenza n. 10104/2024.

Tuttavia, il secondo estensore non ritiene di poter condividere la conclusione di ritenuta nullità assoluta dell'atto (come affermata nella citata pronuncia dell'ottobre 2024), escludendo che la fattispecie possa essere considerata assoggettata in via diretta ed esclusiva all'art. 1418 c.c. (e ciò sia per il caso di datore di lavoro rientrante nei requisiti dimensionali di cui all'art. 18, sia per il caso di piccole imprese,), che dispone come “il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente”.

Si evidenzia, al riguardo, come tale disposizione codicistica faccia, invero, espressamente salva l'ipotesi in cui, pur in presenza della violazione di norme imperative, il legislatore abbia dettato una disciplina diversa, proprio come nel caso della violazione della procedura di cui all'art. 7 statuto lavoratori, nel regime di tutela sia della legge n. 92 del 2012, sia del d.lgs. n. 23 del 2015.

Secondo l'estensore della pronuncia del 2025, infatti, l'ipotesi di cui si discute risulterebbe “diversamente” regolata, in quanto qualificabile, per l'appunto, come fattispecie di insussistenza del fatto materiale contestato, come tale ricadente nell'alveo dell'art. 3, comma 2, del d.lgs. 23/2015, con conseguente applicabilità della sanzione dell'annullabilità e non della declaratoria di nullità sancita nella precedente pronuncia dell'ottobre 2024.

Come è noto, il carattere espresso della nullità richiamato dal legislatore impone che la disposizione che sancisce un divieto di licenziamento deve anche prevedere, come conseguenza della sua violazione, la sanzione della nullità, come candidamente avviene, ad esempio, nelle ipotesi del licenziamento intimato in concomitanza col matrimonio o in violazione delle normativa sulla maternità e paternità, nonché in tutta una serie di altre ipotesi in cui opera solo la violazione del divieto posto da una norma imperativa.

Per tali ragioni, in caso di licenziamento disciplinare, va esclusa la mancata individuazione legislativa di una specifica forma di tutela, se per l'appunto consideriamo l'esistenza di uno specifico ed articolato regime a ciò dedicato, frutto di una precisa e discrezionale e legittima scelta del legislatore.

La conseguenza di questa ricostruzione è che, muovendo dalla qualificazione dell'ipotesi de qua come fattispecie di insussistenza del fatto contestato, la sanzione non può essere rinvenuta nell'art. 2 del Jobs Act ai fini della pretesa dichiarazione di nullità, in quanto l'apparato sanzionatorio applicabile sarebbe quello specifico previsto dall'art. 3, comma 2, del medesimo corpo regolativo, quale ius singulare.

Tale soluzione, per il secondo estensore, appare del resto perfettamente in linea con la natura generale della tutela indennitaria (sancita dal primo comma dell'art. 3) e con la natura eccezionale e residuale della tutela reintegratoria (di cui al secondo comma del medesimo articolo), secondo le scelte politiche della legge delega.

D'altra parte, tale impostazione troverebbe conferma anche in termini di ragionevolezza, in quanto non appare corretto presupporre che la mera omissione del procedimento disciplinare non venga attratta alla fattispecie della manifesta infondatezza del fatto contestato e venga, invece, sanzionata in modo più grave e rigoroso della medesima, mediante declaratoria di nullità.

Viene in rilievo in tal senso, infatti, il principio di gradazione delle tutele accordate, in uno alla considerazione per il vizio di forma non può essere disciplinato dall'ordinamento in maniera più grave di un vizio di sostanza.

In conclusione

Le pronunce in esame ci consegnano un interessante spunto di riflessione su di una serie di istituti centrali nell'impostazione sistemica dell'ordinamento giuslavoristico, a partire, proprio, dal valore primario del procedimento disciplinare, quale momento di civiltà giuridica a tutela della dignità della persona del lavoratore.

Il punto di convergenza di ambo le disamine giudiziali oggetto di analisi riguarda la considerazione condivisa per cui in caso di radicale omessa contestazione, la necessaria apprezzabilità giuridica del fatto contestato, pur materialmente verificatosi, determina ineludibilmente la sua insussistenza.

L'individuazione concreta delle fattispecie rientranti in tale previsione dipende, invero, dalla interpretazione della espressione “insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore”, che, alla luce dell'orientamento giurisprudenziale ormai fermo sul punto, deve intendersi estesa non soltanto ai casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche alle ipotesi in cui manchi l'elemento psicologico, l'attribuibilità o il fatto (materialmente accaduto) non abbia rilievo disciplinare ovvero risulti totalmente omessa la preventiva contestazione datoriale.

La discrasia valutativa delle sentenze in commento attiene, invece, alla riconducibilità della omissione contestativa in sede disciplinare nell'alveo delle nullità virtuali, con la conseguente applicazione della tutela reintegratoria di cui al citato articolo 2 d.lgs. 23/2015.

Secondo la visione più recente del Tribunale di Roma, invero, i casi di nullità virtuale appaiono contraddistinti dall'esistenza di una norma giuridica non solo inderogabile, ma a carattere imperativo ed a contenuto proibitivo, posta a tutela di un diritto alla conservazione del posto o almeno ad una stabilità garantita dal legislatore in modo speciale, situazione ben diversa, quindi, dal caso di un licenziamento disciplinare irrogato senza il rispetto del procedimento di cui all'art. 7, l. 300/1970, ma di certo senza violazione di alcun divieto imperativo.

In tal senso, infatti, il Legislatore ha più volte individuato ipotesi “significative” di nullità cd. virtuale, quali, ad esempio, quelle del licenziamento in periodo di comporto per malattia (in violazione dell'art. 2110 c.c.) ovvero del licenziamento del whistleblower (in violazione dell'art. 2, comma 2-quater, della legge 30 novembre 2017, n. 179), a conferma della considerazione per cui la fattispecie generale del licenziamento nullo per violazione di norme imperative non appare revocata in dubbio dalla possibile previsione, rientrante nella discrezionalità del legislatore, di specifiche ipotesi di nullità di protezione conseguenti alla violazione di prescrizioni procedimentali di garanzia per il lavoratore, sottratte al regime della tutela reintegratoria in quanto integranti ipotesi in cui «la legge dispone diversamente», in ossequio al disposto dell'art. 1418, primo comma, cod. civ.

La conseguenza di questa ricostruzione è che, muovendo dalla qualificazione dell'ipotesi de qua come fattispecie di insussistenza del fatto contestato, la sanzione non può essere rinvenuta nell'art. 2 del Jobs Act ai fini della pretesa dichiarazione di nullità, in quanto l'apparato sanzionatorio sarebbe da ricondurre alla specifica previsione dall'art. 3, comma 2, del medesimo corpo regolativo, quale ius singulare.

Vediamo, dunque, quale dei due approdi risulterà confermato dalle Corti di merito e legittimità, così da cristallizzare un orientamento di evidente importanza in materia.

Trib. Roma sez. lav. 13 febbraio 2025

Trib. Roma sez. lav. 12 ottobre 2024 n. 10104

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