Mobilità territoriale del personale scolastico e tutele del dipendente disabile
08 Aprile 2025
Massima Deve essere rimessa alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea la questione se l'art. 5 “Soluzioni ragionevoli per i disabili” della Direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, debba essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale, quale quella italiana di cui al Contratto Collettivo Nazionale Integrativo concernente la mobilità del personale docente, educativo ed ATA, 2017/2018, che in ragione del combinato disposto degli artt. 6, comma 2, e 13, comma 1, riconosce la precedenza di cui al punto III, n. 1, del suddetto art. 13, comma 1, al personale scolastico disabile di cui all'art. 21, della legge n. 104/92, richiamando l'art. 601 del d.lgs. n. 297/94, facendo precedere la mobilità endoprovinciale alla mobilità tra province.Deve inoltre essere sottoposto alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea il seguente quesito: se ai sensi dell'art. 2, paragrafo 2, lettera b), i) della direttiva 2000/78/CE, la situazione di particolare svantaggio in cui possono essere messi i docenti con disabilità superiore ai due terzi dalle suddette disposizioni nazionali sia oggettivamente giustificata da una finalità legittima, per dover assicurare lo svolgimento di operazioni di mobilità territoriale assai complesse, che coinvolgono tutto il territorio nazionale, per l'inizio dell'anno scolastico, e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e se essi non vadano oltre quanto necessario per raggiungere l'obiettivo perseguito dalla disciplina normativa contrattuale. O se, invece, la suddetta disciplina comporti una discriminazione in danno dei suindicati docenti che si traduce nella vanificazione, dei fatti, della riconosciuta precedenza nelle procedure di mobilità perché riguardante solo la mobilità endoprovinciale e non quella tra Province e quindi priva di carattere assoluto (come previsto per altre categorie di disabili). Il caso Con l'ordinanza interlocutoria segnalata, la Corte di cassazione pone alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea, ai sensi dell'art. 267 TFUE, una questione relativa alla posizione e alle tutele riconosciute ai docenti con disabilità, ai sensi della l. 104/1992, nel contesto delle procedure di mobilità territoriale del personale scolastico. Nel caso di specie, una docente con un grado di disabilità superiore ai due terzi, impiegata presso la scuola superiore, ha partecipato alla procedura di mobilità nazionale indetta per l'anno scolastico 2018-2019 dal Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca (oggi Ministero dell'Istruzione e del Merito), indicando la precedenza prevista dall'art. 21 l. 104/1992. Tuttavia, all'esito della predetta procedura, la richiedente non ha ottenuto il trasferimento nella sede prescelta, poiché non vi risultavano posti disponibili in quanto già assegnati nell'ambito della precedente fase di mobilità endoprovinciale. La docente, pertanto, ha presentato domanda giudiziale volta ad ottenere il riconoscimento del proprio diritto al trasferimento presso la sede selezionata, invocando l'applicazione in via assoluta della precedenza prevista per i disabili ai sensi dell'art. 21 l. 104/1992. La domanda così formulata è stata rigettata sia in primo che in secondo grado. I giudici di merito, infatti, richiamando l'art. 13 del Contratto Collettivo Nazionale Integrativo applicabile al caso di specie, hanno ritenuto che il diritto di precedenza preteso dalla ricorrente potesse essere fatto valere solo nell'ambito delle operazioni di mobilità alle quali ella aveva partecipato, dunque non via assoluta. Avverso la decisione della Corte d'appello ricorre in Cassazione la lavoratrice. La questione All'attenzione della Corte di legittimità, dunque, è sottoposta la dubbia compatibilità del sistema di mobilità del personale scolastico, disciplinato dal relativo CCNI, con il principio di effettività delle tutele riconosciute al dipendente disabile, ai sensi della normativa nazionale e sovranazionale in materia. In particolare, ciò che la ricorrente contesta al predetto sistema di mobilità è di pregiudicare l'effettività della tutela riconosciuta dall'art. 21 l. 104/1992, generando una situazione discriminatoria nei confronti del personale disabile, laddove il fattore di precedenza previsto da tale disposizione sia applicato all'interno di ciascuna fase della procedura di mobilità e non in via assoluta. Ciò, infatti, espone il personale disabile al rischio di non poter beneficiare della citata tutela nel caso in cui – come avvenuto nella fattispecie sottoposta alla Corte di cassazione – i posti disponibili presso la sede prescelta dal lavoratore disabile nell'ambito della mobilità nazionale siano stati già tutti assegnati a seguito delle operazioni di mobilità interna alla provincia. Lo scrutinio del quale è incaricata la Corte di cassazione, pertanto, dovrà necessariamente considerare i concetti di «discriminazione indiretta» e di «soluzioni ragionevoli per i disabili», entrambi enucleati dalla direttiva 2000/78/CE. Proprio il corretto significato da attribuire a questi ultimi è l'oggetto della richiesta di intervento formulata dal giudice di legittimità, rivolta alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea ai sensi dell'art. 267 TFUE. Al giudice europeo si chiede, pertanto, di valutare se, nell'ambito delle procedure di mobilità del personale scolastico, la corretta applicazione della direttiva 2000/78/CE risulta pregiudicata dalla normativa nazionale, rectius dal CCNI vigente in materia. Le soluzioni giuridiche La tutela del disabile, specialmente nel contesto lavorativo, non ha un unico referente normativo, ma si compone di un sistema stratificato di fonti, di livello e provenienza differenti. Di seguito sono evidenziate le disposizioni che costituiscono gli essenziali punti di riferimento per la soluzione della questione oggetto dell'ordinanza interlocutoria in esame. a. La legislazione nazionale in tema di tutele dei lavoratori disabili. In ambito nazionale, i principi fondamentali in tema di tutela delle persone con disabilità sono dettati dalla l. 104/1992, oggetto di recenti modifiche disposte dal d.lgs. 62/2024 al fine di operare un riordino ed una revisione delle disposizioni vigenti in materia. Il pregio della citata legge è, innanzitutto, quello di positivizzare a livello normativo primario lo status legato alla disabilità e, inoltre, di enucleare le principali situazioni soggettive che da esso derivano. Tra queste ultime, alcune sono destinate ad incidere sul rapporto di lavoro, modificandone e integrandone sia la disciplina che le modalità di svolgimento, considerata la particolare condizione in cui versa il lavoratore disabile. Tra le disposizioni di maggior rilievo, per quanto riguarda la tutela nel contesto lavorativo, centrale è l'art. 21 l. 104/1992– invocato dalla docente nel caso oggetto dell'ordinanza interlocutoria –, che riconosce alle persone assunte presso enti pubblici con un grado di invalidità superiore ai due terzi, o con determinate minorazioni individuate dalla legge, il diritto alla scelta prioritaria tra le sedi disponibili, nonché il diritto di precedenza in sede di trasferimento su base volontaria. Occorre evidenziare che la giurisprudenza ha interpretato la disposizione citata in modo da ritenere che i diritti da essa riconosciuti abbiano natura non assoluta, bensì subordinata alle superiori esigenze organizzative, rimesse alla scelta discrezionale dell'Amministrazione (Cass., sez. lav., 20 settembre 2021, n. 25409). Tale conclusione si fonda, principalmente, sulla valorizzazione della ratio della disposizione – basata su una logica di bilanciamento di contrapposti interessi coinvolti –, e sul riferimento alle «sedi disponibili», locuzione che implicitamente presuppone la scelta dell'Amministrazione di rendere appunto disponibili, attraverso la procedura di mobilità del personale, alcune sedi di lavoro. Peraltro, occorre evidenziare che la formula impiegata dalla disposizione in esame non sembra attribuire al lavoratore disabile un diritto all'assegnazione presso la sede di lavoro selezionata. Piuttosto, l'art. 21 l. 104/1992 riguarda la fase prodromica all'assegnazione e impone al datore di lavoro di valutare con precedenza la richiesta formulata dal personale in condizione di fragilità. b. Le tutele del lavoratore disabile previste dalla normativa in ambito scolastico. Il d.lgs. 297/1994 (Testo Unico in materia di istruzione) detta, agli articoli 465 e 470, la disciplina della mobilità territoriale del personale in ambito scolastico. Nel dettaglio, mentre l'art. 470 rimanda a specifici accordi contrattuali tra le organizzazioni sindacali e il Ministero per la definizione dell'ordine di priorità tra le varie operazioni di mobilità, il precedente art. 465 stabilisce che, nelle more dell'adozione dei citati accordi, «i trasferimenti nell'ambito della provincia sono disposti con precedenza rispetto ai trasferimenti da altra provincia». In merito al citato rinvio operato dal legislatore alla contrattazione collettiva, occorre precisare che, come di recente ribadito dalla Corte di cassazione (v. Cass., sez. lav., 10 gennaio 2024, n. 1055, che a sua volta richiama il principio già espresso da Cass., sez. lav., 21 febbraio 2021, n. 4677), esso si fonda sul combinato disposto dell'art. 40, co. 1, d. lgs. n. 165/2001, e dei citati artt. 462, co. 7 e 470, co. 1 e 2, d. lgs. n. 297/1994. Dunque, la competenza assegnata alla contrattazione collettiva, pur dovendo rimanere nel contorno delle norme di legge, è destinata a manifestarsi con autonomia rispetto ai profili di dettaglio non definiti già a livello legislativo, con inevitabile regolazione in tale sede dei contrapposti interessi coinvolti. Il merito di tali scelte, effettuate dalle parti sociali in sede di contrattazione, non è sindacabile dal giudice se non sotto il profilo della legittimità e della manifesta irragionevolezza o nell'ipotesi in cui esse generino una ingiustificata disparità di trattamento nei confronti dei lavoratori disabili. Ulteriore disposizione rilevante nell'ambito in esame è l'art. 601, d.lgs. 297/1994, che estende le tutele di cui al citato art. 21 l. 104/1992 al personale scolastico, riconoscendogli la possibilità di beneficiare della precedenza nella assegnazione della sede di impiego «all'atto della nomina in ruolo, dell'assunzione come non di ruolo e in sede di mobilità». Occorre evidenziare, tuttavia, che l'art. 601, d.lgs. 297/1994 non si pone in un rapporto di specialità rispetto alla disposizione da esso richiamata; pertanto, in proposito valgono le medesime considerazioni già svolte nel precedente paragrafo, circa la natura ascrivibile ai diritti dalla stessa riconosciuti. In esecuzione del rinvio operato dall'art. 470, d.lgs. 297/1994, il combinato disposto degli artt. 4 e 10 del CCNL 29 novembre 2007 relativo al personale del Comparto Scuola, delega a sua volta alla Contrattazione Integrativa la definizione dei criteri e delle modalità per attuare la mobilità territoriale del personale scolastico. Pertanto, dando attuazione sia alla normativa nazionale che al richiamato CCNL, è stato siglato il CCNI concernente la mobilità del personale docente, educativo ed A.T.A., 2017/2018, che all'art. 6 ribadisce il sistema di mobilità già enucleato dalla fonte legislativa, sancendo espressamente la priorità delle operazioni di mobilità all'interno della provincia su quelle interprovinciali. Il relativo meccanismo di funzionamento è dettagliatamente descritto nell'Allegato 1 al predetto Contratto Integrativo. Con il successivo art. 13, il Contratto Integrativo detta il sistema delle precedenze, chiarendo che le stesse operano nell'ambito della sola mobilità territoriale per le quali trovano applicazione, ad eccezione di quella prevista per il personale scolastico non vedente o emodializzato, che opera in via assoluta. La disposizione da ultimo richiamata è stata oggetto di diversi interventi della giurisprudenza. Da ultimo, Cass., sez. lav., 22 febbraio 2021, n. 4677, ne ha affermato la compatibilità con i principi delineati dalla l. 104/1992, in special modo con il principio di bilanciamento degli interessi del lavoratore disabile e dell'amministrazione, che la citata disposizione normativa sottende. Per quanto rileva in questa sede, il richiamato art. 13, co. 1, al punto III, n. 1, riconosce al personale scolastico la precedenza di cui all'art. 21 l. 104/1992, stabilendo che la stessa può essere fruita «all'interno e per la provincia in cui è ubicato il comune di residenza», alle condizioni indicate nella medesima disposizione. c. I principi generali e la normativa europea. Dopo aver ricostruito la normativa nazionale – di origine legislativa e di fonte negoziale – in tema di tutela della disabilità in ambito lavorativo, occorre analizzare i principali riferimenti di provenienza sovranazionale. Nel sistema multilivello delle fonti in materia, un ruolo centrale è svolto dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, che persegue lo scopo espresso di «promuovere, proteggere e garantire» il pieno ed eguale godimento dei diritti e delle libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità. L'art. 2 della Convenzione è una disposizione di primaria importanza, poiché, oltre a definire il concetto di disabilità, qualifica ciò che costituisce una discriminazione fondata su tale condizione, come «qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione», compreso il rifiuto di un accomodamento ragionevole, che abbia come conseguenza quella di «pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento e l'esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali» in ogni campo della vita, individuale e in società. La citata Convenzione è stata ratificata dall'Italia con l. 18/2009, ed approvata il 26 novembre 2009 dall'Unione Europea con la decisione 2010/48/CE del Consiglio Europeo. In proposito, occorre ricordare che, ai sensi dell'art. 216 TFUE, gli accordi internazionali conclusi dall'Unione vincolano le istituzioni della stessa e gli Stati membri, e prevalgono sul diritto derivato europeo. Pertanto, come chiarito sia dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea (v. la sentenza dell'11 aprile, HK Danmark, resa nelle cause riunite C-335/11 e C- 337/11, e da ultimo la sentenza del 18 gennaio 2024, resa nella causa C-631/22), che dal giudice di legittimità italiano (v. Cass., sez. lav., 31 marzo 2023, n. 9095), le direttive europee in tema di tutela antidiscriminatoria devono essere interpretate alla luce della citata Convenzione ONU. Al riguardo, la tutela contro le discriminazioni basate sulla disabilità a livello europeo si fonda primariamente sugli articoli 21 e 26 Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea, e, per quanto riguarda più nello specifico il contesto lavorativo, sulla direttiva 2000/78/CE. Segnatamente, mentre l'art. 21 della citata Carta sancisce il divieto di qualsiasi forma di discriminazione fondata sulla condizione di disabilità, con il successivo art. 26 si riconosce il diritto dei disabili «di beneficiare di misure intese a garantirne l'autonomia, l'inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità» (c.d. azioni positive). In sintonia con i suddetti principi si pone la predetta Direttiva 2000/78/CE del 27 novembre 2000, attraverso la quale il legislatore europeo è intervenuto dettando un quadro generale delle tutele riconosciute alla persona disabile in ambito lavorativo – recepita dall'ordinamento italiano con il d.lgs. 216/2003 –, con l'espresso obiettivo di rendere effettivo il principio di parità di trattamento del disabile in tale contesto, contrastando le discriminazioni fondate – tra le altre ragioni – sulla disabilità. d. «Discriminazione indiretta» e «soluzioni ragionevoli per i disabili». Come anticipato, è proprio sull'esatto significato da attribuire alla citata normativa europea che si interroga il giudice di legittimità nell'ordinanza segnalata. In particolare, il dubbio interpretativo ricade sui concetti di «discriminazione indiretta» e di «soluzioni ragionevoli per i disabili», rispettivamente previsti dall'art. 2, co. 2, lett. b), e dall'art. 5, direttiva 2000/78/CE. Per quanto riguarda il primo, si è in presenza di una «discriminazione indiretta» quando «una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio» le persone disabili (art. 2, co. 2, lett. b, direttiva 2000/78/CE). Tuttavia, la disposizione, il criterio o la prassi suddetti non sono considerati fonte di una discriminazione del tipo in esame quando: (i) siano giustificati oggettivamente da una «finalità legittima», perseguita attraverso l'impiego di mezzi «appropriati e necessari»; (ii) il datore di lavoro sia obbligato ad adottare delle «soluzioni ragionevoli» – di cui al successivo art. 5 della direttiva – per i lavoratori disabili, al fine di «ovviare agli svantaggi» provocati a questi ultimi da una condizione potenzialmente lesiva nei loro confronti. Una forma di discriminazione indiretta è stata ravvisata dalla Corte di Giustizia in un caso di licenziamento per superamento del periodo di comporto del lavoratore disabile. Per la Corte, infatti, l'art. 2, co. 2, lett. b), della predetta direttiva osta ad una normativa nazionale che consenta il licenziamento del lavoratore disabile in ragione delle assenze giustificate e dovute alla condizione di disabilità, facendo salva la verifica in concreto sulla legittima necessità di contrastare in tal modo l'assenteismo dei lavoratori (v. sentenza CGUE 18 gennaio 2018, causa C-270/16, Carlos Enrique Ruiz Conejero). Sulla scia di tale decisione, anche il giudice di legittimità italiano ha valutato come potenziale fonte di discriminazione indiretta le disposizioni della contrattazione collettiva che non prevedano una differenziazione nel calcolo del periodo di comporto tra lavoratore disabile e tutti gli altri (v. Cass., sez. lav., 31 marzo 2023, n. 9095; Cass., sez. lav., 23 maggio 2024, n. 14402). Lo strumento utile per assicurare il rispetto del principio di parità di trattamento nei confronti del lavoratore disabile, a fronte di potenziali discriminazioni indirette, è individuato nell'adozione, da parte dei datori di lavoro, di «soluzioni ragionevoli», come peraltro già previsto dall'art. 2 della Convenzione ONU. Il legislatore europeo, all'art. 5 della direttiva, non tipizza le possibili «soluzioni ragionevoli» ma, con un approccio casistico, rimette al datore di lavoro la scelta tra i provvedimenti che risultino appropriati all'esito di una valutazione sulle esigenze proprie della situazione concreta, sempre che ciò non richieda la sopportazione da parte del medesimo di un onere finanziario sproporzionato, che non sia compensato da sufficienti misure predisposte dalla normativa nazionale a favore dei disabili. In proposito, il considerando n. 20 della direttiva 2000/78/CE individua espressamente le «soluzioni ragionevoli» nelle «misure efficaci e pratiche destinate a sistemare il luogo di lavoro in funzione dell'handicap, ad esempio sistemando i locali o adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro, la ripartizione dei compiti o fornendo mezzi di formazione o di inquadramento». Rilevante è anche il Codice di buone prassi per l'occupazione delle persone con disabilità, adottato con decisione dell'Ufficio di Presidenza del Parlamento Europeo il 22 giugno 2005, volto a garantire la parità di trattamento del personale disabile alle dipendenze delle Istituzioni europee. Nello specifico, tale ultimo Codice individua una serie di azioni che ciascuna Istituzione europea, conformemente alle proprie esigenze, si impegna a mettere in campo per soddisfare le necessità dei dipendenti con disabilità, tra le quali, per esempio, quella di rendere più accessibili i luoghi di lavoro. L'obbligo per i datori di lavoro di adottare soluzioni ragionevoli per i dipendenti disabili è previsto, a livello nazionale, dall'art. 3, co. 3-bis, d.lgs. 216/2003, introdotto in attuazione della sentenza della Corte di Giustizia del 4 luglio 2013, C-312/11, Commissione c. Italia, resa nell'ambito di una procedura di infrazione nei confronti del nostro Paese. Oggi, a seguito della riforma in materia di disabilità operata con d.lgs. 62/2024, l'art. 5-bisl. 104/1992, rubricato «Accomodamento ragionevole», attribuisce in via generale – quindi non solo nell'ambito del rapporto di lavoro – alle pubbliche amministrazioni, ai concessionari di pubblici servizi ed ai soggetti privati l'onere di adottare misure idonee a tutelare la parità di trattamento della persona con disabilità. La citata disposizione specifica la natura sussidiaria del ragionevole accomodamento rispetto alle tutele riconosciute dalla legge al soggetto disabile, rimarcando così lo stretto legame di tale strumento con la singola situazione concreta. Osservazioni In attesa di conoscere i termini della decisione della Corte di Giustizia, si possono svolgere in questa sede alcune considerazioni di carattere generale, determinate innanzitutto dalla formulazione dei quesiti operata dal giudice di legittimità. Giova in proposito ribadire che la Corte di cassazione domanda al giudice europeo di valutare: (a) se l'art. 5 della direttiva 2000/78/CE osta alla normativa nazionale – nella specie contenuta nel CCNI – in tema di mobilità del personale scolastico; (b) se il sistema di mobilità delineato dalla citata disciplina di fonte negoziale integri o meno nei confronti del personale disabile una «discriminazione indiretta» ai sensi dell'art. 2, par. 2, lett. b), i) della medesima direttiva.
Tali richieste avanzate dal giudice nazionale paiono a chi scrive contrastanti con lo spirito e la funzione dell'istituto processuale disciplinato dall'art. 267 TFUE, espressione di un generale principio di cooperazione tra giudici nazionali ed europei, volto ad assicurare una interpretazione uniforme del diritto dell'Unione. Ai sensi dell'art. 267, par. 1, lett. a), TFUE, l'oggetto della questione che può essere sottoposta in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia è la sola interpretazione del diritto europeo, la cui soluzione è vincolante per il giudice a quo nella decisione della causa dinanzi ad esso pendente. Difatti, lo strumento del rinvio pregiudiziale non assolve una funzione di controllo – nemmeno indiretto – della compatibilità della normativa nazionale con il diritto dell'Unione da parte del giudice europeo, compito che invece spetta esclusivamente al giudice nazionale una volta che la Corte di Giustizia si sia pronunciata sulla corretta interpretazione del diritto europeo. Pertanto, l'oggetto del quesito proposto dal giudice nazionale, volto a sollecitare una pronuncia della Corte che spieghi la portata applicativa del diritto europeo, deve (o dovrebbe) essere esclusivamente quest'ultimo. Il diritto nazionale ed il fatto controverso, pure riferiti dal giudice a quo nell'atto che rimette la questione alla Corte di Giustizia, le consentono esclusivamente di contestualizzare la questione medesima, e di valutarne l'effettiva incidenza sulla causa principale. In nessun caso, dunque, i giudici di Lussemburgo potranno pronunciarsi direttamente sulla compatibilità del diritto nazionale a quello europeo. Invece, nel caso in esame i quesiti formulati dalla Cassazione sembrano richiedere alla Corte una valutazione espressa di compatibilità tra la normativa nazionale e quella europea. Tuttavia, in proposito, occorre distinguere tra le due questioni prospettate. Il secondo quesito, per come formulato, presuppone l'esistenza effettiva di una situazione di particolare svantaggio per i docenti con disabilità superiore ai due terzi causata dalla disciplina in tema di mobilità del personale scolastico. Ciò che si chiede alla Corte, dunque, è di verificare se ai sensi dell'art. 2, par. 2, lett. b), i) della direttiva 2000/78/CE tale disciplina sia oggettivamente giustificata da una finalità legittima, o se invece comporti una «discriminazione indiretta» nei confronti del personale scolastico. Oltre a non chiarire quale sia il dubbio interpretativo sollevato dalla Corte di cassazione rispetto al concetto di «discriminazione indiretta», di cui alla citata normativa europea, il quesito prospetta la necessità di un giudizio di bilanciamento di interessi tra la tutela del lavoratore disabile e la ragionevole organizzazione degli uffici pubblici la cui definizione spetta inequivocabilmente al giudice nazionale, riguardando il singolo caso concreto, nonché le scelte operate dal legislatore e, nella specie, dalle parti sociali in sede di contrattazione collettiva integrativa. Per tale ragione, non può escludersi che il giudice europeo si esprimerà nel senso della irricevibilità di tale questione pregiudiziale. Quanto al primo quesito, relativo alla dubbia compatibilità tra la normativa nazionale e il principio sancito dall'art. 5 della direttiva 2000/78/CE, sebbene non correttamente formulato – in quanto, come visto, sembra domandare alla Corte di giustizia una valutazione che non le compete – è possibile che il relativo esito non sarà della irricevibilità, ma che il giudice europeo lo riformuli di modo da evidenziare i dubbi sulla corretta definizione del concetto di “soluzioni ragionevoli per i disabili” che, come anticipato, rappresenta effettivamente un certo grado di indeterminatezza che necessita di essere colmato dall'interprete. Quest'ultimo quesito, inoltre, manifesta la sempre maggiore tendenza delle Corti nazionali – alla quale tuttavia la Corte di Giustizia non si sottrae – di sollecitare un pronunciamento del giudice europeo sempre più proteso ad una valutazione diretta di compatibilità tra il diritto dei singoli Stati con quello di derivazione europea. Tendenza che, ad ogni modo, si pone in contrasto con la logica propria dell'art. 267 TFUE. b. Sulla rilevanza della questione interpretativa pregiudiziale. Il tema della formulazione e della ricevibilità del quesito è strettamente legato a quello della sua rilevanza nel giudizio nazionale, che nel sistema delineato dall'art. 267 TFUE si sostanzia in una valutazione operata dal giudice a quo circa la effettiva pregiudizialità, rispetto alla soluzione della causa dinanzi ad esso pendente, della questione interpretativa attinente al diritto europeo. In proposito, la Corte nell'ordinanza in commento fonda la rilevanza della questione pregiudiziale interpretativa, innanzitutto, sul fatto che il giudizio di cassazione abbia ad oggetto un rapporto di lavoro subordinato, al quale si applica la direttiva 2000/78/CE (v. la richiamata sentenza della CGUE del 19 luglio 2017, Abercrombie & Fitch Italia, C-143/16). In secondo luogo, la Corte liquida il problema della rilevanza affermando che l'interpretazione richiesta alla Corte di Giustizia sulla corretta interpretazione di detta direttiva risulta necessaria alla definizione del giudizio di legittimità «atteso che il criterio apparentemente neutro della priorità della mobilità endoprovinciale rispetto a quella tra province, può mettere in posizione di particolare svantaggio il docente che si trovi nelle condizioni di cui all'art. 21 della legge n. 104 del 1992, rispetto al docente che non versi in questa condizione, attesa la progressiva riduzione dei posti disponibili». Sotto il profilo in esame, la pronuncia della Corte di legittimità presenta un aspetto di interesse, sul quale non si registrano precedenti giurisprudenziali, rappresentato dalla circostanza per cui il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia è stato occasionato dalla presunta incompatibilità del diritto dell'Unione non già con una fonte nazionale di rango normativo primario, ma – come anticipato – con un atto di autonomia negoziale collettiva, ossia il CCNI in ambito di mobilità del personale scolastico, rispetto al quale peraltro – per come risulta dal testo dell'ordinanza in commento – le parti della controversia non hanno posto in contestazione la corretta interpretazione o applicazione. Piuttosto, ciò che si contesta nell'ambito del giudizio nazionale è proprio la compatibilità – dunque la validità – della scelta operata dall'Amministrazione e dai rappresentanti sindacali dei dipendenti pubblici in sede di contrattazione collettiva integrativa con le tutele, nazionali ed europee, riconosciute ai lavoratori disabili. In proposito, giova evidenziare l'ontologica differenza tra l'istituto processuale europeo in esame e l'incidente di costituzionalità in punto di rilevanza della questione. Mentre nel primo la rilevanza riguarda l'applicazione del diritto europeo – del quale si chiede l'interpretazione da parte della CGUE – per la definizione di una controversia nazionale, nel secondo tale requisito si sostanzia nell'impossibilità per il giudice a quo di decidere una controversia senza fare applicazione di una norma rispetto alla quale sia sollevata una questione di illegittimità costituzionale non manifestamente inammissibile e non manifestamente infondata. Pertanto, il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, per la funzione che svolge, sembra prescindere dal rango che assume nell'ordinamento interno la fonte sulla quale il giudice nazionale, all'esito della pronuncia della Corte medesima, dovrà svolgere una valutazione di compatibilità o meno con l'ordinamento europeo. Diversamente, come pure evidenziato dalla giurisprudenza, la questione di legittimità costituzionale non può avere ad oggetto fonti di rango diverso dalla legge o aventi forza di legge (art. 23, co, 1., l. 87/1953). In proposito, le Sezioni Unite della Corte di cassazione con pronuncia dell'8 luglio 2008, n. 18621, dopo aver ritenuto che i contratti collettivi del settore pubblico, in forza dell'art. 64, d.lgs. 65/2001, sono stati equiparati agli atti normativi ai soli fini processuali dell'ammissibilità della denuncia di violazione e falsa applicazione di clausole nel ricorso per cassazione, hanno evidenziato che sul piano sostanziale non è stata alterata la loro natura di atti negoziali. Pertanto, non è ammissibile un incidente di costituzionalità avverso questi ultimi. Al contrario, non sembra potersi dubitare della ammissibilità e della rilevanza della questione pregiudiziale avanzata dal giudice nazionale con l'ordinanza in esame. Ciò, inoltre, considerando che nel caso di specie la Corte di cassazione è stata chiamata a valutare la compatibilità con l'ordinamento europeo di un atto di autonomia privata che – in forza della delega operata dal legislatore – costituisce l'unica fonte di regolamentazione delle operazioni di mobilità del personale scolastico. Il tema, così prospettato, si inscrive nella più ampia questione attinente al rapporto esistente tra diritto eurounitario e contrattazione collettiva, ed ai poteri di sindacato riconosciuti al giudice di legittimità rispetto a tali ultimi atti negoziali. In particolare, ciò su cui sarà necessario soffermare l'attenzione consiste nelle conseguenze che la pronuncia della Corte di Giustizia potrà avere, per il tramite del giudice nazionale, sulla contrattazione collettiva che risulti essere in contrasto con il diritto europeo. Si tratta di un tema poco indagato, quantomeno rispetto alla contrattazione collettiva relativa al pubblico impiego, e sul quale si registra una recente pronuncia della Corte di cassazione. Il giudice di legittimità, in particolare, esclude di poter risolvere il contrasto tra la normativa eurounitaria e la contrattazione collettiva nel senso di una declaratoria di nullità di quest'ultima. Piuttosto, la Suprema Corte impiega il rimedio della «disapplicazione della norma interna nella parte di essa che risulti in contrasto con quella eurounitaria e con applicazione diretta di quest'ultima, in quanto giuridicamente prevalente». Bussole di inquadramento |