Divisione delle parti comuni dell'edificioFonte: Cod. Civ. Articolo 1119
25 Luglio 2017
Inquadramento
L'art. 1119 c.c. - oggetto di una lieve modifica ad opera della l. n. 220/2012 - dispone che «le parti comuni dell'edificio non sono soggette a divisione, a meno che la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l'uso della cosa a ciascun condomino e con il consenso di tutti i partecipanti al condominio». Emerge, innanzitutto, la differenza rispetto all'istituto della comunione, laddove il Legislatore ha manifestato il suo disfavore in ordine al permanere dello stato di indivisione, riconoscendo, di regola, al singolo comunista il diritto di chiedere la divisione (con i soli limiti contemplati dall'art. 1112 c.c.), consentendo al giudice di intervenire in tal senso su richiesta al fine di sopperire alla volontà contraria di alcuni partecipanti (art. 1111 c.c.), nonché ammettendo che il partecipante possa disporre del suo diritto e cedere ad altri il godimento della cosa nei limiti della sua quota (art. 1103, comma 1, c.c.). Dal sistema condominiale, si evince invece che le parti comuni del fabbricato sono specificamente destinate a servire le proprietà esclusive di tutti i condomini, sicché la norma de qua tende appunto ad impedire che, disponendosi un'eventuale divisione di una parte comune, possa risultare pregiudicata la posizione di qualche condomino, nel senso che la suddetta divisione abbia la conseguenza di rendergli meno agevole l'uso della cosa comune, menomandola così, implicitamente, nel godimento di quella che è la sua proprietà esclusiva e nello stesso valore patrimoniale di quest'ultima. Il consenso unanime dei condomini
La disposizione di cui all'art. 1119 c.c., concernente l'indivisibilità delle parti comuni, dovrebbe considerarsi inderogabile, giusta il richiamo di tale norma nell'elenco dell'invariato comma 4 dell'art. 1138 c.c., che si occupa dei limiti del regolamento di condominio, anche se tale previsione è apparsa ad alcuni (Triola) superflua, perché la divisione delle parti comuni è qualcosa di diverso dalle norme circa l'uso delle parti comuni, che rappresentano il contenuto «normale» di tale regolamento, per cui, anche senza il divieto di cui all'art. 1138, comma 4, c.c., non vi sarebbero stati dubbi in ordine all'invalidità di disposizioni regolamentari che tale divisione dovessero disciplinare, poiché la divisione richiede l'accordo di tutti i condomini e, quindi, secondo i principi generali, non potrebbe essere imposta in base a disposizione regolamentare, non negoziale, inidonea come tale ad incidere sui diritti dei singoli condomini. Una parte della dottrina (Salis) sostiene che la norma in esame non abbia carattere cogente, sicché un regolamento c.d. contrattuale, ossia approvato all'unanimità, potrebbe prevedere le modalità di divisione delle parti comuni, anche se tale divisione possa provocare in concreto a qualche condomino quell'incomodo nell'uso della cosa che, in linea di principio, il Legislatore ha inteso evitare; in buona sostanza, tra i condomini verrebbe stipulato un contratto preliminare di divisione, con la conseguenza che, da un lato, il suo contenuto deve essere determinato, e, dall'altro, esso non sarà opponibile agli aventi causa dagli originari condomini stipulanti (in forza dell'art. 1372, comma 2, c.c.). Per completezza sull'argomento, va rilevato che la giurisprudenza (Cass. civ., sez. II, 11 giugno 1963, n. 1553) ha ritenuto che il patto di indivisione contenuto nel regolamento contrattuale non incontra il limite temporale ivi previsto (dieci anni), per i corrispondenti patti della comunione ordinaria, dall'art. 1111, comma 2, c.c., mentre, al contrario, la dottrina è dell'avviso che la mancanza di una norma ad hoc fa sì che, per effetto dell'art. 1139 c.c., si applichi al condominio l'art. 1111, comma 2, citato; in realtà, un eventuale patto di indivisione, contenuto nel suddetto regolamento, non farebbe altro che riprodurre il disposto dell'art. 1119 c.c. e, pertanto, sarebbe privo di un qualsiasi valore negoziale, finendo per rendere ultroneo un problema di efficacia temporale dello stesso, già risolto dallo stesso art. 1119. Orbene, una superficiale lettura della norma porterebbe ad opinare che il fatto preclusivo alla divisione nel condominio sia l'incomodo godimento della cosa comune a seguito del frazionamento: così la divisione non limiterebbe solo il godimento della parte comune, ma addirittura priverebbe ciascun condomino della possibilità di utilizzare le parti assegnate agli altri, sicché la divisione non sarebbe mai consentita; invece, il disposto in esame acquista un significato se per «cosa, il cui uso più incomodo è di ostacolo alla divisione» si intende la proprietà singola, servita dal bene condominiale, in quanto ne sia resa meno facile la diretta fruizione o perché venga ridotta l'utilità o il godimento ricavabile dal bene condominiale medesimo (Cass. civ., sez. II, 24 ottobre 1978, n. 4806, evidenziando che una diversa interpretazione sarebbe un «non senso»; cui adde Cass. civ., sez. II, 29 luglio 1963, n. 2151, la quale ha affermato la divisibilità di un vano adiacente ad un pianerottolo, che serviva di passaggio per l'accesso agli appartamenti di proprietà esclusiva dei condomini e, quindi, non era utile in se stesso, ma era destinato al servizio di suddetti appartamenti). Se, quindi, si vuole realizzare, permanendo il vincolo condominiale, lo scioglimento parziale del condominio, la relativa deliberazione va approvata con il consenso unanime di tutti i condomini, come, d'altronde, prescritto ora a seguito dell'opportuna aggiunta ad opera della Riforma del 2013, non potendo mai le statuizioni a maggioranza rivestire una forza contrattuale, sicché è precluso alla stessa maggioranza imporre alla minoranza, contro la volontà di quest'ultima, una divisione parziale di aree o locali comuni (Tra le pronunce di merito, App. Trieste 10 maggio 1988). Comunque, posto che la norma non stabilisce l'invisibilità assoluta delle parti comuni dell'edificio in condominio, ai fini della divisibilità delle stesse, fermo il consenso di tutti i partecipanti al condominio, va sempre rispettata la «comodità» dell'uso cui fa riferimento l'art. 1119 citato, da intendersi, per quanto riguarda la cosa - oltre che con riferimento all'originaria consistenza e destinazione della stessa - anche in ordine alla sua funzionalità (tra le altre, Cass. civ., sez. II, 23 aprile 1960, n. 913), ossia mediante il raffronto tra le utilità che i singoli ritraevano prima della sua divisione e quelle che ne ricaverebbero dopo la stessa divisione (Cass. civ., sez. II, 23 gennaio 2012, n. 867; conforme, tra le pronunce di merito, Trib. Roma 21 marzo 2006, secondo il quale anche nell'ipotesi in cui una cosa comune, pur se divisa, non cesserebbe di servire all'uso cui era destinata, la divisione non può, comunque, ritenersi consentita qualora, attraverso il raffronto fra le utilità che i singoli condomini ritraevano da essa ai fini del godimento dei loro rispettivi appartamenti – utilità non esclusa dal fatto che si tratti di parte comune dell'edificio non direttamente utilizzata dai condomini, ma data in locazione a terzi – e le utilità che agli stessi fini ricaverebbero dopo la divisione, emerga che il godimento anche di un solo condomino ne risulterebbe pregiudicato). Poiché, nel regime condominiale, l'uso delle parti comuni dell'edificio è in connessione del godimento delle parti di proprietà esclusiva, occorre che la divisione non incida sull'essenza e sulla funzione delle medesime parti comuni, sicché ciascuna di esse risulti idonea a realizzare il servizio a vantaggio dei beni di proprietà esclusiva, cui era destinato il tutto, senza che il godimento di essi ne venga diminuito. Va valutato, altresì, il profilo della convenienza economica della divisione, verificando gli oneri di spesa che i singoli condomini sarebbero tenuti a sopportare per provvedere, ciascuno per proprio conto, ai servizi già realizzati in comune, atteso che questi oneri incidono sulle suddette utilità (in quest'ottica, nella giurisprudenza di merito, Trib. Padova 21 marzo 1986, secondo cui la norma è stata generalmente interpretata nel senso che la divisione non è consentita, allorché per attuarla si renda necessaria una spesa sproporzionata rispetto al valore della cosa). Qualora, però, si presti attenzione alla materialità della cosa, il numero dei beni divisibili si presenta, in realtà, molto limitato, se solo si pensi agli impianti di interesse condominiale (riscaldamento, acqua, fognature, ecc.), che costituiscono un complesso unitario ed inscindibile, sicché i vari elementi di cui sono costituiti, se separati, non risultano più idonei, in sé e per sé, ad assolvere alla funzione primaria dell'impianto medesimo nel complesso; stesso discorso vale anche per le altre cose comuni, per cui, ad esempio, è impensabile una separazione dell'androne di ingresso all'edificio (riguardo al peculiare connotato dell'indivisibilità correlato all'istituto del condominio, v., più di recente, Cass. civ., sez. II, 18 gennaio 2005, n. 962). Rimane fermo che l'accertamento circa la ricorrenza delle condizioni per la divisione delle parti comuni di un edificio ai sensi dell'art. 1119 citato costituisce giudizio di fatto non censurabile in sede di legittimità se non affetto da vizi logici o giuridici (v., per tutte, Cass. civ., sez. II, 26 giugno 1976, n. 2419). La problematica dell'indivisibilità può essere, altresì, affrontata sul versante dell'inseparabilità delle parti comuni da quelle di proprietà esclusiva, nel senso che, dal momento che le cose comuni sono poste al servizio del condominio per volontà di tutti i condomini, il singolo partecipante non può unilateralmente pretendere di disporre, senza il consenso degli altri, delle parti comuni separatamente, come se fossero autonome e indipendenti dalle altre di sua proprietà esclusiva. Pertanto, con l'avvenuta costituzione del condominio, si trasferiscono ai singoli acquirenti delle unità immobiliari anche le corrispondenti quote delle parti comuni, salvo che non emerga dal titolo, in modo chiaro ed inequivocabile, la volontà di riservare al costruttore originario oppure ad uno o più dei condomini la proprietà esclusiva di beni che, per loro struttura ed ubicazione, dovrebbero considerarsi comuni (Cass. civ., sez. II, 19 febbraio 2004, n. 3257).
Il cedente di una singola porzione di piano non può riservare a sé, ormai terzo rispetto al condominio, il diritto di comproprietà e, quindi, l'uso di parti comuni destinate al complesso immobiliare, e, di converso, con la vendita dell'appartamento segue necessariamente, come relazione pertinenziale di principale ad accessorio, il trasferimento della comproprietà (sulla base della quota millesimale) sulle parti comuni dell'edificio in cui era posta l'unità immobiliare oggetto dell'alienazione (in proposito, v., di recente, Cass. civ., sez. II, 29 gennaio 2015, n. 1680, la quale ha considerato nulla, per violazione della norma imperativa di cui all'art. 1118, comma 2, c.c., la clausola del contratto di vendita che escludeva la coeva cessione della comproprietà su una o più cose comuni; Cass. civ., sez. II, 2 luglio 2004, n. 12128; in senso conforme, Cass. civ., sez. II, 22 febbraio 1988, n. 1859, per cui l'atto di vendita della proprietà esclusiva della singola porzione, successivo alla costituzione del condominio, può trasferire, unitamente a tale porzione, solo la corrispondente quota di comproprietà su dette parti comuni; contra, appare Cass. civ., sez. II, 26 ottobre 2011, n. 22361). Stante l'impossibilità della riserva di una parte comune nel caso di alienazione di parte esclusiva, si pone il problema se il proprietario di un appartamento possa separare il diritto al parcheggio nell'autorimessa comune dalla proprietà esclusiva dell'appartamento, alienando quest'ultima e trattenendo invece il primo. Al riguardo, se si considerano le caratteristiche peculiari delle parti dichiarate presuntivamente comuni dall'art. 1117 c.c. - salvo diversa statuizione del titolo - si rileva facilmente che esse o costituiscono parti integranti dell'edificio (suolo, muri maestri, ecc.), o sono locali destinati a servizi comuni (locali per la lavanderia, portineria, ecc.), oppure sono pertinenze comuni (ascensori, pozzi, ecc.), ma in ogni caso servono tutte a rendere possibili l'uso e il completo godimento delle parti di proprietà esclusiva. Ora, se questo è vero, tale inerenza o destinazione condominiale esige che le parti comuni poste al servizio dei singoli appartamenti non mutino la loro funzione oggettiva, diventando accessori di altre cose o entrando nella sfera giuridica di altri soggetti estranei al rapporto, data la stretta ed indissolubile interdipendenza che sussiste fra le parti comuni dell'edificio e quelle di proprietà esclusiva di ciascun condomino; ed è proprio per questo che tutta la disciplina giuridica dettata per il condominio degli edifici è informata sia al principio dell'indivisibilità delle parti comuni sia al criterio dell'inseparabilità delle medesime da quelle di pertinenza esclusiva dei condomini. E anche se non interessa stabilire in questa sede le conseguenze che scaturiscono, tra le parti della compravendita, in forza dell'indisponibilità del diritto sulle parti comuni dell'edificio indipendentemente dalla proprietà esclusiva - l'eventuale clausola, contenuta nel contratto di vendita di un appartamento sito in un edificio in condominio, con cui viene esclusa dal trasferimento la proprietà di alcune parti comuni del medesimo edificio, dovrebbe considerarsi nulla - resta ferma, nel rapporto tra il cedente ed il condominio, l'inefficacia degli atti di disposizione della cosa comune singolarmente considerata e, quindi, l'inopponibilità nei confronti del secondo della riserva di proprietà da parte del primo sulle cose comuni (in questa lunghezza d'onda, v. Cass. civ., sez. II, 10 gennaio 1990, n. 9, la quale ha statuito che, non potendo il singolo condomino, senza il consenso degli altri, unilateralmente disporre delle parti comuni in modo autonomo ed indipendente da quelle di sua proprietà esclusiva, il cedente di una porzione di piano di sua esclusiva proprietà non può riservare a sé il diritto di comproprietà e, quindi, l'uso di parti comuni destinate al complesso condominiale, con la conseguenza che, essendo inopponibile al condominio l'anzidetta riserva di proprietà, egli, ormai terzo rispetto al condominio, non è più legittimato a partecipare alle assemblee, né ad impugnare le deliberazioni: nella specie, la questione riguardava il proprietario di un appartamento di un edificio condominiale che intendeva distaccare il diritto al parcheggio nell'autorimessa comune dalla proprietà esclusiva del medesimo appartamento). Nello stesso ordine di concetti, il singolo non può cedere ad un terzo l'uso della cosa comune, che inerisce al suo particolare carattere accessorio e strumentale rispetto alle porzioni dell'edificio di proprietà esclusiva, come alienazione della quota di proprietà comune, o come costituzione di una servitù per l'utilità di un locale appartenente ad altro proprietario, o come cessione in locazione in favore di un soggetto estraneo al condominio, poiché l'alienazione o la costituzione di un diritto reale o dell'obbligazione protratta nel tempo esigono il consenso di tutti i partecipanti, ai sensi dell'art. 1108, comma 3, c.c. (così Cass. civ., sez. II, 1° marzo 2000, n. 2255). Rimane inteso - secondo il parere di Cass. civ., sez. II, 27 aprile 1993, n. 4931 - che le vicende traslative riguardanti le unità immobiliari di proprietà individuale estendono i loro effetti, secondo il principio accessorium seguitur principale, alle parti comuni necessarie per la struttura o destinate per la funzione al servizio degli immobili di proprietà solitaria, ma non anche alle cose legate all'edificio da mera relazione spaziale, costituenti beni ontologicamente diversi suscettibili di godimento fine a se stesso, che si attua in modo indipendente da quello delle unità abitative. Per completezza, si segnala che, sul presupposto che il diritto di condominio sulle parti comuni si configuri come situazione giuridica «strumentale» e non «finale» - nel senso che l'utilizzo delle cose comuni va sempre valutato in funzione del godimento delle porzioni di proprietà esclusiva - apparesuperflua l'aggiunta che la l. n. 220/2012 ha sentito di dover fare al vecchio testo dell'art. 1119 c.c., individuando, quale ulteriore condizione di liceità dell'eccezionale divisione delle parti comuni, il necessario «consenso di tutti i partecipanti al condominio» (peraltro, l'esigenza dell'approvazione unanime dei condomini per l'indiscriminata divisibilità dei beni condominiali poteva già evincersi dai limiti posti nell'art. 61 disp. att. c.c. riguardo alla deliberazione di scioglimento); del resto, l'elisione del nesso presupposto dalla regola di attribuzione di cui all'art. 1117 c.c. risulta sottratto alle competenze riconosciute esemplificativamente all'assemblea dall'art. 1135 c.c., conseguendone che la divisione delle parti comuni non è materia rimessa alla volontà collettiva dei partecipanti. Casistica
Corona, Proprietà e maggioranza nel condominio negli edifici, Torino, 2001, 122; Caporali, Se il parcheggio è parte comune dell'edificio può essere alienato separatamente?, in Corr. giur., 1990, 455; Basile, Divisione giudiziaria di area comune a due condomini e attribuzione all'amministratore della rappresentanza processuale attiva, in Nuova giur. civ. comm., 1988, I, 676; Terzago, Condominii di due sole persone e indivisibilità delle parti comuni, in Giust. civ., 1986, I, 2266; Branca, Patto di indivisione e condominio di case, in Foro it., 1964, I, 617; Salis, Patto di indivisione della comunione e regolamento di condominio, in Riv. giur. edil., 1963, I, 1121; Branca, Autonomia statica e divisione del condominio, in Foro it., 1963, I, 2125. Andreoli, I regolamenti di condominio, Torino, 1961, 71; Salis, Il condominio negli edifici, in Trattato di diritto privato, diretto da Vassalli, Torino, 1959, 374.
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