Portineria e alloggio del portiereFonte: Cod. Civ. Articolo 1117
11 Settembre 2017
Inquadramento
L'alloggio gratuito di servizio rappresenta, di regola, una quota in natura della retribuzione del portiere o, secondo alcuni, una prestazione accessoria alla medesima retribuzione; ovviamente, l'alloggio deve essere abitabile e, in caso contrario, il datore di lavoro risponde dei danni alla salute dello stesso dipendente o dei suoi familiari (in particolare, l'art. 16 del CCNL di settore regolamenta l'alloggio di servizio; v., anche se datata, App. Roma 30 marzo 1971). Dal canto uso, il codice civile dedica una disposizione ad hoc (l'art. 1117, n. 2) ai locali per la portineria e l'alloggio del portiere, i quali sono considerati beni comuni, salvo che il contrario non risulti dal titolo (v., ex multis, Cass. civ., sez. II, 9 aprile 1998, n. 3667; Cass. civ., sez. II, 23 agosto 1986, n. 5154; tra le pronunce di merito, v. App. Milano 4 ottobre 1977: nella specie, nel contratto di compravendita, non era specificato che le entità immobiliari indicate fossero le sole ad essere comuni, né tantomeno era stata usata una formula equivalente, sicché alla clausola non poteva attribuirsi un significato derogatorio al disposto dell'art. 1117 c.c.). I possibili assetti proprietari
Secondo la prevalente opinione, la presunzione di comunione sussiste allorché, per le obiettive caratteristiche strutturali, l'immobile è destinato al servizio ed al godimento collettivo dei condomini, per cui l'accertamento che il giudice del merito deve effettuare ha, come punto di riferimento, l'atto di costituzione del condominio dal quale, a seguito dell'alienazione delle singole unità abitative da parte dell'originario unico proprietario, si deve evincere se vi sia stata una destinazione, espressa o di fatto, dei locali in questione a bene comune, mentre, in caso contrario, la presunzione di comunione viene a cadere. Di converso, in un condominio sorto dal frazionamento di un fabbricato di proprietà esclusiva, la volontà del proprietario che lo ha costituito potrebbe essere idonea e sufficiente ad escludere dal novero delle parti comuni alcuni beni, ed a riservarsene la proprietà esclusiva; tale esclusione, incidendo sulla costituzione di un diritto reale immobiliare, deve risultare necessariamente da atto scritto, così come da atto scritto deve risultare la volontà dell'originario proprietario esclusivo di riservarsi la proprietà di beni che rientrano fra quelli comuni in ordine ai quali opera la presunzione di legge (v. Trib. Torino 5 luglio 1983: nella specie, si è ritenuta operante, però, la presunzione di comproprietà di cui all'art. 1117 c.c., non risultando la riserva di proprietà esclusiva, né nei rogiti di vendita delle singole unità immobiliari, né nei regolamenti condominiali contrattuali predisposti dall'originario proprietario esclusivo, nei quali ultimi in particolare non era dato rinvenire alcuna riserva di proprietà in ordine alla portineria ed all'alloggio del portiere). D'altronde, poiché sia l'alloggio del portiere sia i locali per la portineria (c.d. guardiola) sono caratterizzati da un rapporto di utilità, e non di assoluta necessità, con lo stabile, occorre accertare, nei singoli casi, se le parti, nel costituire un titolo contrario alla presunzione di condominio stabilita dall'art. 1117 c.c., abbiano anche inteso risolvere il vincolo di destinazione derivante dalla natura della cosa e dall'esistenza concreta di un servizio goduto in comune dai comproprietari del fabbricato (Cass. civ., sez. II, 26 novembre 1998, n. 11996 ; Cass. civ., sez. II, 8 maggio 1998, n. 4662, la quale ritiene sufficiente, perché possa affermarsi il venir meno del vincolo di destinazione derivante dalla loro natura, che sia stata assunta dal condominio una delibera che li abbia esclusi dall'utilizzazione comune; Cass. civ., sez. II, 25 agosto 1986, n. 5167; tra le pronunce di merito, v. Pret. Napoli 9 ottobre 1990).
Pertanto, in relazione ad essi occorre accertare, nei singoli casi, se l'atto che le sottrae alla presunzione di proprietà comune contenga anche la risoluzione o il mantenimento del vincolo di destinazione derivante dalla loro natura, configurandosi, nel secondo caso, l'esistenza di un vincolo obbligatorio propter rem fondato su una limitazione del diritto del proprietario e suscettibile di trasmissione in favore dei successivi acquirenti dei singoli appartamenti anche in mancanza di trascrizione, peraltro possibile ai sensi dell'art. 2646 c.c. (Cass. civ., sez. II, 27 marzo 2001, n. 4435). In quest'ottica - ad avviso di Cass. civ., sez. II, 6 novembre 1987 n. 8222 - un manufatto posto nel cortile antistante il fabbricato condominiale ed esterno allo stesso, che non sia stato adibito al servizio comune di portineria, non è compreso, per struttura e funzione, nelle parti comuni dell'edificio condominiale indicate nell'art. 1117 c.c., né può ritenersi tale, in difetto di una chiara volontà delle parti risultante da titolo idoneo, per il semplice fatto che esso risulti catastalmente denunciato come adibito a portineria, in quanto la classificazione catastale dei beni ha carattere meramente descrittivo in relazione ad un onere nei confronti della Pubblica Amministrazione, e non è idonea, quale mezzo sussidiario di prova, a prevalere sulla contraria volontà dei proprietari (in senso conforme, si pone Cass. civ., sez. II, 27 giugno 1996, n. 5946, secondo la quale, riguardo ai locali destinati a portineria, la presunzione legale di comunione di cui all'art. 1117 c.c. sussiste quando gli stessi facciano parte dell'edificio condominiale, con la conseguenza che, in caso contrario, non operando la presunzione, i detti locali rientrano fra le parti comuni soltanto se siano stati costruiti su suolo risultante, in base ai titoli, di proprietà comune). In termini diversi si pone, invece, il caso in cui l'alloggio del portiere, di proprietà di un solo condomino, sia posto al servizio comune di portierato: essendo escluso che il bene rientri nella nozione di cui al citato art. 1117, n. 2), c.c., si potrebbe configurare, nella specie, una servitù a vantaggio degli altri condomini in considerazione dell'attività svolta nell'appartamento e della finalità comune delle relative installazioni. Applicando correttamente i summenzionati principi alla fattispecie sottoposta al suo esame, un giudice di merito - v. Trib. Bologna 28 gennaio 2010 - sul presupposto che l'enunciazione di cui al n. 2) dell'art. 1117 c.c. trova fondamento nella differenza sostanziale (oltre che terminologica) tra «locali per la portineria» e «locali per l'alloggio del portiere» - tale per cui i primi individuano gli spazi destinati all'esercizio dell'attività di portierato (c.d. guardiola), mentre solo i secondi sono propriamente destinati alle eventuali necessità abitative della persona addetta a tale attività - ha conseguentemente statuito che, laddove un regolamento condominiale sancisca che «sono di proprietà ed uso comune pro indiviso i locali in uso ai portinai ed i relativi mobili ed arredi eventualmente dati in uso agli stessi», tale espressione debba essere interpretata come limitata ai soli spazi costituenti la guardiola e non anche all'abitazione del portiere propriamente detta, perché l'espressione deve essere oggetto di stretta interpretazione letterale e non estensiva, stante l'effetto costitutivo di un diritto reale quale la comproprietà di natura condominiale. I risvolti processuali
Al riguardo, si è avuto modo di specificare che il litisconsorzio necessario ricorre, oltre che nei casi espressamente previsti dalla legge, quando la situazione sostanziale plurisoggettiva dedotta in giudizio debba essere necessariamente decisa in maniera unitaria nei confronti di ogni soggetto che ne sia partecipe, onde non privare la decisione dell'utilità connessa all'esperimento dell'azione proposta, indipendentemente dalla natura del provvedimento richiesto, sicché ricorre tale situazione nel caso di domanda di accertamento della proprietà condominiale della destinazione ad alloggio del portiere dei relativi locali, essendo tale accertamento insuscettibile di frazionamento, riguardando necessariamente tutti i partecipanti alla comunione, e non essendo ipotizzabili due diverse destinazioni dello stesso immobile (Cass. civ., sez. II, 26 ottobre 1992, n. 11626). Parimenti, qualora un condominio o un terzo estraneo al condominio, assumendo di essere proprietario esclusivo del locale destinato ad alloggio del portiere, che l'art. 1117 c.c. presume di essere di proprietà comune, chiedendone il rilascio, ed il convenuto condominio, in persona dell'amministratore, deduca essere il bene di proprietà comune dei singoli condomini, invocando l'anzidetta presunzione legale, il contraddittorio deve essere integrato nei confronti di tutti i condomini, ricorrendo un'ipotesi di litisconsorzio necessario, essendo dedotto in giudizio un rapporto plurisoggettivo unico ed inscindibile, giacché la sentenza, implicando un accertamento tra titoli di proprietà confliggenti fra loro, non può conseguire un risultato utile se non pronunciata nei confronti di tutti i partecipanti al condominio (Cass. civ., sez. II, 28 novembre 1996, n. 10609; v., di recente, Cass. civ., sez. II, 13 novembre 2013, n. 25454, che, ai fini del litisconsorzio necessario, differenzia tra domanda ed eccezione riconvenzionale, in tema di acquisto per usucapione di una parte comune dell'edificio). La dismissione del servizio
Questione rilevante è quella che concerne la sostituzione del servizio di portierato con altro servizio dalle caratteristiche completamente differenti (decisione, quest'ultima, non irreversibile, nel senso che non può escludersi la possibilità, melius re perpensa, di ripristinare il medesimo servizio a seguito degli inconvenienti verificatisi a causa del deliberato cambiamento). Tale evenienza si verifica allorquando i condomini, per limitare le spese e per intuibili esigenze di risparmio - trattandosi, talvolta, di un «lusso» che non ci si può più permettere - rinuncino alla vigilanza ed alla custodia del portiere, ed affidino la pulizia delle parti comuni ad un soggetto che solo in determinati orari sia presente sul posto di lavoro. Tali lavoratori - che sono inquadrati nella categoria B) del vigente C.C.N.L. - svolgono mansioni più limitate, quali, ad esempio, la pulizia dell'androne, dei locali comuni accessori, delle cabine dell'acqua (lavatoi, locali cassoni), dei cortili, dei piani pilotis, dei porticati ad uso esclusivo dell'immobile, degli spazi a verde (senza occuparsi, di regola, del giardinaggio); tra le mansioni accessorie, può anche essere affidato, per atto scritto, l'incarico di distribuire la posta ordinaria e straordinaria - seguendo, in tale ultimo caso, le stesse modalità previste per il portiere - nell'àmbito dell'orario concordato. Altra ipotesi da esaminare è quella che riguarda l'affidamento della pulizia delle parti condominiali (interne ed esterne) ad una ditta con la quale l'amministratore sottoscrive un contratto d'opera ai sensi dell'art. 2222 c.c.; in tal caso, il contraente/prestatore assicura il risultato, godendo di piena autonomia quanto allo svolgimento del servizio, all'impiego delle risorse lavorative, agli orari ed ai materiali usati per le pulizie, per cui non si ravvisa alcun vincolo di subordinazione. Qualora, invece, il servizio di portierato non venga soppresso o sostituito, ma si provveda solo alla modifica della destinazione pertinenziale dei locali adibiti ad alloggio del portiere, non dovrebbe essere richiesta l'unanimità dei consensi, bensì una delibera dell'assemblea dei condomini adottata con la maggioranza qualificata di cui al comma 5 dell'art. 1136 c.c. Diverso, ovviamente, è il caso in cui si voglia disporre la trasformazione (in tutto o in parte) dei locali comuni destinati a portineria ed alloggio del portiere in bene di proprietà esclusiva di uno dei condomini, in quanto tale iniziativa può essere validamente deliberata - in mancanza di un valido titolo contrario alla presunzione di titolarità condominiale ex art. 1117 c.c. - soltanto all'unanimità, ossia mediante una decisione che, nella sostanza, assuma valore contrattuale (Cass. civ., sez. II, 30 agosto 2004, n. 17397). Si parla, talvolta, del c.d. portiere elettrico o automatico, ossia riferendosi all'istallazione, nel muro esterno dell'edificio in posizione attigua all'ingresso dello stabile, di pulsanti per l'apertura del portone, di solito collegati con impianto di citofono o videocitofono con le singole proprietà esclusive (fattispecie analizzata da Trib. Torino 24 marzo 1986).
Negli stabili dove il portiere era contemplato - di fatto o nel regolamento condominiale - e tale portiere godeva, altresì, del relativo alloggio, si pone il problema di sfruttare economicamente tali locali, salvo ovviamente adibirli per fini interni (riunioni assembleari, deposito materiali, sala giochi, asilo, e quant'altro). La fattispecie, piuttosto frequente, presuppone un corretto inquadramento del concetto di uso delle parti comuni dell'edificio e del possibile utilizzo, diretto o indiretto, delle stesse, restando inteso che, per la vendita dell'ex alloggio del portiere, occorre sempre l'unanimità dei consensi di tutti i partecipanti al condominio. Per quanto riguarda l'uso collettivo, la cosa comune, se le caratteristiche della stessa lo consentano, può essere goduta contemporaneamente dalla collettività dei condomini (c.d. uso promiscuo): si pensi al giardino comune, che può essere utilizzato indiscriminatamente da ciascuno, in quanto difficilmente si creeranno questioni di sovraffollamento; altrettanto non può dirsi, ad esempio, per l'uso del cortile comune per il parcheggio di autovetture e motorini, nel qual caso, verificata l'impossibilità di utilizzo contemporaneo da parte della collettività condominiale, per soddisfare le esigenze di tutti i partecipanti, occorre frazionarne l'uso. Tale frazionamento può avvenire sotto il profilo dello spazio, nel senso che, ferma restando la comproprietà da parte del singolo su tutto il bene comune, quest'ultimo viene diviso materialmente assegnando a ciascuno il godimento di una parte soltanto, ad esempio, delimitando con apposite strisce le aree di parcheggio del cortile. Sempre che la natura del bene di proprietà comune non ne permetta un simultaneo godimento da parte di tutti i condomini, il predetto frazionamento può avvenire anche sotto il profilo del tempo, nel senso che il godimento si estende su tutta la cosa comune ma è limitato ad una determinata turnazione - fissata dal regolamento, dall'assemblea o dall'amministratore o praticata di fatto dai condomini - ad esempio, mediante avvicendamento di uno o un gruppo di condomini circa l'uso del lastrico solare per stendere i panni a giorni prefissati per ciascuna unità immobiliare (non escludendo, in caso di incapienza, la possibilità di assegnazioni periodiche sulla base di una graduatoria formata per sorteggio); anche qui - come nella divisione c.d. topografica - non succede nulla se un condomino utilizza la cosa comune in un turno diverso qualora il partecipante assegnatario non ne approfitti (il patto di godimento frazionato nel tempo è, invece, il connotato precipuo del recente fenomeno della c.d. multiproprietà, solo accennato nell'incipit del novellato art. 1117 c.c.).
Ove non sia possibile o ragionevole l'uso promiscuo della cosa comune, e questa non sia tale da permettere una ancorché approssimativa divisione del suo godimento tra i vari partecipanti alla comunione, sorge l'esigenza di ricorrere al c.d. godimento indiretto, che tende appunto a sopperire all'impossibilità di procedere ad una conveniente utilizzazione diretta da parte dei vari comproprietari; il godimento c.d. indiretto postula, peraltro, non solo che sia impossibile, o non ragionevole, o dannoso, in forma promiscua o frazionata, ma postula anche che esso sia stato deliberato, o consensualmente sia pure con il sistema maggioritario, o mediante un provvedimento del giudice; l'obbligo, da parte dei vari partecipanti alla comunione, di non esercitare il godimento diretto della cosa comune, che di norma compete a ciascun partecipante ai sensi dell'art. 1102 c.c., sorge, quindi, solo se sia stato deciso e solo dal momento della delibera, in sede di amministrazione della cosa comune, di procedere alla sua utilizzazione con il sistema del godimento indiretto. L'ipotesi tipica dell'uso indiretto - che si esplica anche attraverso l'acquisto dei frutti che la cosa stessa produce - è quella della locazione che, pertanto, presuppone che la cosa comune non sia suscettibile di godimento diretto di tutti i partecipanti al condominio, promiscuamente oppure con il sistema dei turni temporali o del frazionamento degli spazi, pena, altrimenti, trattandosi di incidere sull'estensione del diritto reale che ciascun comunista possiede sull'intero bene indiviso, l'invalidità della relativa delibera assembleare, salvo il caso in cui la decisione sia adottata all'unanimità dei condomini (Cass. civ., sez. II, 27 ottobre 2011, n. 22435; Cass. civ., sez. II, 19 ottobre 1994, n. 8528; Cass. civ., sez. II, 22 novembre 1984, n. 6010; Cass. civ., sez. II, 18 gennaio 1982, n. 312). Il caso classico è, appunto, quello del locale adibito originariamente all'alloggio del portiere e rimasto inutilizzato a seguito della soppressione del relativo servizio: abbiamo visto che, a ciascun condomino, compete il diritto al godimento diretto ma promiscuo (cioè non esclusivo) della cosa comune, ma non essendo un obbligo, l'assemblea non può imporlo quando sia impossibile, dannoso o irragionevole, mentre ogni diversa modalità di utilizzazione o godimento (ad esempio, divisione nello spazio, nel tempo, o godimento indiretto) va deliberata dai condomini secondo il sistema organizzativo interno stabilito dall'art. 1136 c.c., escludendo, quindi, la legittimità di iniziative in tal senso da parte del singolo condomino o dell'amministratore (in base alle disposizioni in materia di comunione, si ammette soltanto la possibilità di questi ultimi, in caso di locazione in atto, di dare la disdetta o agire per il rilascio, anche senza la delibera assembleare, sulla base di un mandato tacito o presunto ricevuto dagli altri partecipanti, v., per tutte, Cass. civ., sez. III, 11 maggio 2005, n. 9879). La possibilità della locazione del bene comune evidenzia così quella nota peculiare che caratterizza la posizione relativa al diritto del condomino sulla cosa comune, che incontra tutti i limiti imposti dal godimento solidale, spingendosi talvolta fino ad una vera e propria impossibilità di utilizzo del bene comune, sostituito soltanto dalla percezione degli eventuali frutti che lo stesso è idoneo a conferire, segnatamente il ricevimento, pro quota, del corrispettivo all'altrui godimento sotto la forma di canone di locazione. Orbene, la decisione di locare l'immobile già destinato ad abitazione del portiere deve essere presa dalla maggioranza dei condomini - sembra preferibile il quorum semplice, trattandosi di atto di ordinaria amministrazione, se di durata non eccedente i nove anni, come è dato desumere a contrario dagli artt. 374, n. 4), e 1108, comma 3, c.c., v., tra le altre, Cass. civ., sez. II, 22 marzo 2001, n. 4131 - ma potrebbe darsi che «non si forma una maggioranza», sicché soccorre l'art. 1105, ultimo comma, c.c. che prevede la possibilità di un ricorso all'autorità giudiziaria. In altri termini, nulla quaestio se vi sia un bene comune suscettibile di godimento diretto, spazialmente circoscritto, di una pluralità dei condomini, poiché lo stesso è tale da consentire un uso collettivo, o una materiale divisione approssimativamente corrispondente alla consistenza delle quote oppure un uso turnario; qualora, invece, vi sia un solo locale in comune, che non può essere oggetto di godimento della collettività o dell'uso esclusivo di ciascuno dei condomini - l'uso promiscuo richiederebbe la necessaria coabitazione delle rispettive famiglie dell'edificio o il diritto dell'uno di abitare l'unità immobiliare potrebbe essere paralizzato dal pari diritto dell'altro - oppure qualora la cosa in comune, per le sue caratteristiche strutturali, non sia tale da consentire una materiale divisione - l'appartamento, ad esempio, è formato da due camere, cucina ed un solo bagno - oppure un uso temporalmente limitato, essendoci disaccordo tra i condomini, appare legittimo, per porre fine alla situazione di stallo, il ricorso al magistrato ai sensi dell'art. 1105, ultimo comma, c.c., affinché individui, anche con la nomina di un amministratore ad hoc, una diversa modalità (indiretta) di godimento del bene, appunto attraverso la locazione dell'immobile (in favore di uno degli stessi condomini o di un terzo). I casi finora esaminati presuppongono che un'assemblea sia stata convocata, ma che non si pervenga (per i motivi più disparati) alla determinazione di una valida maggioranza per deliberare sulla diversa utilizzazione del bene comune che non può formare oggetto di godimento promiscuo; nulla esclude, però, che, qualora non si possano adottare tali provvedimenti, stante, a monte, la mancata partecipazione di uno o più condomini, rappresentanti quorum che precludono la regolare costituzione dell'assemblea pur ritualmente convocata, o comunque nel pieno disinteresse dai primi manifestato nella gestione della parte dell'edificio comune, si possa procedere sùbito alla nomina di un amministratore giudiziario ex art. 1105, ultimo comma, c.c., al fine di «adottare i provvedimenti necessari per l'amministrazione della cosa comune», tra i quali si può annoverare l'uso indiretto, mediante la locazione, della predetta parte trascurata (tra le pronunce di merito, si segnala Trib. Napoli 27 novembre 2002). Casistica
Baldacci, Servizio di portierato e alloggio del portiere: cosa cambia dopo la riforma del 2012, in Ventiquattrore avvocato, 2013, fasc. 2, 26; Luppino, Locali per la portineria e locali per l'alloggio del portiere: l'altra faccia della stessa medaglia?, in Arch. loc. e cond., 2010, 408; Celeste, La locazione dell'ex alloggio del portiere, in La proprietà edilizia, 2008, fasc. 12, 47; De Tilla, Locazione e destinazione condominiale dell'alloggio del portiere, in Giur. merito, 1992, 346; Razza, Considerazioni in tema di alloggio adibito a casa del portiere, in Arch. loc. e cond., 1982, 753; Cattedra, Se il costo figurativo dell'alloggio al portiere costituisca un onere accessorio del contratto di locazione di cui all'art. 9 l. n. 392 del 1978, in Arch. loc. e cond., 1980, 513. |