Modificazioni delle destinazioni d'uso

Alberto Celeste
26 Settembre 2017

È estremamente significativo che la Riforma della normativa condominiale del 2013 si sia occupata della «destinazione d'uso» delle parti comuni dell'edificio, e segnatamente contemplando, nell'art. 1117-ter c.c., la possibilità per l'assemblea, entro certi limiti, di modificarla; in quest'ottica, va valorizzata anche la nuova formulazione dell'art. 1117 c.c., ove si fa innovativo riferimento alla destinazione dei beni all'uso comune: si allude, in particolare, al n. 2), alle «aree destinate a parcheggio», e ai «sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali, all'uso comune», e più in generale, al n. 3), dove si menzionano «le opere, le installazioni, i manufatti di qualunque genere destinati all'uso comune».
Inquadramento

Il novello art. 1117-ter c.c. costituisce una delle new entry che danno maggiormente filo da torcere agli interpreti ed agli operatori del settore, evidenziando fin d'ora, però, che tale norma, nel corso dei lavori parlamentari, ha perso gran parte della sua efficacia dirompente, atteso che, attualmente, non contempla più la possibilità, in capo all'assemblea che delibera a maggioranza, sia pure qualificata, di «sostituire» le parti comuni dell'edificio qualora ne fosse cessata l'utilità - si pensi all'appartamento dell'ex portiere, una volta soppresso il relativo servizio - o fosse altrimenti realizzabile l'interesse in comune (norma, questa, che era stata letta come la fine del tabù secondo cui soltanto i condomini, all'unanimità, nessuno escluso, potessero disporre delle cose in comproprietà).

La versione licenziata da Palazzo Madama nella seduta del 26 gennaio 2011, richiamava, poi, il quorum dell'art. 1136, comma 5, c.c. (ossia i due terzi del valore dell'edificio), mentre non è passata nemmeno la proposta di limitare le suddette modificazioni d'uso al fine soddisfare esigenze «funzionali» del condominio, contrapponendole forse a quelle meramente economiche.

Nel dettaglio, la nuova disposizione stabilisce che: «1. Per soddisfare esigenze di interesse condominiale, l'assemblea, con un numero di voti che rappresenti i quattro quinti dei partecipanti al condominio e i quattro quinti del valore dell'edificio, può modificare la destinazione d'uso delle parti comuni. 2. La convocazione dell'assemblea deve essere affissa per non meno di trenta giorni consecutivi nei locali di maggior uso comune o negli spazi a tal fine destinati e deve effettuarsi mediante lettera raccomandata o equipollenti mezzi telematici, in modo da pervenire almeno venti giorni prima della data di convocazione. 3. La convocazione dell'assemblea, a pena di nullità, deve indicare le parti comuni oggetto della modificazione e la nuova destinazione d'uso. 4. La deliberazione deve contenere la dichiarazione espressa che sono stati effettuati gli adempimenti di cui ai precedenti commi. 5. Sono vietate le modificazioni delle destinazioni d'uso che possono recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato o che ne alterano il decoro architettonico».

Le esigenze di interesse condominiale

L'incipit dell'art. 1117-ter c.c. finalizza la modificazione della destinazione d'uso delle parti comuni dell'edificio a «esigenze di interesse condominiale», ma trattasi di concetto di difficile perimetrazione.

Comunque, siamo in presenza di un'espressione generica, più duttile, e sicuramente non più correlata ai tre obiettivi alternativi previsti per le innovazioni di cui all'art. 1120, comma 1, c.c., ossia il miglioramento o l'uso più comodo o il maggior rendimento delle cose comuni.

Peraltro, l'assemblea che delibera a maggioranza non potrebbe che soddisfare «esigenze di carattere condominiale», come si evince indirettamente dal carattere meramente esemplificativo delle attribuzioni riconosciute all'assemblea dall'art. 1135 c.c., sicché la medesima assemblea può decidere, quale organo destinato ad imprimere la volontà collettiva dei partecipanti, qualunque provvedimento, anche non previsto dalla legge o dal regolamento di condominio, purché non si tratti di provvedimenti volti a perseguire una finalità extracondominiale.

Invero, il nuovo art. 1135 c.c. ha sì individuato espressamente le attribuzioni specifiche dell'assemblea, nel senso che quest'ultima può decidere l'approvazione, in sede preventiva e di rendiconto, di tutte le spese inerenti la gestione dei beni comuni e, al contempo, nomina (e revoca) l'amministratore, cui restano affidati compiti meramente attuativi e conservativi e che è comunque tenuto a rendere alla prima il conto della sua gestione, ma i poteri dell'assemblea condominiale riguardano, in linea generale, la disciplina, anche attraverso modificazioni ed innovazioni, della cosa comune, sicché il citato art. 1135 va integrato con tutti quei riferimenti ai poteri dell'organo gestorio contenuti nelle diverse altre norme del codice civile e delle leggi speciali.

In altri termini, pure se si individuano espressamente le attribuzioni specifiche dell'assemblea, dal sistema si ricava che quest'ultima rappresenta il massimo organismo deliberativo (oltre che di indirizzo e) del condominio, a meno che l'art. 1117-ter, comma 1, c.c. non abbia voluto precludere modificazioni della destinazione d'uso delle parti comuni dell'edificio che possano avvantaggiare esclusivamente il singolo condomino e non la collettività.

La differenza rispetto alle ordinarie innovazioni

Resta il problema di identificare correttamente il concetto di «modificazione della cosa comune», per il quale il nuovo art. 1117-ter c.c. richiede maggioranze assembleari molto elevate ed un iter approvativo più stringente, e differenziarlo dal concetto di innovazione, che impone, invece, quorum più ridotti e l'ordinaria procedura deliberativa.

In effetti, in passato, la giurisprudenza e la dottrina erano nel senso di inquadrare, nella figura dell'innovazione, anche la mera modificazione della cosa comune.

In altri termini, la norma sembra richiamare il concetto di «innovazione» di cui agli artt. 1120 e 1121 c.c., soprattutto alla luce della giurisprudenza che considera tale non solo l'opera «nuova», ma anche il «mutamento della destinazione originaria del bene», a meno che la l. n. 220/2012 abbia contemplato la possibilità che la cosa comune possa essere trasformata al punto tale da permettere un uso completamente diverso riguardo alla sua originaria destinazione oggettiva (strutturale e funzionale), militando in tal senso il quorum indubbiamente rilevante che viene prescritto, ossia 800/1000 (oltre ad un'identica quantità di teste).

Sulla base di tale elevata maggioranza, non è mancato chi ha ritenuto che il Legislatore abbia inteso riferirsi alla possibilità di destinare parti comuni dell'edificio a scopi privati, sottraendole all'uso comune: la modifica de qua avverrebbe, quindi, mediante la cessione a terzi, che ne acquistano la proprietà con contestuale perdita di ogni diritto dominicale in capo alla collettività che tali parti comuni ha dismesso, oppure attraverso l'attribuzione ad un condomino l'uso esclusivo delle medesime parti comuni, facendo venir così meno il dogma della necessaria unanimità dei consensi per l'esercizio di poteri dispositivi (richiesta, invece, per la comunione ex art. 1108 c.c. per gli atti di alienazione o di costituzione di diritti reali).

Resta il fatto, però, che l'odierna versione prevede soltanto la possibilità di «modificare» la destinazione d'uso delle parti comuni, soltanto per soddisfare esigenze di carattere condominiale, purché tale decisione ottenga il voto favorevole di tanti condomini che rappresentino «i quattro quinti dei partecipanti al condominio ed i quattro quinti del valore dell'edificio» (non facendo, quindi, menzione degli intervenuti alla riunione condominiale, né sembrando distinguere tra assemblea di prima e seconda convocazione).

Vengono così in mente la realizzazione di una sala per le riunioni condominiali o un servizio di asilo nido per i bambini, ma la maggiore attenzione data dalla Riforma del 2013 sembra interessare piuttosto gli stravolgimenti dell'originaria destinazione, anche se la classica trasformazione del cortile in area di parcheggio potrebbe essere contemplata dall'art. 1120, comma 2, n. 2), c.c., il quale, «per le opere e gli interventi previsti … per realizzare parcheggi destinati a servizio delle unità immobiliari o dell'edificio», ritiene sufficiente la maggioranza di cui al comma 2 dell'art. 1136 c.c., ossia i 500 millesimi (da escludersi, comunque, la locazione, a terzi o ad un condomino, delle parti comuni, in quanto atto rientrante nell'ordinaria amministrazione).

Comunque, con i quorum più elevati di cui sopra, si può modificare, altresì, l'uso di grandi aree condominiali, ad esempio a giardino, per essere destinate alla realizzazione di un centro commerciale, contro il volere di una minoranza di condomini che, eventualmente, avevano acquistato un'unità immobiliare in quel condominio proprio per il particolare pregio o valore correlato alla presenza di un parcheggio o di un giardino o, di converso, per l'assenza di un centro commerciale; al contempo, non richiedendosi l'unanimità - necessaria, invece, per provvedimenti ablativi della proprietà comune - si superano gli eventuali veti di quel condomino, che metta in atto un comportamento meramente ostruzionistico (quasi emulativo), non in linea con le moderne esigenze dei partecipanti al condominio.

Pertanto, è sempre possibile - come in precedenza - modificare la destinazione d'uso delle parti comuni dell'edificio, ma, attualmente, rispetto alle classiche innovazioni, nei confronti delle quali tale modifica appare più incisiva dei diritti di godimento dei singoli partecipanti, la decisione deve osservare particolari modalità (quanto a convocazione, ordine del giorno e delibera) e deve ottenere maggiori consensi (il quorum di quattro quinti).

Deve, pur sempre, trattarsi di parti comuni non necessarie all'esistenza dell'edificio, così come elencate nel n. 1) del novellato art. 1117 c.c., per cui la modificazione della destinazione d'uso contemplata dall'art. 1117-ter in commento interessa soprattutto quelle parti comuni di cui ai nn. 2) e 3) del primo disposto (escludendo, pertanto, il suolo su cui sorge l'edificio, le fondazioni, i muri maestri, i pilastri, le travi portanti, ecc.); resta inteso che il concetto di «destinazione» richiama un po' l'analoga espressione contenuta nell'art. 1102 c.c., sull'uso della cosa comune da parte del singolo e, comunque, non attiene a profili di carattere urbanistico (comportanti, ad esempio, possibili variazioni catastali).

A questo punto, è agevole ipotizzare un contenzioso attinente alle impugnazioni delle delibere assembleari autorizzanti interventi sulle cose comuni, discutendosi quale maggioranza sia applicabile alla fattispecie secondo l'inquadramento dell'intervento nell'una o nell'altra categoria, disciplinata, rispettivamente, negli artt. 1117-ter o 1120 c.c., ed è facile immaginare che i conflitti interpretativi riguarderanno soprattutto il concetto di «modificazione della destinazione d'uso» che, a stretto rigore, ha riguardo alle sole «parti comuni dell'edificio», e non ai servizi ed agli impianti condominiali.

Una volta proposta l'impugnazione, il problema, poi, si sposta sul potere, in capo al giudice, di sindacare il soddisfacimento delle «esigenze di interesse condominiale», perché si corre il rischio che l'assemblea, pur con gli elevati quorum di cui sopra, ponga in essere decisioni foriere di pregiudizi per la collettività (sulla configurabilità dell'eccesso di potere come possibile vizio della delibera impugnata, inteso come sviamento dell'atto collettivo dalla funzione cui esso è preordinato, Cass. civ., sez. II, 14 ottobre 2008, n. 25128).

Le particolari modalità dell'iter assembleare

Attesa la delicatezza dell'argomento da decidere, il citato art. 1117-ter c.c. stabilisce particolari modalità per la conclusione dell'iter assembleare.

Nello specifico, la convocazione deve essere affissa per non meno di trenta giorni consecutivi «nei locali di maggior uso comune o negli spazi a tal fine destinati» - si pensi, ad esempio, all'androne dell'edificio, alla bacheca condominiale, alla vetrina della portineria - anche se il requisito della consecutività potrebbe comportare problemi di prova a carico del condominio qualora l'impugnante lamentasse proprio il mancato rispetto di tale reiterato incombente (magari, causato dallo stesso condomino dispettoso che strappa continuamente il foglio … ).

Il relativo avviso deve, altresì, effettuarsi «mediante lettera raccomandata o equipollenti mezzi telematici», in modo da pervenire almeno venti giorni prima della data della riunione: rispetto alle ordinarie convocazioni assembleari, la norma si riferisce, quindi, alla sola lettera raccomandata (peraltro senza cartolina di ricevimento), laddove gli equipollenti mezzi telematici fanno pensare alla P.E.C. (piuttosto che alla semplice mail), mentre dubbi si nutrono per il fax (il termine «pervenire», al posto di comunicare, rafforza comunque l'idea di un atto recettizio che deve giungere nella sfera di conoscibilità del destinatario).

Dunque, si prevedono determinati oneri aggiuntivi, ossia quello dell'affissione, al fine di far riflettere i condomini sull'importanza della decisione da adottare, e, sempre per ponderare meglio le conseguenze della relativa statuizione, si stabilisce un termine maggiore per l'avviso tempestivo rispetto agli ordinari cinque giorni di cui all'art. 66, comma 3, disp. att. c.c., che peraltro contempla, oltre alla «posta raccomandata, posta elettronica certificata e fax», anche la «consegna a mano» che, in questa ipotesi, sembra esclusa.

Per quanto concerne l'ordine del giorno che, secondo le regole generali, deve essere «specifico» ed indicare «il luogo e l'ora della riunione», il particolare oggetto della futura delibera impone che «a convocazione dell'assemblea, a pena di nullità, deve indicare le parti comuni oggetto della modificazione e la nuova destinazione d'uso», laddove il citato comma 3 dell'art. 66 disp. att. c.c. sanziona espressamente con la mera annullabilità, ai sensi dell'art. 1137 c.c., l'ipotesi della «(omessa, tardiva o) incompleta convocazione degli aventi diritto»; quindi, in via eccezionale riguardo ai tradizionali vizi che inficiano le decisioni assembleari, si correla specificamente l'ipotesi più grave della «nullità», da far valere senza limiti di tempo ed anche dal condomino che ha votato a favore, all'incompletezza dell'ordine del giorno (con immaginabile vulnus alle esigenze di certezza delle situazioni giuridiche, riguardo a stravolgimenti della realtà condominiale che potrebbero sempre essere messi in discussione).

Comunque, comminando la nullità alla convocazione - rectius, alla delibera adottata a seguito di tale convocazione incompleta - che non indichi le parti comuni oggetto della modificazione e la nuova destinazione d'uso, a contrario resta affetta da mera annullabilità la stessa delibera che, ancorché esaustiva, sia stata presa senza che la medesima convocazione abbia rispettato le altre modalità contemplate dall'art. 1117-ter, comma 2, c.c., ossia l'affissione pubblica, lo spatium temporis e la forma dell'avviso (il mancato rispetto delle specifiche e circostanziate esigenze di interesse condominiale, invece, dovrebbe attenere più al merito della decisione).

Relativamente, poi, alla delibera che approva le suddette modificazioni delle destinazioni d'uso delle parti comuni, si prescrive, al comma 4, che la stessa «deve contenere la dichiarazione espressa che sono stati effettuati gli adempimenti di cui ai precedenti commi», ossia, in particolare, affissione della convocazione, recapito dell'avviso nei termini ed indicazione del precipuo oggetto della decisione - la precedente versione, sia pure riguardo alla «sostituzione» delle medesime parti comuni, prevedeva addirittura la redazione «con atto pubblico a pena di nullità» - anche se rimane il dubbio sull'identificazione del soggetto deputato a certificare l'avvenuto espletamento dei summenzionati incombenti (come avviene di solito, la previsione sembra richiamare la figura dell'amministratore che comunica ciò al presidente dell'assemblea).

Comunque, tutte le summenzionate prescrizioni trovano spiegazione nell'esigenza di tutela la posizione del singolo condomino, il quale parteciperà all'assemblea ed esprimerà il proprio voto nella piena consapevolezza delle conseguenze che potranno scaturire dalla rilevante decisione da adottare.

I limiti contemplati per la realizzazione

L'ultimo comma dell'art. 1117-ter c.c. - forse pleonasticamente - stabilisce che, comunque, tali modificazioni delle destinazioni d'uso non possono recare «pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato» o «alterare il decoro architettonico», reiterando, in buona sostanza, il disposto dell'ultimo comma dell'art. 1120 c.c. (nuovo testo), il quale, riguardo alle innovazioni, per così dire, ordinarie mantiene sempre il triplice limite della stabilità/sicurezza/decoro, aggiungendo il divieto per quelle modifiche che «rendano talune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino».

In evidenza

Il mancato richiamo di quest'ultima espressione, nel testo del novellato art. 1117-ter c.c., indurrebbe a ritenere che, in tali più rilevanti ipotesi, la modificazione della destinazione d'uso delle parti comuni possa legittimare il sacrificio della minoranza dissenziente, ossia i 200/1000.

In queste ipotesi, anche se non richiamate espressamente nella previsione del comma 3, sembra che le deliberazioni, che abbiano oltrepassato il suddetto limite invalicabile, siano nulle sotto il profilo del vizio correlato all'oggetto impossibile o illecito (secondo l'insegnamento fatto proprio da Cass. civ., sez. un., 7 marzo 2005, n. 4806).

Rimane, tuttavia, aperto il problema di delineare il quorum necessario affinché l'assemblea, alla luce del nuovo art. 1117-ter c.c., possa statuire la modificazione della destinazione di un'area comune, laddove sussista un'espressa disposizione del regolamento che contempli l'uso di tale bene comune o il divieto di un determinato uso (si pensi al cortile destinato, in base ad un'apposita clausola regolamentare di natura contrattuale, a giardino, che si intende modificare a parcheggio delle autovetture dei condomini).

Il novello art. 1117-ter c.c. - non richiamato, forse per mera «distrazione» da parte del Legislatore del 2013, tra le norme inderogabili dall'art. 1138, comma 4, c.c. - sembra adottare una soluzione tranchant, nel senso che la modificazione della destinazione d'uso delle parti comuni è sempre possibile, anche se in contrasto con un'espressa previsione del regolamento di condominio, condizionando, però, tale innovazione soltanto a determinati presupposti formali e sostanziali sottesi alla relativa decisione assembleare.

CASISTICA

Destinazione di parte del cortile comune a parcheggio

Non costituisce innovazione vietata, ai sensi dell'art. 1120 c.c., la destinazione di parte del cortile condominiale a parcheggio di autovetture allorché l'intervento riguardi una parte minima dell'area comune, atteso che, ai fini della qualificazione dell'opera come innovazione, deve aversi riguardo anche all'effettiva rilevanza ed apprezzabilità della modificazione che essa produce (nella specie, il giudice aveva escluso che costituisse innovazione la riduzione di parte dell'area comune destinata a verde, in conseguenza dell'aggiunta di due posti auto ed un terzo di dimensioni ridotte rispetto ai cinque posti auto già esistenti, in ragione della sostanziale irrilevanza dell'intervento in relazione alla superficie interessata rispetto a quella condominiale) (Cass. civ., sez. VI/II, 4 luglio 2012, n. 11177).

Transito veicolare sulla strada comune

In tema di condominio negli edifici, l'uso anche a transito veicolare della cosa comune, già adibita a solo transito pedonale, non concreta un'innovazione vietata ai sensi dell'art. 1120, comma 2, c.c.; esso, infatti, non costituisce mutamento di destinazione, non comportando alcuna immutazione, trasformazione, modificazione della consistenza o sfruttamento per fini diversi da quelli precedenti, ma soltanto una più ampia utilizzazione della cosa comune, che l'assemblea dei condomini può deliberare con la maggioranza di cui all'art. 1136, comma 2, c.c. (Cass. civ., sez. II, 8 agosto 2003, n. 11943).

Restringimento del viale di accesso pedonale

La distinzione tra modifica ed innovazione si ricollega all'entità e qualità dell'incidenza della nuova opera sulla consistenza e sulla destinazione della cosa comune, nel senso che per innovazione in senso tecnico-giuridico deve intendersi non qualsiasi mutamento o modificazione della cosa comune, ma solamente quella modificazione materiale che ne alteri l'entità sostanziale o ne muti la destinazione originaria, mentre le modificazioni che mirano a potenziare o a rendere più comodo il godimento della cosa comune e ne lasciano immutate la consistenza e la destinazione, in modo da non turbare i concorrenti interessi dei condomini, non possono definirsi innovazioni nel senso suddetto (nella specie, si era escluso che costituisse innovazione vietata il restringimento di un viale di accesso pedonale, considerato che esso non integrava una sostanziale alterazione della destinazione e della funzionalità della cosa comune, non la rendeva inservibile o scarsamente utilizzabile per uno o più condomini, ma si limitava a ridurre in misura modesta la sua funzione di supporto al transito pedonale, restando immutata la destinazione originaria) (Cass. civ., sez. II, 23 ottobre 1999, n. 11936).

Guida all'approfondimento

Salciarini, Lo strano caso delle modificazioni delle destinazioni d'uso: un'analisi del “nuovo” art. 1117-ter c.c., in Dossier condominio, 2015, fasc. 148, 39;

Monegat, La riforma del condominio, Milano, 2013, 32;

Cirla,La modifica della destinazione d'uso dell'immobile in condominio, in Immob. & proprietà, 2005, 69;

Celeste, Mutamento di destinazione della cosa comune ed impossibilità d'uso da parte del condomino, in Rass. loc. e cond., 2004, 529;

Marchesi, Innovazioni utili e mutamento di destinazione in pregiudizio dei diritti dei singoli condomini, in Arch. loc. e cond., 1986, 113.

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