Uso delle cose comuni (alterazione della destinazione)
02 Febbraio 2018
Inquadramento
L'uso dei beni comuni da parte di ciascun partecipante al condominio, così come generalmente ammesso dall'art.1102 c.c. dettato in materia di comunione ma applicabile anche al condominio in forza del rinvio espresso dall'art. 1139 c.c., è una delle questioni più complesse e dibattute in giurisprudenza e dottrina. L'art. 1102, comma 1, c.c. dispone che: «Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa». All'indomani dell'approvazione del codice del '42, Peretti-Griva, uno dei primissimi commentatori, nel libro «Il condominio di case divise in arti nella nuova legislazione», affermava che seppur il codice civile, nel disciplinare il condominio, nulla disponeva dovendosi riferire alle norme sulla comunione, il richiamo all'uso delle cose comuni è ancora più liberale «in quanto consente al condominio delle modificazioni all'unica, semplificata condizione del miglior godimento della cosa e ciò non si deve rivolgere a tutti i condomini ma a colui che attua la modifica. «Tanto meglio se al miglior godimento concorrerà l'intero condominio, o una frazione di esso». Quod mihi prodest ed alteri non nocet, richiamava l'Autore. Riassumendo ed estrapolando dalle tante massime della giurisprudenza, si pensi alla trasformazione del tetto in terrazza o all'uso del cortile, in generale, quindi alle cose comuni possono essere apportate le modificazioni che si rendano necessarie, a condizione che l'utilità non contrasti con la specifica destinazione delle stesse o che essa non perdano la loro normale ed originaria destinazione. Ma la norma, in ambito condominiale ha dato adito alle più svariate pronunce, spesso in contrasto tra loro, tanto è vero che il legislatore con la riforma dell'istituto del 2012 ha cercato di regolare le modificazioni delle destinazioni d'uso delle cose comuni, quando queste rispondano ad un generale interesse condominiale. Gli art. 1117 ter e 1117 quater c.c. regolano appunto il procedimento di modifica delle parti comuni richiedendo all'uopo una speciale maggioranza. L'alterazione della destinazione che, come si è detto trova fondamento nell'art. 1102 c.c. (Capo dedicato alla comunione) ed ora anche nell'art. 1117 ter c.c. (Capo II del condominio negli edifici), non deve essere confusa con l'alterazione del decoro architettonico che è richiamata in materia di innovazioni. La fattispecie dell'art. 1102 .c.c. sull'uso delle cose comuni in relazione all'alterazione della destinazione, regola i diritti dei partecipanti al condominio e prescrive che in nessun caso (fino al 2012) poteva essere alterata la destinazione della cosa comune e in origine l'antica giurisprudenza aveva indicato i principi degli elementi economici, gli interessi collettivi sul bene, le norme giuridiche a tutela degli interessi come indici per valutare se un determinato uso comportasse un alterazione del bene comune. Ancora oggi con riferimento a casi iniziati ante riforma e di cui ora leggiamo le nuove pronunce, gli indici più importanti sono la destinazione che i condomini hanno dato concretamente alla cosa comune e la persistenza della funzione originaria del bene oggetto d'intervento da parte del singolo (da ultima, Cass. civ., sez. II, 10 marzo 2017, n. 6253). Il concetto di pari uso
L'alterazione della destinazione dei beni comuni è strettamente collegato al concetto di uso e pari uso degli stessi poiché va da se che una diversa, egoistica, utilizzazione può comportare l'alterazione dell'originaria fruibilità dei beni. L'uso indebito comporta alterazione, così come alterare lo stato di fatto della cosa senza il consenso dei condomini espresso, ora, nei modi e nelle forme dell'art. 1117 ter .c.c.
Lo stesso art. 1102 c.c. attribuisce a ciascun partecipante la facoltà di fare uso del bene comune, cioè egli ha la possibilità di realizzare la più intensa utilizzazione dei beni comuni purché compatibile con quella degli altri condomini. Uno degli arresti più chiari della giurisprudenza sul pari uso si può far risalire al 2008 (Cass. civ., sez. II, 30 maggio 2003, n. 8808) in cui è chiaramente affermato che: «La nozione di pari usi della cosa comune ex art.1102 c.c., non va intesa nel senso di uso identico e contemporaneo dovendo ritenersi conferita dalla legge a ciascun partecipante alla comunione la facoltà di trarre dalla cosa comune la più intensa utilizzazione, a condizione che essa sia compatibile con i diritti degli altri essendo i rapporti condominiali informati al principio di solidarietà». Iinfatti ancora oggi (Cass. civ., sez. VI, 23 giugno 2017, n. 15705) è ribadito come «la norma in parola, intesa, altresì, ad assicurare al singolo partecipante, quanto all'esercizio concreto del suo diritto, le maggiori possibilità di godimento della cosa, legittima quest'ultimo, entro i limiti ora ricordati, a servirsi di essa anche per fini esclusivamente propri, traendone ogni possibile utilità, non potendosi intendere la nozione di «uso paritetico» in termini di assoluta identità di utilizzazione della res, poiché una lettura in tal senso della norma de qua, in una dimensione spaziale o temporale, comporterebbe il sostanziale divieto, per ciascun condomino, di fare, della cosa comune, qualsiasi uso particolare a proprio vantaggio». Se è prevedibile che gli altri condomini non faranno un pari uso della cosa comune le modifiche apportate devono ritenersi lecite poiché in questa materia è prevista la massima espansione del diritto di proprietà. Prendendo ad esempio l'uso del cortile da parte di un condomino titolare di un'officina meccanica che vi faceva transitare dei veicoli dei propri clienti per la riparazione e la prova dei motori, la Suprema Corte (Cass. civ., sez. II, 19 gennaio 2005, n. 1072) ha chiarito come si debba considerare la tollerabilità in ragione dell'intensità dell'uso nonché la sua qualità. Quindi se non vi è alterazione del rapporto di equilibrio tra i diritti di tutti i condomini non si è in presenza di una alterazione.
Altro canone, con riguardo alla originaria destinazione, di cui gli esempi principali sono la trasformazione del tetto in terrazzo da parte del proprietario dell' ultimo piano, è la funzione svolta dal bene comune (Cass. civ., sez. II, 10 marzo 2017, n.6253). Così se l'originaria funzione -nel caso citato la copertura – non viene meno per gli altri condomini, non ne deriva alterazione della destinazione bastando che questa sia salvaguardata da opere adeguate per la copertura e protezione svolta dal tetto e che gli altri condomini non siano privati di reali possibilità di farne uso. La riforma dell'istituto del condominio pone però ora dei dubbi in relazione alle ultime pronunce molto liberali e agganciate al concetto di massima estensione del diritto di proprietà sopra richiamato in relazione all'uso e, come visto, alla sua incidenza sull'alterazione della destinazione. Mentre con riguardo a particolari interventi sulle parti comuni come: giardini, cortili, vani scale sembrano non esserci particolari paradossi in relazione alle innovazioni relative alla salubrità e sicurezza degli edifici e degli impianti ma, soprattutto, per l'abbattimento delle barriere architettoniche, con riferimento alla trasformazione – consentita - del tetto in terrazza (a tasca), si pone il problema dell'utilizzo dello stesso per l'installazione di pannelli fotovoltaici per la cogenerazione di energia (art.1120, comma 2, n.2, c.c.) dovendosi assicurare a tutti i condomini il pari utilizzo. Le pronunce sull' alterazione del bene comune (in questo caso, del tetto) successive all'entrata in vigore della riforma allora dovranno tenere in considerazione tale evenienza e scrutinare in modo diverso i principi di cui all'art. 1102 c.c.
L'articolo in commento ora prevede la possibilità per la qualificata maggioranza dei condomini (i quattro quinti dei partecipanti al condominio che rappresentino i quattro quinti del valore dell'edificio), al termine di una complessa procedura di convocazione dell'assemblea dei condomini, di modificare la destinazione d'uso delle parti comuni. Chiara è la norma: «per soddisfare esigenze di interesse condominiale» cioè diversa necessità della comunità di dare ad un particolare bene una nuova destinazione, alterandone l'originario uso poiché ormai non più consono alle esigenze – anche moderne - della comunità. Si pensi, negli antichi condominii, ai locali destinati alla portineria per regolamento condominiale, o alla trasformazione di un giardino destinato a parco giochi, in piscina, e gli esempi potrebbero essere altri, come trasformare un giardino in parcheggio. Se la giurisprudenza ante riforma riteneva che «in tema di condominio, il rispetto del principio generale di cui all'art. 1102 c.c. e delle regole conseguentemente dettate dall'art. 1120 c.c. in materia di innovazioni, impone al giudice, nel caso in cui parti del bene comune siano di fatto destinate ad uso e comodità esclusiva di singoli condomini, un'indagine diretta all'accertamento della duplice condizione che il bene, nelle parti residue, sia sufficiente a soddisfare anche le potenziali, analoghe esigenze dei rimanenti partecipanti alla comunione» (Cass. civ., sez. II, 14 giugno 2006, n. 13752), ora con il nuovo procedimento di delibera relativamente all'interesse comune, la modifica non sarà più soggetta all'unanimità dei condomini. Casistica
Terzago, Il condominio, trattato teorico – pratico, Milano, 2015. Peretti-Griva, Il condominio di case divise in parti nella nuova legislazione, Torino, 1942. Cirla, L'apertura di un varco nel muro comune: attenzione alla costituzione di servitù, in immobili e proprietà, 2014, 11, 635. Bussole di inquadramento |