Distanze legali

15 Giugno 2020

Le norme che regolano i rapporti di vicinato trovano applicazione, rispetto alle singole unità immobiliari, solo in quanto compatibili con la concreta struttura dell'edificio e con la natura dei diritti e delle facoltà dei condomini, sicché il giudice deve accertare se la rigorosa osservanza di dette disposizioni non sia irragionevole, considerando che la coesistenza di più appartamenti in un unico edificio implica di per sé il contemperamento dei vari interessi al fine dell'ordinato svolgersi della convivenza tra i condomini.
Inquadramento

I c.d. rapporti di vicinato determinano, in forza delle disposizioni normative del codice civile, una serie di limiti all'esercizio dei poteri di godimento da parte del proprietario al fine di tutelare ed equilibrare i diritti e i divieti esistenti tra proprietari limitrofi o confinanti.

I limiti nascenti dai rapporti di vicinato si caratterizzano per essere automatici, in quanto sorgono direttamente per effetto della situazione prevista dalla legge, e sono reciproci, valendo i divieti e gli obblighi normativi per entrambi i proprietari interessati.

Per quanto qui interessa vengono in esame, quali limiti ai diritti dominicali connessi ai rapporti di vicinato, gli artt. 873 ss. c.c. contenenti norme relative a distanze nelle costruzioni, piantagioni, scavi, muri, fossi e siepi interposti tra i fondi.

In ordine all'applicabilità o meno delle norme in tema di rapporti di vicinato con riferimento alla realtà condominiale la Suprema Corte può dirsi aver accolto un orientamento prevalente caratterizzato dalla necessità di dover accertare la compatibilità della disciplina caso per caso.

Disciplina in materia di distanze e art. 1102 c.c.

Inizialmente la Suprema Corte ha affermato che, nei rapporti fra la proprietà separata per piani di un condominio, non si può escludere l'osservanza delle norme di legge sulle distanze legali che non siano incompatibili con la struttura dei diritti inerenti al condominio, qualora l'uso che uno dei condomini faccia della cosa comune esorbiti dalla normale destinazione di questa e, volgendola a profitto della sua proprietà esclusiva, violi i diritti dell'altro condomino che le disposizioni sulle limitazioni e distanze legali tendono appunto a garantire (Cass. civ., sez. II, 13 agosto 1954, n. 2955; Cass. civ., sez. II, 20 ottobre 1958, n. 3371; Cass. civ., sez. II, 26 ottobre 1957, n. 4150; Cass. civ., sez. II, 12 ottobre 1960, n. 2691).

In dottrina, è stato sostenuto che non vi è ragione per affermare che i vicini debbano osservare determinate precauzioni quando li separa, ad es., un muro divisorio, unica cosa comune, e non debbano osservarle se hanno in comune anche il tetto o altre parti dell'edificio, in quanto il condominio non si costituisce per accrescere i poteri dei singoli sui propri piani o per diminuire quei limiti che la legge pone altrimenti nei rapporti di vicinato, ma per utilizzare le stesse parti dell'edificio (scala, tetti, ecc.) a vantaggio di più appartamenti.

Secondo questo orientamento, quindi, le norme in tema di distanze legali non dovranno essere osservate quando sono in contrasto con i principi fondamentali sui quali si regge il condominio, per cui sarebbe possibile aprire una finestra sul cortile anche senza rispettare le distanze dall'appartamento di un altro condomino, in quanto la funzione è quella di dare luce ed aria.

Similmente a quanto sopra detto, la Suprema Corte ha affermato che le norme sulle distanze legali sono applicabili anche in materia di condominio ogni qual volta uno dei condomini, volgendo l'uso delle parti comuni dell'edificio a profitto del piano di sua proprietà esclusiva venga a determinare situazioni che pongono ugualmente, nei rapporti con gli altri condomini, l'esigenza della tutela voluta dalle suddette norme (Cass. civ., sez. II, 2 ottobre 1956, n. 3320).

Peraltro, secondo altra dottrina, l'applicazione delle norme sulle distanze legali, nel caso del condominio, è possibile solo teoricamente, dato che, sotto il profilo pratico, il divieto che discende dall'applicazione di tali disposizioni viene eluso totalmente, perché contrastante con i principi che regolano l'uso ed il godimento delle cose comuni, o diventa del tutto superfluo, in quanto l'osservanza delle limitazioni o divieti peculiari alla comunione priva di ogni pratico rilievo il divieto derivante dalle disposizioni che impongono l'osservanza delle distanze legali.

Secondo altra impostazione, le limitazioni all'applicazione delle norme sulle distanze negli edifici in regime condominiale, anche nei rapporti tra le proprietà individuali, non trovano giustificazione nel fatto che la normativa del condominio e della comunione costituisca un sistema chiuso ed escludente altri limiti per i diritti dei singoli, bensì hanno origine nell'esistenza di una serie di servitù reciproche tra gli appartamenti componenti il condominio le quali servitù sono costituite per destinazione del padre di famiglia nel caso del costruttore dell'edificio, che successivamente proceda alla sua vendita frazionata, ovvero per conversione tra gli aventi diritto (Cass. civ., sez. II, 17 novembre 1977, n. 5025).

In tal senso, l'eventuale costituzione per destinazione del padre di famiglia di una serie di servitù reciproche tra gli appartamenti componenti il condominio, giustificherebbe il permanere della situazione esistente al momento della nascita del condominio, ma non spiega la limitazione all'applicabilità delle norme in tema di distanze legali per le innovazioni.

La Suprema Corte ha altresì affermato che ai fini dell'applicabilità delle norme sulle distanze legali alle costruzioni eseguite sulle parti comuni di un edificio in condominio, occorre distinguere tra le funzioni primarie e fondamentali attribuite a tali parti in relazione al fine per cui il condominio è stato costituito e le eventuali utilizzazioni secondarie di cui le stesse parti sono suscettibili al di fuori di un rapporto di connessione inscindibile con la struttura e la funzionalità del condominio; infatti, nel mentre deve affermarsi la prevalenza del perseguimento delle funzioni primarie delle parti comuni rispetto all'osservanza delle norme sulle distanze legali, queste norme debbono, invece, essere applicate riguardo alle utilizzazioni secondarie delle menzionate parti, quali le costruzioni eseguite da un condomino sul muro comune per scopi estranei alla funzione tipica (Cass. civ., sez. II, 6 aprile 1981, n. 1941).

Vi sono, poi, decisioni che hanno affermato che la disposizione dell'art 1120 c.c., nella parte in cui vieta le innovazioni che possono recare pregiudizio al decoro architettonico del fabbricato o che rendono talune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino, si limita a tutelare l'edificio in sé ed il modo di usare e di godere della cosa comune; consegue che ove l'opera compiuta da un condomino o dal condomino sulla cosa comune rechi danno o pregiudizio alla proprietà esclusiva di un singolo condomino trattandosi di rapporti relativi a due immobili finitimi, trova applicazione la disciplina dei rapporti di vicinato (Cass. civ., sez. II, 26 maggio 1989, n. 2548).

Peraltro, la Suprema Corte ha anche statuito che le norme sulle distanze legali, le quali sono fondamentalmente rivolte a regolare rapporti tra proprietà autonome e contigue, sono applicabili anche nei rapporti tra il condominio ed il singolo condomino di un edificio condominiale nel caso in cui esse siano compatibili con l'applicazione delle norme particolari relative all'uso delle cose comuni, cioè nel caso in cui l'applicazione di queste ultime non sia in contrasto con le prime e delle une e delle altre sia possibile un'applicazione complementare; nel caso di contrasto prevalgono le norme relative all'uso delle cose comuni, con la conseguenza della inapplicabilità di quelle relative alle distanze legali, che, nel condominio di edifici e nei rapporti tra singolo condomino ed il condominio stesso sono in rapporto di subordinazione rispetto alle prime (Cass. civ., sez. II, 14 aprile 2004, n. 7044; Cass. civ., sez. II, 5 giugno 2003, n. 8978; Cass. civ., sez. II, 1 dicembre 2000, n. 15394).

La Corte di Cassazione ha sottolineato che il principio dell'inoperatività, nel condominio, della normativa sulle distanze legali, se può valere con riferimento alle opere eseguite sulle parti comuni e sempre che si tratti di uso normale di queste ultime, non si estende invece ai rapporti fra i singoli condomini (Cass. civ., sez. II, 25 ottobre 2001, n. 13170).

In senso contrario a quanto sin qui detto si pongono quelle decisioni che hanno sostenuto che le norme sulle distanze legali non trovano applicazione in tema di uso della cosa comune, essendo la materia regolata dalle norme di cui agli artt. 1102, 1117, 1118, 1120, 1121 e 1122 c.c., che costituiscono un sistema completo al quale non possono aggiungersi, se non ne ricorrono i presupposti, altre diverse limitazioni valide per regolare i rapporti tra costruzioni di fondi finitimi (Cass. civ., sez. II, 6 novembre 1971, n. 3133; Cass. civ., sez. II, 24 aprile 1977, n. 1529).

Da ultimo, in ogni caso, la Suprema Corte se, da un lato, ha precisato, correttamente, che qualora il proprietario di un appartamento sito in un edificio condominiale esegua opere sui propri beni facendo uso anche di beni comuni, indipendentemente dall'applicabilità della disciplina sulle distanze, è necessario che, in qualità di condomino, utilizzi le parti comuni dell'immobile nei limiti consentiti dall'art. 1102 c.c. (Cass. civ., sez. II, 28 febbraio 2017, n. 5196), dall'altro lato, ha ribadito l'orientamento che ben può dirsi prevalente secondo il quale le norme che regolano i rapporti di vicinato trovano applicazione, rispetto alle singole unità immobiliari, solo in quanto compatibili con la concreta struttura dell'edificio e con la natura dei diritti e delle facoltà dei condomini, sicché il giudice deve accertare se la rigorosa osservanza di dette disposizioni non sia irragionevole, considerando che la coesistenza di più appartamenti in un unico edificio implica di per sé il contemperamento dei vari interessi al fine dell'ordinato svolgersi della convivenza tra i condomini (Cass. civ., sez. II, 2 febbraio 2016, n. 1989).

La Corte, peraltro, poco tempo prima aveva statuito che le norme sulle distanze sono applicabili anche tra i condomini di un edificio condominiale, purché siano compatibili con la disciplina particolare relativa alle cose comuni, cioè quando l'applicazione di quest'ultima non sia in contrasto con le prime; nell'ipotesi di contrasto, la prevalenza della norma speciale in materia di condominio determina l'inapplicabilità della disciplina generale sulle distanze che, nel condominio degli edifici e nei rapporti tra singolo condomino e condominio, è in rapporto di subordinazione rispetto alla prima. Pertanto, ove il giudice constati il rispetto dei limiti di cui all'art. 1102 c.c., deve ritenersi legittima l'opera realizzata anche senza il rispetto delle norme dettate per regolare i rapporti tra proprietà contigue, sempre che venga rispettata la struttura dell'edificio condominiale (Cass. civ., sez. II, 18 marzo 2010, n. 6546).

E' opinione dello scrivente, peraltro, che la tesi che prevede l'applicabilità della disciplina in materia di distanze e in generale delle norme in materia di vicinato al condominio non sia corretta e deve ritenersi altresì fondata la critica dottrinale che critica la compatibilità dell'art 1102 c.c. con la predetta normativa.

Infatti, le norme in tema di distanze legali, sembrano presupporre l'esistenza di due “fondi” (intesi come appezzamenti di terreno o edifici) distinti, come emerge anche dall'intitolazione della sezione VI del capo II del libro III (“Delle distanze nelle costruzioni piantagioni e scavi, e dei muri, fossi e siepi interposti tra i fondi”).

In secondo luogo, ove si dovessero ritenere applicabili, in linea di principio, al condominio le distanze legali, la (teorica) iniziale violazione quantomeno di alcune delle relative norme sarebbe connaturata al condominio stesso.

Come è stato rilevato in dottrina, infatti, non possono esistere unità immobiliari in proprietà esclusiva dotate di normali servizi igienici che rispettino con riferimento a tutte le unità immobiliari adiacenti ed alle parti comuni la distanza di cui all'art. 889, comma 2, c.c., in tema di tubazioni.

La conseguenza sarebbe che i vari condomini potrebbero pretendere l'eliminazione di tali tubazioni, non potendosi invocare (a differenza di quanto potrebbe avvenire con riferimento alla distanza delle vedute) la costituzione di servitù per destinazione del padre di famiglia, in difetto del requisito dell'apparenza delle opere.

Il limite della compatibilità in tal senso reca con sé un grado di incertezza che rende il criterio in questione evidentemente censurabile.

In evidenza

Qualora il proprietario di un appartamento sito in un edificio condominiale esegua opere sui propri beni facendo uso anche di beni comuni, indipendentemente dall'applicabilità della disciplina sulle distanze, è necessario che, in qualità di condomino, utilizzi le parti comuni dell'immobile nei limiti consentiti dall'art. 1102 c.c.

Le singole fattispecie normative in materie di distanze e la compatibilità con il condominio

In materia di vedute in condominio, la Cassazione ha avuto modo di rilevare che si applicano le norme che concernono il condominio allorché si tratta dell'uso delle cose comuni e del diritto dei condomini su di esse, mentre, quando si tratta di rapporti tra le diverse unità, costituite da proprietà diverse, trovano applicazione le norme sui rapporti di vicinato, ove la specifica disciplina della comunione sia con esse compatibile, e che tale compatibilità esiste in ordine al regolamento delle distanze in materia di vedute, fermo rimanendo il diritto di ciascun condomino di aprire luci e vedute sulla cosa comune (Cass. civ., sez. II, 19 ottobre 1961, n. 2252).

Secondo altro orientamento, nel condominio di edifici la veduta che il singolo condomino, utilizzando il muro comune, apra verso la contigua proprietà esclusiva di altro condomino rientrante nell'ambito dell'edificio condominiale è legittima, ancorché non rispetti le distanze prescritte dall'art. 905 c.c., ove si accerti che la predetta apertura costituisca facoltà rientrante nei diritti del singolo condomino sui beni comuni ed incompatibile con l'osservanza delle distanze legali (Cass. civ., sez. II, 30 marzo 1976, n. 1146).

Secondo un orientamento più recente, l'art. 907 c.c. in tema di distanze delle costruzioni dalle vedute è applicabile anche nei rapporti tra condomini di un edificio non derogando l'art. 1102 c.c. al disposto del citato art. 907 c.c. (Cass. civ., sez. II, 2 ottobre 2000, n. 13012).

Similmente, non derogando l'art 1102 c.c. al disposto dell'art 907 c.c., dovendosi tenere conto in concreto della struttura dell'edificio, delle caratteristiche dello stato dei luoghi e del particolare contenuto dei diritti e delle facoltà spettanti ai singoli condomini, il giudice di merito deve verificare, nel singolo caso, se le vedute siano o meno compatibili con i diritti dei condomini (Cass. civ., sez. II, 11 novembre 2005, n.22838).

Si è anche affermato che il condomino il quale realizzi un manufatto in appoggio o in aderenza al muro in cui si apre una veduta diretta o obliqua esercitata da un sovrastante balcone, e lo elevi sino alla soglia del balcone stesso, non è soggetto, rispetto a questo, alle distanze prescritte dall'art 907, comma 3, c.c., nel caso in cui il manufatto sia contenuto nello spazio volumetrico delimitato dalla proiezione verticale verso il basso della soglia predetta, in modo da non limitare la veduta in avanti e a piombo del proprietario del piano di sopra; infatti, tra le normali facoltà attribuite al titolare della veduta diretta o obliqua esercitata da un balcone è compresa quella di inspicere o prospicere in avanti e a piombo, ma non di sogguardare verso l'interno della sottostante proprietà coperta dalla soglia del balcone, non potendo trovare tutela la pretesa di esercitare la veduta con modalità abnormi e puramente intrusive ossia sporgendosi oltre misura dalla ringhiera o dal parapetto (Cass. civ., sez. II, 16 marzo 1993, n. 3109).

Di recente, la Corte di Cassazione ha avuto modo di statuire che l'installazione di un ascensore, al fine dell'eliminazione delle barriere architettoniche, realizzata da un condomino su parte di un cortile e di un muro comuni, deve considerarsi indispensabile ai fini dell'accessibilità dell'edificio e della reale abitabilità dell'appartamento, e rientra, pertanto, nei poteri spettanti ai singoli condomini ai sensi dell'art. 1102 c.c., senza che, ove siano rispettati i limiti di uso delle cose comuni stabiliti da tale norma, rilevi, la disciplina dettata dall'art. 907 c.c. sulla distanza delle costruzioni dalle vedute, neppure per effetto del richiamo ad essa operato nell'art. 3, comma 2, della l. 9 gennaio 1989, n. 13, non trovando detta disposizione applicazione in ambito condominiale (Cass. civ., sez. II, 3 marzo 2012, n. 14096).

Per quanto riguarda l'applicabilità dell'art 889 c.c., secondo la Suprema Corte, le norme che regolano i rapporti di vicinato, tra le quali è compresa quella dell'art 889 c.c. trovano applicazione solo in quanto compatibili con la concreta struttura dell'edificio e con la particolare natura dei diritti e delle facoltà dei condomini, si è poi affermato che, qualora esse vengano invocate in giudizio tra condomini, il giudice del merito deve accertare se la rigorosa osservanza di dette norme sia o non nel singolo caso irragionevole, considerando che la coesistenza di più appartamenti in un unico edificio implica di per sé il contemperamento dei vari interessi al fine dell'ordinato svolgersi della convivenza che è propria dei rapporti condominiali (Cass. civ., sez. II, 21 maggio 2010, n. 12520; Cass. civ., sez. II, 25 luglio 2006, n. 16958; Cass. civ., sez. II, 8 novembre 2001, n. 13852).

In particolare, l'art 889 c.c, non trova applicazione con riferimento agli impianti da considerarsi indispensabili ai fini di una completa e reale utilizzazione dell'immobile, tale da essere adeguata all'evoluzione delle esigenze generali dei cittadini nel campo abitativo e alle moderne concezioni in tema di igiene; ne consegue che la creazione o la modifica di un'esigenza tanto diffusa da rivestire il carattere dell'essenzialità giustifica la mancata applicazione dell'art 889 c.c. negli edifici in condominio (Cass. civ., sez. II, 9 giugno 2009, n. 13313).

Si è escluso, ancora, che le disposizioni sulle distanze dettate dall'art 889 c.c., possano trovare applicazione, risultando incompatibili con la disciplina condominiale, nel caso di installazioni di tubi nei solai che separano i piani di un edificio condominiale, le quali si configurano come uso della cosa comune regolato dalle norme dell'art 1102 c.c., e sono perciò consentite ove non pregiudichino l'uguale godimento altrui della cosa comune e non concretino una particolare situazione di danno o di pericolo (Cass. civ., sez. II, 6 giugno 1981, n. 3659; Cass. civ., sez. II, 24 aprile 1977, n. 1529).

Recentemente è stato sottolineato che con riferimento ai tubi dell'impianto di riscaldamento, l'art. 889 c.c. è derogabile solo ove la distanza prevista sia incompatibile con la struttura degli edifici condominiali (Cass. civ., sez. II, 2 febbraio 2016, n. 1989).

Per quanto riguarda l'installazione di canne fumarie, la Suprema Corte ha affermato che qualora il proprietario esclusivo del terrazzo a piano attico di edificio condominiale, collocando una canna fumaria in aderenza al muro perimetrale e prolungandola oltre la ringhiera di detto terrazzo, ha arrecato pregiudizio al suo godimento di veduta, l'indagine sulla legittimità del fatto denunciato, nei limiti in cui sia consentita nel giudizio possessorio, va condotta con riferimento all'art 907 c.c. (distanza delle costruzioni dalle vedute), non all'art 1102 c.c. (uso della cosa comune), tenuto conto che la suddetta domanda è rivolta a tutelare il possesso del singolo appartamento non il compossesso di un bene condominiale (Cass. civ., sez. II, 27 giugno 1985, n. 3859).

Per contro, più recentemente la Suprema Corte ha sottolineato che qualora il proprietario di un'unità immobiliare del piano attico agisca in giudizio per ottenere l'ordine di rimozione di una canna fumaria posta in aderenza al muro condominiale e a ridosso del suo terrazzo, la liceità dell'opera, realizzata da altro condomino, deve essere valutata dal giudice alla stregua di quanto prevede l'art. 1102 c.c., secondo cui ciascun partecipante alla comunione può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso, non rilevando, viceversa, la disciplina dettata dall'art. 907 cod. civ. sulla distanza delle costruzioni dalle vedute, atteso che la canna fumaria (nella specie, un tubo in metallo) non è una costruzione, ma un semplice accessorio di un impianto (nella specie, forno di pizzeria) (Cass. civ., sez. II, 23 febbraio 2012, n. 2741).

VEDUTE IN CONDOMINIO: ORIENTAMENTI A CONFRONTO

Distinzione tra aperture su parti comuni o parti esclusive

In materia di vedute in condominio, si applicano le norme che concernono il condominio allorché si tratta dell'uso delle cose comuni e del diritto dei condomini su di esse, mentre, quando si tratta di rapporti tra le diverse unità, costituite da proprietà diverse, trovano applicazione le norme sui rapporti di vicinato, ove la specifica disciplina della comunione sia con esse compatibile, e che tale compatibilità esiste in ordine al regolamento delle distanze in materia di vedute, fermo rimanendo il diritto di ciascun condomino di aprire luci e vedute sulla cosa comune (Cass. civ., sez. II, 19 ottobre 1961, n. 2252).

Applicazione delle norme in materia di distanza sempre purché compatibili

Non derogando l'art 1102 c.c. al disposto dell'art 907 c.c., dovendosi tenere conto in concreto della struttura dell'edificio, delle caratteristiche dello stato dei luoghi e del particolare contenuto dei diritti e delle facoltà spettanti ai singoli condomini, il giudice di merito deve verificare, nel singolo caso, se le vedute siano o meno compatibili con i diritti dei condomini (Cass. civ., sez. II, 11 novembre 2005, n.22838).

Casistica

CASISTICA

Canne fumarie

Qualora il proprietario di un'unità immobiliare del piano attico agisca in giudizio per ottenere l'ordine di rimozione di una canna fumaria posta in aderenza al muro condominiale e a ridosso del suo terrazzo, la liceità dell'opera, realizzata da altro condomino, deve essere valutata dal giudice alla stregua di quanto prevede l'art. 1102 c.c., secondo cui ciascun partecipante alla comunione può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso, non rilevando, viceversa, la disciplina dettata dall'art. 907 c.c. sulla distanza delle costruzioni dalle vedute, atteso che la canna fumaria (nella specie, un tubo in metallo) non è una costruzione, ma un semplice accessorio di un impianto (nella specie, forno di pizzeria) (Cass. civ., sez. II, 23 febbraio 2012, n. 2741)

Tubi dell'impianto di riscaldamento

Con riferimento ai tubi dell'impianto di riscaldamento, l'art. 889 c.c. è derogabile solo ove la distanza prevista sia incompatibile con la struttura degli edifici condominiali (Cass. civ., sez. II, 2 febbraio 2016, n. 1989)

Guida all'approfondimento

Mazzon, I rapporti di vicinato e le distanze legali. Tutela e risarcimento, Padova, 2013;

Salis, Impianto di ascensore e distanze legali, in Riv. giur. edil., 1966, I, 462;

Branca, Distanze legali e condominio, in Foro it., 1952, I, 1166.

Sommario