Davide Turroni
Davide Turroni
06 Febbraio 2017

La decisione della causa, come «atto del decidere», è a ben vedere il prodotto di un'attività complessa e – nel processo ordinario – attentamente regolata, che si svolge nella cosiddetta fase decisoria.

Inquadramento

IN FASE DI AGGIORNAMENTO AUTORALE DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE

La decisione della causa, come «atto del decidere», è a ben vedere il prodotto di un'attività complessa e – nel processo ordinario – attentamente regolata, che si svolge nella cosiddetta fase decisoria.

Come complesso di attività, la fase decisoria consiste in una serie di adempimenti variabili ma funzionali a due obiettivi comuni:

  1. consentire alle parti di prendere definitiva posizione sulla materia del contendere;
  2. elaborare il giudizio e stendere la decisione.

Il processo ordinario di cognizione prevede oggi numerosi modelli di fase decisoria. Alcuni modelli variano secondo il tipo di giudice (il giudice di pace, in base all'art. 321 c.p.c., decide la causa con modalità diverse da quelle previste per il tribunale collegiale e monocratico dalla combinazione degli artt. 189 s., 275, 281-quinquies e sexies c.p.c.; la corte di cassazione, in base agli artt. e 380-bis ss. c.p.c., con modalità notevolmente diverse da quelle previste per i giudici di merito), altri dipendono dalla composizione dell'organo giudicante (così il tribunale in composizione collegiale decide la causa con modalità diverse dal tribunale in composizione monocratica); oppure dallo specifico oggetto della decisione (nel processo ordinario la pronuncia sull'estinzione è retta dalla disciplina particolare prevista dagli artt. 307 e 308 c.p.c.; nel giudizio di cassazione la pronuncia sull'inammissibilità del ricorso è retta dalla disciplina particolare prevista dagli artt. 375 e 380-bis c.p.c.). Altri ancora dipendono dalla scelta del giudice o delle parti, che, a parità di altre condizioni, possono decidere lo schema decisorio da seguire (così la decisione davanti al tribunale contempla ben tre «tracciati», di cui uno generale e altri due opzionali).

Alle numerose variabili interne al processo ordinario si aggiunge l'amplissimo assortimento dei modelli decisori propri dei procedimenti speciali.

In questa sede non è chiaramente possibile illustrare gli innumerevoli i modelli di decisione della causa, nemmeno se si volesse limitare l'osservazione ai processi contenziosi idonei alla formazione del giudicato.

L'analisi sarà invece dedicata ad alcuni problemi relativi al processo ordinario di cognizione, ma che hanno una vocazione «trasversale» perché interessano l'intero arco dei processi destinati a sfociare in decisioni idonee al giudicato.

«Decisione della causa» ed esercizio del potere decisorio

La decisione della causa, intesa come atto di esercizio del potere decisorio, consiste in una pronuncia idonea al giudicato; nell'emetterla, il giudice si spoglia della causa e del potere di deciderla.

Decisione della causa e potere decisorio non sono però termini coestensivi. Il potere decisorio è esercitato anche per la definizione di «unità decidibili» più piccole dell'intera causa (ad esempio di una questione preliminare di merito: v. Sentenze non definitive); come per la definizione di un giudizio unitario ma relativo a più cause (secondo schemi di connessione variamente disciplinati: v. Connessione). D'altro canto, la decisione di una causa rispecchia situazioni non omogenee, perché la causa può essere decisa nel merito, con accertamento sulla fondatezza della domanda e idoneità al giudicato sul diritto sostanziale; oppure con pronuncia di rigetto per ragioni processuali («di rito mero rito») che invece accerta un impedimento a decidere la causa nel merito (v. Questioni pregiudiziali).

A sua volta, lo specifico oggetto della decisione determina il vincolo che deriva dal suo passaggio in giudicato. La decisione della causa nel merito è pacificamente idonea al giudicato «pieno», cioè a disciplinare non solo il singolo rapporto deciso ma ogni altro da questo dipendente (v. Giudicato). Invece la decisione «di rito» ha un effetto conformativo meno intenso: a seconda dei casi, il suo giudicato può arrestarsi al singolo processo, oppure spiegare effetto vincolante in altri giudizi ma – almeno si ritiene generalmente – non in cause relative a rapporti dipendenti.

Ad esempio il rigetto della domanda per difetto di giurisdizione a favore della pubblica amministrazione vincola solo il giudice di merito che l'ha accertato. Se poi è dichiarato dalla Cassazione, il criterio di riparto enunciato ha anche valore vincolante in altri giudizi, ma solo sulla stessa controversia e non su altre che, per ragioni di connessione, in teoria andrebbero regolate allo stesso modo.

Identità del Magistrato

La fase decisoria nel suo complesso è retta da un principio d'identità del giudice-persona fisica. Questo canone esige che la decisione sia resa, a pena di nullità della sentenza, dallo stesso magistrato davanti al quale si è tenuta l'udienza di precisazione delle conclusioni. V. ad es., Cass., 14 dicembre 2007, n. 26327; Cass., 9 aprile 2013, n. 8586.

D'altro canto, la stessa prescrizione non vale per le fasi precedenti, nelle quali la sostituzione del magistrato, pur in violazione dell'art. 174 c.p.c., determina una mera irregolarità: v. le pronunce appena citate.

Adempimenti delle parti e validità della decisione

La decisione della causa è necessariamente preceduta da una fase, regolata in vario modo, in cui le parti prendono definitiva posizione sulla materia del contendere: a tal fine precisano le conclusioni e illustrano le loro posizioni in forma scritta o orale.

Comunque sia regolata, questa fase è funzionale alla tutela del contraddittorio e del diritto di difesa; per cui dal suo corretto svolgimento dipende la validità della decisione.

In evidenza

Parte della giurisprudenza applica un criterio alquanto selettivo per individuare i casi in cui le trasgressioni avvenute in questa fase si comunicano alla sentenza. In più occasioni la Suprema Corte, richiamandosi al criterio di «lesività in concreto delle nullità», ha affermato che la violazione delle norme che disciplinano questa fase non produce necessariamente la nullità della sentenza: questa va dichiarata solo se la parte dimostra che la violazione le ha impedito di svolgere difese idonee a determinare un esito più favorevole della causa. Così ad es. Cass., 9 aprile 2015, n. 7086, Cass., 23 febbraio 2006, n. 4020, in casi nei quali il giudice ha emanato la sentenza prima della scadenza dei termini previsti per le comparse conclusionali (e prima del loro deposito).

L'orientamento evidenziato non è tuttavia condiviso dalla giurisprudenza per ora maggioritaria, che ritiene nulla la sentenza emanata per il solo fatto che il giudice non abbia consentito alla parte di compiere l'attività difensiva propria della fase decisoria, secondo la disciplina da applicare al caso concreto: Cass., 5 aprile 2011, n. 4460; Cass., 8 ottobre 2015, n. 20180, con argomentata presa di distanze da Cass., 7086/2015, sul rilievo che il criterio di «lesività in concreto», pur operante in generale, non vale quando si impedisca alla parte di compiere attività presidiate da termini perentori.

Va comunque osservato che la nullità, pur sussistente, può non bastare da sola a procurare una vittoria in sede d'impugnazione. In particolare, nel caso dell'appello l'accertamento del vizio considerato (non rientrando tra i casi di rimessione al primo giudice) non toglie che il giudice ad quem dovrà poi decidere la causa nel merito. Di conseguenza, è inammissibile per carenza di interesse a impugnare un appello fondato esclusivamente sulla deduzione della nullità in esame, ma privo di censure sul merito del giudizio (v. in tal senso, ad es., 29 settembre 2015, n. 19214). Se si conviene su questo, nel caso della sentenza appellabile la conclusione da trarre è sostanzialmente in linea con l'orientamento minoritario di cui s'è detto; mentre il contrasto di giurisprudenza assume rilevanza pratica nel caso di sentenza non appellabile, o se la violazione si verifica nel giudizio di appello.

Deliberazione e stesura della decisione

La decisione davanti agli organi collegiali (del tribunale nelle cause di cui all'art. 50-bis c.p.c.; della corte d'appello e della corte di cassazione) è caratterizzata da maggiore complessità, consistendo in un'unica decisione resa da una pluralità di magistrati.

Per i giudici collegiali di merito trova generale applicazione – salve deroghe – lo schema previsto dagli artt. 275 ss. c.p.c. e art. 119 disp. att. c.p.c. per il giudizio avanti il tribunale collegiale. L'attività «deliberativa» si tiene nella camera di consiglio; essa è disciplinata in maniera minuziosa dall'art. 276 c.p.c., che regola le modalità di esame e decisione della causa, e dall'art. 119 disp. att. c.p.c., che regola la stesura della sentenza. E' utile chiarire – senza pretesa di completezza – quali adempimenti sono presidiati da nullità.

La sequenza stabilita nell'art. 276 c.p.c. per decidere le singole questioni e poi il merito non è dotata di rilevanza autonoma. L'eventuale trasgressione nel modus procedendi potrebbe riverberarsi sul contenuto della decisione; ma in questo caso la sentenza è impugnabile per un vizio proprio e non perché il collegio non ha deciso le questioni nell'ordine previsto dal codice (ad es. è del tutto rilevante che il collegio decida prima il merito e poi l'eccezione di incompetenza; mentre è rilevante il fatto in sé che la sentenza accolga la domanda nel merito respingendo l'eccezione d'incompetenza o omettendo di deciderla, in quanto sarebbe impugnabile dalla parte che ha contestato la competenza del giudice).

Quanto alla specifica attività di redazione della sentenza, l'errato recepimento del dispositivo deliberato in camera di consiglio vizia la sentenza. Se il dispositivo firmato dal presidente contrasta con quello riportato nel testo della sentenza, quest'ultima è nulla. Si pone piuttosto il problema per la parte che lo impugna di assolvere il relativo onere della prova; e di coordinare l'impugnazione con la querela di falso, che in linea di principio è necessaria in quanto la censura verte sull'estrinseco di provvedimento che è un atto pubblico (in tal senso v. ad es. Cass., 29 aprile 2010, n. 10282).

La mancata sottoscrizione della sentenza determina la nullità di cui all'art. 161, cpv., c.p.c., che sopravvive all'esaurimento dei mezzi di impugnazione ed è per questo annoverata tra le cause di Inesistenza della sentenza, sul cui regime si rinvia alla apposita voce. Il fenomeno è tuttavia più articolato.

Occorre distinguere il caso in cui la firma manca del tutto (nessuno dei tre membri del collegio firma), da quello in cui la firma viene apposta ma non da tutti i magistrati che vi sono tenuti. Nel primo caso la sentenza è senz'altro «inesistente» nel senso chiarito.

Nel secondo caso, le disposizioni in esame vanno coordinate con l'art. 132, u.c., c.p.c., che richiede la firma del solo presidente e del giudice estensore; dunque la sentenza è viziata se manca la loro firma. Sulla natura del vizio sono intervenute le Sezioni unite

In evidenza

Cass., Sez. Un., 20 maggio 2014, n. 11021 ha affermato che l'«inesistenza» ricorre solo se manca la firma di entrambi i magistrati; se, invece, manca la firma di uno solo dei due, la nullità ricade nella previsione dell'art. 161, comma 1, c.p.c., quindi è sanabile e soggetta alla regola dell'assorbimento nei motivi d'impugnazione. La soluzione accolta dalle Sezioni unite disattende così l'orientamento fino allora maggioritario, che considerava anche il secondo un caso soggetto all'art. 161, cpv., c.p.c.

Bisogna comunque tener presente che il requisito della firma congiunta, di presidente ed estensore, incontra le deroghe espresse ricavabili dagli artt. 132 e 276 c.p.c. (ad esempio il presidente che è anche estensore può firmare da solo: art. 276 c.p.c.).

Questi criteri vanno inoltre coordinati con la disciplina degli artt. 50-bis ss. c.p.c. sul riparto di funzioni fra tribunale collegiale e monocratico. L'art. 50-quater c.p.c. chiarisce che la disciplina in questione non si considera attinente alla costituzione del giudice (quindi sfuggono alla rilevabilità d'ufficio in ogni stato e grado del processo) e che la sua violazione dà luogo alla nullità «ordinaria» ex art. 161, comma 1, c.p.c. Se ne ricava che la sentenza firmata dall'unico magistrato, in veste di giudice monocratico nell'erroneo convincimento che la materia sia sottratta al tribunale collegiale, non rende la decisione inesistente; è invece sanabile e l'errore va dedotto come specifico motivo d'impugnazione.

Un particolare problema si pone quando la legge prevede che il giudice emani il testo integrale della sentenza (non il solo dispositivo) nella stessa udienza in cui si è tenuta la discussione. Il riferimento va soprattutto alla decisione resa ai sensi dell'art. 281-sexies c.p.c., il cui ambito di applicazione – in origine limitato al giudice monocratico, si è progressivamente esteso ai giudici collegiali di merito. Ci si è chiesti se il testo integrale la decisione, emessa in altra udienza o comunque in una data successiva, sia valida o no; e la Cassazione ha risposto in senso negativo. Cass., 30 marzo 2015, n. 6394 ha infatti dichiarato nulla la sentenza pronunciata ai sensi dell'art. 281-sexies c.p.c. se il giudice nell'udienza si limiti a dare lettura del dispositivo e soltanto in seguito depositi la decisione completa della motivazione.

Forma e sostanza della decisione. le «ordinanze decisorie»

L'atto di esercizio del potere decisorio è di solito individuato dalla forma del provvedimento, che nel processo ordinario è la sentenza. Ma non sempre la forma è indicativa della sostanza.

Nei procedimenti speciali i provvedimenti decisori assumono più spesso forma di ordinanza o di decreto. E neppure nel processo ordinario vi è piena corrispondenza tra forma di sentenza e natura decisoria: in particolare non vi è nei provvedimenti che dichiarano l'estinzione (art. 307, ult. comma, c.p.c.) e in quelli sulla competenza (v. art. 42 c.p.c.) che vanno adottati in forma di ordinanza in seguito alla l. 18 giugno 2009, n. 69.

Quanto ai provvedimenti sull'estinzione, è pacifico in giurisprudenza che la declaratoria di estinzione in forma di ordinanza può essere resa soltanto dal giudice istruttore, quindi nei procedimenti davanti a un giudice collegiale. La previsione non opera invece davanti al giudice monocratico, che dovrà pronunciarsi sull'estinzione con sentenza e nel rispetto del suo iter decisorio (Cass., 20 marzo 2013, n. 6880; Cass., 22 ottobre 2002, n. 14889).

La scelta di assegnare forma di ordinanza alle pronunce sulla competenza ha indotto a chiedersi se questa forma comporti pure una deroga alla disciplina della fase decisoria del processo ordinario, tale per cui il giudice possa direttamente decidere senza far precisare le conclusioni e in generale senza dar corso agli adempimenti prodromici alla sentenza di cui all'art. 189 s. c.p.c. Il problema si pone essenzialmente per i giudizi monocratici; o per quelli collegiali in cui il collegio è investito anche della trattazione della causa (come nel caso dell'appello: art. 350 c.p.c.). Mentre la previsione di un organo collegiale, e della trattazione riservata a un giudice istruttore, rendono difficilmente praticabile la scelta di saltare direttamente alla decisione – in mancanza di una specifica normativa di raccordo come è quella degli artt. 307 s. sull'estinzione.

La risposta è venuta da Cass., Sez. Un., 12 maggio 2008, n. 11657.

In evidenza

Secondo le Sezioni Unite l'esercizio del potere decisorio è vincolato all'espletamento della fase decisoria e ai relativi incombenti.

Da questa soluzione discendono i seguenti corollari. Se il giudice pronuncia sulla competenza senza avere consentito lo svolgimento della fase decisoria, allora vi sono due possibilità. O il provvedimento non ha natura decisoria, il che può accadere se il giudice respinge l'eccezione e dà quindi seguito allo svolgimento del giudizio. Oppure il provvedimento ha natura decisoria ma è invalido: ciò accade inevitabilmente se il provvedimento dichiara l'incompetenza e definisce il giudizio – salvo quanto detto sul principio di «lesività in concreto», supra, Adempimenti delle parti e validità della decisione).

In linea con la citata pronuncia, più di recente Cass., Sez. Un., 29 settembre 2014, n. 20449 hanno dichiarato inammissibile il ricorso per regolamento di competenza contro l'ordinanza di rigetto dell'eccezione emessa senza il previo avvio della fase decisoria.

(segue) Decisione resa per errore in forma diversa dalla sentenza

Può accadere che il giudice definisca con semplice ordinanza una questione preliminare di rito o preliminare di merito da definire con sentenza e senza avviare la fase decisoria.

Se si traggono implicazioni coerenti dalle Sez. Un. citate, la risposta è:

  1. l'ordinanza dichiara la questione infondata, allora non dovrebbe avere natura decisoria ma soltanto ordinatoria;
  2. se, invece, dovesse dichiararla fondata e respingere di conseguenza la domanda, allora la sorte della decisione dipende da ulteriori variabili.

Nel caso il giudice emetta un provvedimento decisorio ma adotta una forma diversa da quella prevista dalla legge, il provvedimento non per questo è invalido. Opera il criterio c.d. «di prevalenza della sostanza sulla forma» (che rispecchia il principio di conservazione ricavabile dall'art. 159 c.p.c.) per cui il provvedimento erroneamente emesso in forma – ad esempio – di ordinanza ha valore come sentenza, sempre che ne abbia i requisiti di forma.

Il problema non è tuttavia risolto ma si sposta su piani.

Per valere come sentenza il provvedimento deve possederne i requisiti essenziali; il che è possibile se il giudice è monocratico. Se invece il giudice è collegiale, il «salvataggio» del provvedimento dato in forma diversa solitamente non è possibile. La sentenza collegiale esige la doppia firma del presidente e dell'estensore, a pena di nullità ex art. 162, cpv., c.p.c.; mentre ordinanza e decreto di solito recano la firma di un solo magistrato, quindi non possono valere come sentenza perché determinerebbero una sentenza inesistente. V. in tal senso Cass., 8 febbraio 2008, n. 3128; Cass.,15 novembre 2012, n. 20024.

Un altro piano del problema riguarda il rispetto dell'iter prodromico all'emanazione della sentenza. L'ordinanza o il decreto, emessi senza il previo svolgimento della fase decisoria, si esporrebbero quindi alla nullità nei termini visti supra, Adempimenti delle parti e validità della decisione.

Riferimenti
  • Chizzini, Provvedimenti del giudice, in Dig. priv., Sez. civ., XIV, Torino, 1997, 65 ss.;
  • Id., Sentenza nel diritto processuale civile, ivi, XVIII, Torino, 1998, 236;
  • Fazzalari, Provvedimenti del giudice, in Enc. dir., XXXVII, Milano, 1988, 1245;
  • Liccardo, Le forme della decisione, in Nuovo processo civile e giudice unico. La giustizia civile tra crisi e riforme, Milano, 2000;
  • Danovi, La mancata sottoscrizione della sentenza da parte del solo estensore: nullità o inesistenza?, in Dir. fam., 2009, 1051 ss.

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