Chiamata per ordine del giudice
22 Febbraio 2017
Inquadramento
La norma che stabilisce la facoltà di ordinare l'intervento, art. 107 c.p.c., prevede un intervento coatto che provoca, in capo al terzo, l'assunzione della qualità di parte. La partecipazione del terzo sarà unicamente passiva, non essendo possibile che questi possa essere obbligato ad assumere la qualità di attore; il terzo, poi, potrà rimanere contumace. Questa è la posizione anche della giurisprudenza (Cass. civ., sez. II, 10 gennaio 2003, n. 187), la quale ha precisato che: «Nell'ipotesi di litisconsorzio meramente processuale, provocato dall'ordine di intervento del giudice, la contumacia del chiamato in causa nel grado in cui l'ordine è stato impartito come pure nel successivo grado di appello, evidenzia il suo totale disinteresse verso le sorti del giudizio (tanto più quando già la pronunzia di primo grado gli sia stata sfavorevole) e comporta che in sede di legittimità non sia necessario alcun ordine di integrazione del contraddittorio nei suoi confronti» (Cass. civ., sez. lav., 6 marzo 1998, n. 2527). L'ambito di applicazione è, da sempre, una delle problematiche più controverse. Si tratta di un istituto dai contorni incerti che ha creato dubbi e difficoltà interpretative, tanto da essere, nella prassi, poco utilizzato dagli stessi tribunali. Per rendersi conto delle problematiche sottese è utile, quindi, ripercorrere, brevemente, l'evoluzione storica dello stesso. Secondo un antico orientamento, sostenuto sotto la vigenza del codice del 1865, l'intervento per ordine del giudice era assimilato ad un mezzo istruttorio. Tale posizione fu, però, presto abbandonata. Secondo una diversa dottrina, sempre risalente nel tempo, si considerava l'intervento iussu iudicis quale strumento per l'integrazione del contraddittorio nelle ipotesi di litisconsorzio necessario. Si ritenevano, quindi, strettamente connesse la fattispecie prevista dall'art. 102 c.p.c. (litisconsorzio necessario), che si riteneva compresa in quella, più ampia, di cui all'art. 107 c.p.c.. Anche questa impostazione fu presto abbandonata alla luce delle riforme legislative che, negli anni cinquanta, hanno interessato il codice di rito, portando ad una differenziazione delle sanzioni per il caso di mancata ottemperanza all'ordine del giudice nei due istituti. Non solo ma risultò subito evidente la differenza fra l'istituto del litisconsorzio necessario e quello dell'intervento per ordine del giudice: il primo necessario, mentre il secondo meramente opportuno. Una posizione più aderente alla natura dell'istituto è quella secondo la quale la sua funzione sarebbe quella di tutelare la posizione di quei terzi che, in quanto titolari di un rapporto in posizione di dipendenza, potrebbero subire conseguenze pregiudizievoli a seguito di una decisione che non li coinvolgesse; si tratterebbe di quei terzi che sarebbero in ogni caso legittimati all'opposizione di terzo revocatoria, oltre che all'intervento adesivo dipendente. Una più recente posizione ravvisa una similitudine con l'istituto dell'intervento coatto ad istanza di parte (previsto dall'art. 106 c.p.c.). Il sistema attuale
Il problema fondamentale, a prescindere dalla posizione cui si intenda aderire, riguarda la compatibilità dell'istituto in commento con il principio dispositivo e, soprattutto, con il principio della domanda. Infatti con la chiamata per ordine del giudice, si prescinde totalmente dalla volontà delle parti che, solo loro, possono, appunto, disporre del processo. Per cercare di armonizzare l'istituto con il sistema processuale vigente, sono state avanzate alcune interpretazioni che cercano di inquadrare l'intervento jussu judicis come una mera litis denuntiatio. In tal modo il terzo assumerebbe la qualità di parte solo se, a seguito dell'ordine del giudice, decidesse di intervenire, di sua volontà, nel processo o se le parti originarie proponessero domanda contro di lui. Qualora, invece, il terzo decidesse di non effettuare l'intervento, egli rimarrebbe del tutto estraneo al processo. Anche la laconicità della norma, non aiuta a districarsi nelle problematiche sopra sommariamente individuate. In un'ottica applicativa, ad ogni modo, è stato comunque affermato che, pur con tutte le difficoltà interpretative e ricostruttive, l'istituto in commento rappresenta una norma di chiusura dell'ordinamento volta a garantire il rispetto di determinate esigenze processuali qualora le parti, o il terzo, non vi provvedano spontaneamente. Si ritiene, pertanto, che la ratio dell'istituto consista nel consentire il simultaneus processus sia per ragioni di economia processuale che per evitare un possibile contrasto di giudicati. Questo aspetto è privilegiato dalla giurisprudenza che afferma: «L'intervento iussu judicis, rispondendo all'interesse superiore della giustizia ad attuare l'economia dei giudizi e ad evitare i rischi di giudicati contraddittori - come tale di ordine pubblico e trascendente quello delle stesse parti originarie del giudizio o di terzi, - ben può essere disposto (sulla base di una valutazione che costituisce espressione di un potere discrezionale riservato al giudice del primo grado, il cui esercizio non è suscettibile di sindacato nelle fasi successive, né, in particolare, in sede di legittimità) anche nel caso in cui, di fronte a difese del convenuto dirette a far accertare la propria estraneità al rapporto controverso, il giudice ritenga di dover indurre od autorizzare chi agisce ad estendere la propria domanda nei confronti del terzo indicato come titolare del rapporto medesimo». (Cass. civ., sez. lav., 13 luglio 2004, n. 12930). La stessa giurisprudenza assegna all'istituto in esame anche un'altra funzione, quella di consentire al processo di adeguarsi al sistema di connessioni e relazioni che collegano fra loro i diversi rapporti processuali e le sottostanti situazioni sostanziali: «L'intervento in causa per ordine del giudice, ex art. 107 c.p.c. , ha lo scopo di estendere gli effetti sostanziali del giudicato al terzo, cui il rapporto sostanziale controverso sia comune, ovvero sia connesso per il titolo o per l'oggetto con l'altro rapporto in cui il medesimo si trovi con l'attore o con il convenuto, Pertanto, il chiamato in causa è sempre legittimato a proporre impugnazione incidentale adesiva a quella principale od incidentale della parte (attore o convenuto), per evitare che il giudicato sul detto rapporto possa produrre effetti pregiudizievoli su quello ad esso connesso, intercorrente tra lui e la parte al cui gravame aderisce; egli può, invece, impugnare la sentenza, in via principale od in via incidentale autonoma, nella sola ipotesi in cui sia risultato in tutto od in parte soccombente, rispetto alle proprie conclusioni, formulate in modo autonomo, ovvero a pretese fatte valere direttamente contro di lui. (Nella specie, nel corso di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, chiesto ed ottenuto da una società, il giudice ordinò la chiamata in causa dell'amministratore unico della stessa. Il tribunale accolse l'opposizione e condannò la società e l'amministratore, in persona, a rimborsare all'ingiunto le spese processuali. La sentenza fu confermata in grado d'appello, con decisione impugnata per cassazione dal solo amministratore, nella sua qualità di chiamato in causa per ordine del giudice. In applicazione del principio di diritto di cui alla massima, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso, affermando che la sola società sarebbe stata legittimata a proporlo, mentre l'amministratore avrebbe potuto proporre ricorso incidentale adesivo a quello principale nella sola ipotesi in cui la società lo avesse formulato, oppure avrebbe potuto proporre anche ricorso principale, ma solo nei confronti di quella parte della statuizione con la quale era stato condannato, in solido con la società, a rimborsare all'ingiunto le spese del giudizio d'appello)». (Cass. civ., sez. II, 2 agosto 1995, n. 8473). Le categorie di terzi
Dopo aver esaminato le ragioni dell'istituto chiediamoci, a questo punto, chi siano i terzi che possano essere chiamati in base ad un ordine del giudice.
Sull'effetto della chiamata del terzo per ordine del giudice la giurisprudenza ha avuto modo di affermare che: “Qualora il convenuto eccepisca di non essere titolare del lato passivo del rapporto dedotto in giudizio e indichi come tale il terzo, il giudice di primo grado, con valutazione discrezionale, non sindacabile in sede di legittimità, può ordinare l'intervento in causa del terzo, a norma dell'art. 107 c.p.c., in tal modo costituendosi un "simultaneus processus" diretto alla individuazione del titolare passivo del credito azionato, al terzo estendendosi in via automatica la domanda dell'attore.” (Cass. civ., sez. I, 14 giugno 2007, n. 13907) La conseguenza di tale orientamento è che il terzo così chiamato avrà tutti i poteri riconosciuti alle altre parti, anche in sede di impugnazione del giudicato: «L'intervento in causa per ordine del giudice, ex art. 107 c.p.c., ha lo scopo di estendere gli effetti sostanziali del giudicato al terzo, cui il rapporto sostanziale controverso sia comune, ovvero sia connesso per il titolo o per l'oggetto con l'altro rapporto in cui il medesimo si trovi con l'attore o con il convenuto. Pertanto, il chiamato in causa è sempre legittimato a proporre impugnazione incidentale adesiva a quella principale od incidentale della parte (attore o convenuto), per evitare che il giudicato sul detto rapporto possa produrre effetti pregiudizievoli su quello ad esso connesso, intercorrente tra lui e la parte al cui gravame aderisce; egli può, invece, impugnare la sentenza, in via principale od in via incidentale autonoma, nella sola ipotesi in cui sia risultato in tutto od in parte soccombente, rispetto alle proprie conclusioni, formulate in modo autonomo, ovvero a pretese fatte valere direttamente contro di lui. (Nella specie, nel corso di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, chiesto ed ottenuto da una società, il giudice ordinò la chiamata in causa dell'amministratore unico della stessa. Il tribunale accolse l'opposizione e condannò la società e l'amministratore, in persona, a rimborsare all'ingiunto le spese processuali. La sentenza fu confermata in grado d'appello, con decisione impugnata per cassazione dal solo amministratore, nella sua qualità di chiamato in causa per ordine del giudice. In applicazione del principio di diritto di cui alla massima, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso, affermando che la sola società sarebbe stata legittimata a proporlo, mentre l'amministratore avrebbe potuto proporre ricorso incidentale adesivo a quello principale nella sola ipotesi in cui la società lo avesse formulato, oppure avrebbe potuto proporre anche ricorso principale, ma solo nei confronti di quella parte della statuizione con la quale era stato condannato, in solido con la società, a rimborsare all'ingiunto le spese del giudizio d'appello)» (Cass. civ., Sez. II, 2 agosto 1995, n. 8473). Ancora, discende da quanto sostenuto sopra, che la chiamata di terzo per ordine del giudice è rimessa alla discrezionalità di questi; ciò determina una situazione di litisconsorzio processuale necessario, insindacabile sia da parte del giudice di appello, che del giudice di legittimità. Sempre, di conseguenza, è stato affermato che le spese sostenute dal terzo chiamato in causa su istanza di parte o d'ufficio sono legittimamente poste a carico dell'attore soccombente, a nulla rilevando che questi non abbia formulato domanda alcuna nei confronti dello stesso terzo evocato in giudizio (Cass. civ., Sez. III, 21 marzo 2008, n. 7674). Come si attua, in pratica, l'intervento per ordine del giudice? In concreto si tratta di una chiamata del terzo cui provvede una delle parti originarie (la c.d. parte più diligente) che, di norma, corrisponde a quella maggiormente interessata all'intervento del terzo.
Cosa succede, poi, se nessuno ottemperi all'ordine del giudice di chiamata del terzo? In tal caso la causa verrà cancellata dal ruolo, ai sensi dell'art. 270 c.p.c.. Ad ogni modo si ritiene che la fissazione dell'udienza, ai sensi dell'art. 107 c.p.c., per la chiamata del terzo non implichi la fissazione di alcun termine perentorio, ne consegue che la mancata osservanza dell'ordine di chiamata del terzo non impedirà al giudice di fissare una nuova udienza di comparizione (Cass. civ., sez. II, 12 luglio 2000, n. 9237). Nel caso in cui, poi, a seguito dell'inosservanza dell'ordine di chiamare un terzo non segua la cancellazione dal ruolo, ciò comporterebbe un'implicita revoca dell'ordinanza medesima e la regolare prosecuzione del processo. (Cass. civ., sez. III, 1 luglio 1998, n. 6415).
Entro quale termine processuale può avvenire la chiamata del terzo per ordine del giudice? A questo interrogativo si è risposto che la chiamata possa avvenire in ogni momento, con la precisazione che questa possibilità esiste solo nel giudizio di primo grado, e che non è soggetta al regime di preclusioni vigenti per l'intervento volontario, e ciò sulla base del combinato disposto degli artt. 107 e 269 c.p.c. Questo principio è affermato dalla giurisprudenza con specifico riferimento anche al giudizio innanzi al giudice di pace nel quale si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni che regolano il processo di cognizione avanti al Tribunale (Cass. civ., sez. III, 19 gennaio 2004, n. 707). Dalla discrezionalità della chiamata per ordine del giudice discende anche il principio secondo il quale, si verificherebbe un litisconsorzio necessario per ragioni processuali (da non confondere con il litisconsorzio necessario in senso proprio), che non può essere disconosciuto neppure dalla diversa opinione del giudice dell'impugnazione e che, in sede di gravame, rende le cause tra loro inscindibili (Cass. civ., sez. II, 10 gennaio 2003, n. 187). Casistica
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