Mauro Di Marzio
10 Luglio 2017

La disciplina della comparsa di risposta è dettata dall'art. 167 c.p.c., norma su cui il legislatore è reiteratamente intervenuto con la riforma del 1990 e con successivi aggiustamenti. La conformazione di tale comparsa assume un rilievo centrale nell'assetto delle preclusioni al quale il procedimento di cognizione ordinaria è ormai da oltre un quarto di secolo orientato.

Inquadramento

IN FASE DI AGGIORNAMENTO AUTORALE DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE

La disciplina della comparsa di risposta è dettata dall'art. 167 c.p.c., norma su cui il legislatore è reiteratamente intervenuto con la riforma del 1990 e con successivi aggiustamenti. La conformazione di tale comparsa assume un rilievo centrale nell'assetto delle preclusioni al quale il procedimento di cognizione ordinaria è ormai da oltre un quarto di secolo orientato.

La comparsa di risposta è l'atto che per definizione si contrappone alla citazione introduttiva del giudizio di primo grado (Andrioli, Commento al codice di procedura civile, II, Napoli, 1956, 22), e, al pari della citazione, va depositata al momento della costituzione, secondo quanto stabilisce per il convenuto l'art. 166 c.p.c.. Il rapporto di specularità tra citazione e comparsa di risposta, è tuttavia circoscritto dalla ovvia constatazione che il convenuto non deve assumere di regola alcuna iniziativa in funzione dell'istituzione del contraddittorio, già instauratosi per effetto della notificazione della citazione introduttiva (Mandrioli, Diritto processuale civile, Torino, 2002, 40). La comparsa di risposta, in particolare, è principalmente diretta ad esporre le difese spiegate dal convenuto nei confronti della domanda attrice, sempre che egli non ritenga di rimanere inerte optando per la contumacia: in ciò si riassume la sua funzione essenziale, rispetto alla quale l'ampliamento della lite in senso oggettivo, attraverso le eccezioni e la domanda riconvenzionale, o soggettivo, attraverso la chiamata in causa di terzi, si pone come meramente eventuale.

Nella formulazione ante legge n. 353/1990, l'art. 167 c.p.c. si limitava a stabilire che il convenuto dovesse proporre nella comparsa di risposta tutte le sue difese e le eventuali domande riconvenzionali, indicando specificamente i mezzi di prova, formulando le conclusioni e dichiarando altresì l'eventuale volontà di chiamare un terzo in causa. Con tale riforma, all'esito della scelta da parte del legislatore di un sistema fondato su preclusioni, e dunque sulla rigida suddivisione del processo in successive fasi, ciascuna destinata allo svolgimento di una specifica attività processuale, la norma è stata rimodellata sull'art.416c.p.c., concernente la comparsa di risposta nel rito del lavoro: al deposito della comparsa di risposta è stato così ancorato lo sbarramento alla proposizione della domanda riconvenzionale e delle eccezioni processuali e di merito non rilevabili d'ufficio, mentre le preclusioni istruttorie (a differenza che nel rito del lavoro) sono state collocate, come si preciserà, in una fase successiva.

Ben presto, però, il rigore del congegno preclusivo così introdotto è stato temperato, con il d.l. 18 ttobre 1995, n. 432, convertito con modificazioni in legge 20 dicembre 1995, n. 534 , il quale ha spostato la barriera delle preclusioni concernenti le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d'ufficio allo spirare del termine di 20 giorni antecedenti un'udienza, denominata di trattazione, fissata all'esito della prima udienza, esclusivamente destinata alle verifiche del contraddittorio. Questa soluzione è rimasta in vigore per circa un decennio ed è stata soppressa con il d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito con modificazioni in legge 14 maggio 2005, n. 80, il quale, allo scopo di contrastare un fenomeno di sfilacciamento ed inutile protrazione della fase introduttiva del processo, ha in buona sostanza reintrodotto il meccanismo precedente, in forza del quale il convenuto ha l'onere di proporre a pena di decadenza nella comparsa di risposta, oltre alla riconvenzionale, anche «le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio».

Requisiti formali

Per l'individuazione dei requisiti formali della comparsa di risposta occorre far riferimento all'art. 125 c.p.c., il quale, nel disciplinare il contenuto e la sottoscrizione degli atti di parte, stabilisce che, ove la legge non disponga altrimenti, gli atti di parte ivi menzionati, compresa «la comparsa», debbono indicare l'ufficio giudiziario, le parti, l'oggetto, le ragioni della domanda e le conclusioni, e devono essere sottoscritti dalla parte se essa sta in giudizio personalmente oppure dal difensore. Tuttavia, la stessa collocazione della comparsa di risposta all'interno dell'iter processuale già introdotto per effetto della citazione (la quale deve per l'appunto individuare l'ufficio giudiziario, le parti, l'oggetto, eccetera), induce a ritenere che elementi indispensabili di essa siano «le ragioni», in questo caso da identificarsi con le difese, e le conclusioni, oltre alla sottoscrizione del difensore, al di fuori degli eccezionali casi di difesa personale.

Ma, se la mancanza di sottoscrizione, risolvendosi in radicale difetto del requisito della forma scritta, comporta inesistenza dell'atto, la verifica contenutistica della comparsa di risposta, con riguardo alle difese e alle conclusioni, deve essere oggetto di una valutazione complessiva, sicché la comparsa di risposta può ritenersi sotto tale profilo formalmente carente, e così affetta da nullità, soltanto qualora essa non manifesti neppure in minima misura lo svolgimento di un'attività difensiva, mentre, in caso contrario, il concreto contenuto della comparsa di risposta assumerà rilievo non già sotto il profilo della validità dell'atto, bensì sotto quello dell'eventuale formarsi delle preclusioni normativamente previste (Cerino Canova, Dell'introduzione della causa, in Comm. c.p.c. diretto da Allorio, II, 1, Torino, 1980).

In tale prospettiva possono dunque leggersi le massime secondo cui la formulazione delle conclusioni richiesta dall'art. 167 c.p.c., pur integrando un elemento costitutivo della comparsa di risposta, non implica che il loro difetto sia di per sé causa di nullità dell'atto ove, dal tenore complessivo dello stesso, non risultino genericità o imprecisioni, e dunque sia raggiunto il suo scopo (Cass. 12 giugno 2008, n. 15707, la quale ha confermato la sentenza impugnata, che aveva ritenuto ritualmente sollevata nella comparsa di risposta l'eccezione di prescrizione del diritto azionato, benché la stessa non fosse riportata nelle conclusioni dell'atto, ma solo nella narrativa). La formulazione delle conclusioni richiesta dall'art. 167 c.p.c., in altri termini, pur integrando un elemento essenziale di contenuto-forma della comparsa di risposta, costituisce l'elemento di sintesi della posizione processuale assunta dalla parte convenuta in giudizio, senza peraltro che la legge disponga quale grado di definizione debba essere dato alla formulazione finale. In relazione alla loro funzione, tali conclusioni debbono nel loro contenuto esprimere una correlazione con quelle dell'attore; peraltro, anche la semplice espressione in esse delle pretese, senza la ripetizione delle ragioni e delle cause dedotte a loro fondamento, soddisfa l'esigenza di sintesi espressiva dalla legge richiesta, ancorché l'individuazione delle questioni da affrontare per valutarne la fondatezza, o non, richieda la valutazione dell'intero atto (Cass. 26 novembre 1996, n. 10468).

Eccezioni in senso lato, mere difese e mezzi di prova

Poiché l'art. 167 c.p.c. prevede che il convenuto debba con la comparsa di risposta proporre tutte le sue difese e prendere posizione sui fatti posti dall'attore a fondamento della domanda, indicando i mezzi di prova ed i documenti offerti in comunicazione, e formulando le conclusioni, mentre prevede la decadenza esclusivamente per le domande riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d'ufficio, non v'è dubbio che il congegno preclusivo espressamente previsto dalla norma non trovi applicazione né con riguardo alle eccezioni in senso lato e alle mere difese, né con riguardo alle richieste istruttorie.

Le eccezioni in senso lato, in particolare, sono quelle concernenti fatti estintivi, impeditivi o modificativi che operano ipso iure e debbono essere rilevati dal giudice anche d'ufficio, mentre le mere difese si risolvono o nella contestazione dei fatti posti a fondamento della domanda e delle condizioni dell'azione (difese in fatto), la cui sussistenza deve essere comunque verificata d'ufficio dal giudice, ovvero nell'allegazione della idoneità di quei fatti a produrre le conseguenze giuridiche invocate dall'attore (difese in diritto), idoneità anch'essa rimessa in ogni caso al giudice in applicazione della regola iura novit curia.

Mentre non v'è dubbio che le eccezioni in senso lato possano essere proposte senza limiti temporali, con riguardo alle mere difese in fatto occorre interrogarsi se la preclusione alla loro deduzione, quantunque non prevista dall'art.167 c.p.c., derivi dall'applicazione dell'art. 115 c.p.c., nella parte in cui fissa il principio di non contestazione e, cioè, stabilisce che il giudice deve porre a fondamento della propria decisione, oltre alle prove offerte dalle parti, anche «i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita».

Vale al riguardo osservare che fino ad epoca ormai remota, ossia ad un dipresso fino all'inizio del nuovo millennio, la S.C. negava cittadinanza nell'ordinamento al principio di non contestazione inteso nel senso oggi desumibile dalla norma, ritenendo cioè che i fatti allegati dall'attore potessero essere ritenuti come si suol dire «pacifici» solo ove vi fosse stata da parte del convenuto un'esplicita ammissione in tal senso, ovvero l'adozione di una linea difensiva incompatibile con la negazione di essi e, dunque, un'ammissione implicita (tra le meno remote Cass. 13ottobre 1999, n. 11513 e, con riguardo al rito del lavoro, ancora Cass. agosto 2001, n. 10482). In breve, la non contestazione era considerata conseguenza di una condotta del convenuto di segno positivo, e non di una condotta di segno semplicemente negativo. Tale atteggiamento si coniugava con quello concernente la reversibilità della non contestazione, sicché il convenuto ben poteva contestare domani ciò che non avesse contestato oggi.

Il che è ben riassunto nella ancora recente massima (ma riferita ad annosa vicenda processuale insorta prima della riforma del '90) secondo cui, nella disciplina del giudizio civile anteriore per l'appunto alla riforma di cui alla legge 26 novembre 1990, n.353, non vigeva a carico del convenuto alcun onere di immediata ed analitica contestazione dei fatti allegati dall'attore a fondamento della domanda. In quel sistema, pertanto, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo non era inibito all'opponente (il quale assume la veste sostanziale di convenuto) eccepire, in corso di causa, l'inesistenza del credito azionato in sede monitoria, a nulla rilevando che nella citazione in opposizione si fosse limitato ad eccepirne la sola prescrizione (Cass. 25 settembre 2009, n. 20681).

Una radicale inversione di tendenza si è avuta con una nota pronuncia delle Sezioni Unite del 2002 (Cass., Sez. Un., 23gennaio 2002 ,n. 761, in Giust. civ., 2002, I, 1909, con nota di Cattani, Sull'onere della specifica contestazione da parte del datore di lavoro dei conteggi relativi al quantum delle spettanze richieste dal lavoratore, concernente contestazione dei conteggi elaborati dall'attore per la quantificazione del credito oggetto di domanda di condanna, allorché il convenuto si limiti a negare in radice l'esistenza del credito avversario). La pronuncia si è cimentata con la questione centrale dell'individuazione delle conseguenze della non contestazione. A tal fine essa ha posto la distinzione tra i fatti costitutivi del diritto e le circostanze dedotte al solo fine di dimostrare l'esistenza dei fatti costitutivi, chiarendo che «nei “fatti posti dall'attore a fondamento della domanda” … è palesemente riconoscibile il connotato della prima categoria di fatti … Gli artt. 167, comma 1 e 416, comma 3, imponendo al convenuto l'onere di prendere posizione su tali fatti, fanno della non contestazione un comportamento univocamente rilevante ai fini della determinazione dell'oggetto del giudizio, con effetti vincolanti per il giudice, che dovrà astenersi da qualsivoglia controllo probatorio del fatto non contestato e dovrà ritenerlo sussistente, proprio per la ragione che l'atteggiamento difensivo delle parti, valutato alla stregua dell'esposta regola di condotta processuale, espunge il fatto stesso dall'ambito degli accertamenti richiesti. In altri termini, la mancata contestazione, a fronte di un onere esplicitamente imposto dal dettato legislativo, rappresenta, in positivo e di per sé, l'adozione di una linea difensiva incompatibile con la negazione del fatto … e, quindi, rende inutile provarlo, perché non controverso». Da ciò discende la caratteristica saliente della non contestazione, che è la sua tendenziale irreversibilità, nel senso che il fatto costitutivo della domanda non contestato tempestivamente non potrà più esserlo successivamente. In una successiva pronuncia la S.C., a Sezioni Unite, nel ribadire il contenuto della propria precedente decisione, si è ulteriormente soffermata su un rapporto — descritto in termini di «circolarità» — tra oneri di allegazione dei fatti posti a fondamento della domanda, oneri di contestazione e oneri di prova, ponendo l'accento sull'inutilità di una contestazione meramente generica e di stile (Cass., Sez. Un., 17 giugno 2004, n. 11353).

In definitiva il potere di contestazione, coordinandosi con quello di allegazione, soggiace agli stessi limiti preclusiva in proposito stabiliti, limiti che si identificano con l'udienza di cui all'art. 420 c.p.c. nel rito del lavoro e con l'udienza di cui all'art. 183 c.p.c., ovvero con la sua appendice scritta disciplinata dal sesto comma della disposizione, nel rito ordinario: e cioè, per quanto rileva in questa sede, la preclusione alla contestazione dei fatti non si verifica con il deposito della comparsa di risposta.

Tale indirizzo si è successivamente stabilizzato, essendo stato ribadito in numerosissime occasioni, come nelle pronunce che seguono.

In evidenza

La non contestazione del convenuto costituisce, anche nelle controversie in tema di riscatto o prelazione agraria, un comportamento univocamente rilevante ai fini della determinazione dell'oggetto del giudizio, con effetti vincolanti per il giudice, che deve astenersi da qualsivoglia controllo probatorio del fatto non contestato acquisito al materiale processuale, ritenendolo sussistente, in quanto l'atteggiamento difensivo delle parti espunge il fatto stesso dall'ambito degli accertamenti richiesti (Cass. 17 giugno 2016, n. 12517, la quale ha ritenuto raggiunta la prova dell'esistenza, in capo al retraente, del requisito della mancata vendita di fondi rustici nel biennio antecedente l'esercizio del riscatto, in quanto circostanza tardivamente e genericamente contestata dalla controparte solo in comparsa conclusionale e senza allegare nessuno specifico atto di disposizione).

Il convenuto, ai sensi dell'art. 167 c.p.c., è tenuto, anche anteriormente alla formale introduzione del principio di non contestazione a seguito della modifica dell'art. 115 c.p.c., a prendere posizione, in modo chiaro ed analitico, sui fatti posti dall'attore a fondamento della propria domanda, i quali debbono ritenersi ammessi, senza necessità di prova, ove la parte, nella comparsa di costituzione e risposta, si sia limitata a negare genericamente la «sussistenza dei presupposti di legge» per l'accoglimento della domanda attorea, senza elevare alcuna contestazione chiara e specifica (Cass. 6 ottobre 2015, n. 19896, la quale ha ritenuto che l'assicuratore designato dal fondo vittime della strada non avesse contestato la circostanza che il responsabile del sinistro fosse privo di copertura assicurativa, attesa l'inidoneità della generica eccezione di mancanza dei presupposti previsti dalla legge affinché l'impresa designata potesse essere convenuta in giudizio).

Quanto ai mezzi di prova, l'art.167c.p.c. sancisce che, come si è visto, anch'essi devono essere indicati nella comparsa di costituzione, unitamente ai documenti offerti in comunicazione. In questo caso l'inosservanza della prescrizione non comporta alcuna decadenza per il convenuto, che potrà avvalersi dell'udienza di trattazione ovvero dei termini previsti dall'art. 183 c.p.c. (Cass. 10 gennaio 2012, n. 81, concernente gli artt. 183 e 184 nel testo previgente).

La domanda riconvenzionale

Il convenuto deve formulare a pena di decadenza nella comparsa di risposta le eventuali domande riconvenzionali, ossia le controdomande spiegate dal convenuto nei confronti dell'attore, nei limiti in cui ciò è consentito dall'art.36c.p.c., giacché quest'ultimo, secondo l'opinione generalmente accolta, non pone soltanto una norma sulla competenza, ma fissa i limiti di ammissibilità della domanda riconvenzionale, consentendone la proposizione solo in presenza di determinate ragioni di connessione (Andrioli, op. cit., 125). La norma si riferisce, in tal caso, alla comparsa di risposta tempestivamente depositata nell'osservanza dell'art.166c.p.c., ossia 20 giorni prima (10 in caso di abbreviazione) dell'udienza fissata in citazione ovvero posticipata ai sensi dell'art. 168 bis,quinto comma, c.p.c., sicché ad esempio è inammissibile la domanda riconvenzionale proposta dal convenuto che si costituisca in udienza. Viceversa, il rinvio d'ufficio dell'udienza, a norma dell'art. 168 bis, quarto comma, c.p.c. (e cioè il rinvio alla prima udienza utile successiva rispetto a quella fissata in citazione), non determina la riapertura dei termini per il deposito della comparsa di risposta e per la proposizione della domanda riconvenzionale, poiché l'art. 166 c.p.c., coordinato con il successivo art. 167, contempla, quali ipotesi utili ad escludere la decadenza dalla proposizione di detta domanda, soltanto quella connessa al termine indicato nell'atto di citazione, ovvero, nel caso in cui abbia trovato applicazione l'art.168-bis, quinto comma, c.p.c., quella relativa alla data fissata dal giudice istruttore (Cass. 22 gennaio 2015, n.1127; Cass. 23giugno 2008, n. 17032, entrambe concernenti il giudizio di appello e la decadenza dall'appello incidentale).

La decadenza dalla proposizione della domanda riconvenzionale perché proposta successivamente al deposito della comparsa di risposta, ovvero perché contenuta in una comparsa di risposta tardivamente depositata, va rilevata d'ufficio dal giudice, indipendentemente dalla ipotetica accettazione del contraddittorio della controparte (Cass. 2 marzo 2007,n. 4901; Cass. 6 ottobre 2005, n. 19453; in senso opposto, ma con riguardo alla disciplina previgente, quando si riteneva che fosse decisiva l'accettazione del contraddittorio, v. p. es. Cass. 29 novembre 2006, n. 2542).

La domanda riconvenzionale va distinta dall'eccezione riconvenzionale. Mentre con la domanda riconvenzionale il convenuto, traendo occasione dalla domanda contro di lui proposta, oppone una controdomanda e chiede un provvedimento positivo, sfavorevole all'attore, che va oltre il mero rigetto della domanda attrice, mediante l'eccezione riconvenzionale egli, pur deducendo fatti modificativi, estintivi o impeditivi, che potrebbero costituire oggetto di un'autonoma domanda in un giudizio separato, si limita a chiedere la reiezione della pretesa avversaria, totalmente o anche solo parzialmente, al fine di beneficiare di una condanna più ridotta (Cass. 16 marzo 2012, n. 4233).

La distinzione assume rilievo dal momento che la decadenza dalla proposizione della domanda riconvenzionale (di usucapione nel caso esaminato alla pronuncia qui citata), per inosservanza del termine stabilito dall'art. 166 c.p.c., non impedisce alla stessa di produrre gli effetti di una semplice eccezione riconvenzionale (di usucapione), mirante al rigetto della pretesa attrice, sempre che la costituzione sia comunque avvenuta nel termine utile per proporre le eccezioni in senso stretto (Cass. 19 maggio 2015, n. 10206), allegando i fatti posti a sostegno di esse.

Occorre ancora aggiungere che la giurisprudenza suole ricondurre alla nozione di domanda riconvenzionale anche le domande proposte dal convenuto nei confronti di un altro convenuto (c.d. riconvenzionali improprie o domande trasversali). In linea generale, non si dubita (v. Mandrioli, op. cit., 44) dell'astratta ammissibilità della domanda che un convenuto proponga nei confronti di un altro convenuto già in causa, la quale è ritualmente proposta anche solo con lo scambio della comparsa contenente la domanda medesima, fatto salvo, naturalmente, l'obbligo di notifica, nel caso in cui il convenuto destinatario dell'ulteriore domanda sia contumace (su questo punto v. Trib. 1° luglio 2010, in Giur. it., 2011, 1866), e fermo restando — sempre e comunque — l'onere di tempestiva costituzione ex art. 167 c.p.c. (nella giurisprudenza di merito si possono ricordare, in tal senso, Trib. Napoli 20 settembre 2001, Giur. it., 2002, 992; Trib. Monza 13 marzo 2007, in Giur. merito, 2007, 2632).

In evidenza

Anche la SC, d'altronde, ha affermato che la domanda formulata da un convenuto nei confronti di un altro va qualificata come domanda riconvenzionale, e può essere proposta negli stessi limiti di quest'ultima (Cass. 12 novembre 1999, n. 12558; Cass. 16 marzo 2017, n. 6846).

La domanda proposta una volta spirato il termine di cui all'articolo 167 c.p.c., infatti, si presenta puramente e semplicemente come domanda nuova introdotta in pendenza del giudizio e, dunque, essa è come tale inammissibile. Dopo aver rammentato che, ai sensi dell'art.167c.p.c., coordinato con il comma 2 dell'art. 171 c.p.c., il convenuto che non si costituisce nel termine assegnatogli dall'art. 166 c.p.c., e cioè almeno venti giorni prima dell'udienza di comparizione, ma tardivamente, decade dalla facoltà di proporre domande riconvenzionali (Cass. 16 dicembre 2009, n. 26376), non v'è dunque modo di ritenere che il chiaro dato normativo non debba trovare parimenti applicazione nei confronti della c.d. «riconvenzionale impropria» o «domanda trasversale», essendo esso sostenuto dalla medesima ratio.

Lo sbarramento preclusivo deve ritenersi altresì applicabile alle eventuali domande di accertamento incidentale, per le quali ancora una volta sussiste la medesima ratio (Mandrioli, op. cit., 44; Attardi, Le nuove disposizioni sul processo civile, Padova, 1991, 68).

È appena il caso di osservare che, a differenza di quanto accade nel rito del lavoro, la comparsa di risposta contenente domanda riconvenzionale non richiede l'istanza di spostamento dell'udienza di cui all'art. 418 c.p.c., riguardante il rito del lavoro, né la notificazione della comparsa stessa all'attore. Ovviamente la notificazione va effettuata nel caso di contumacia dell'attore (così come, secondo quanto già visto, nel caso di contumacia dell'altro convenuto, in ipotesi di c.d. riconvenzionale impropria), ma non in applicazione del congegno previsto per il rito del lavoro, bensì in ossequio alla regola generale stabilita dall'art. 292 c.p.c. (Cass. 30marzo1 987,n.3040).

Alla domanda riconvenzionale si applica ai sensi dell'art. 167, comma 2, c.p.c. il regime previsto dal comma 5 dell'art. 164 c.p.c. per nullità della citazione relative alla editio actionis.

Vale ancora rammentare, sul tema della riconvenzionale proposta con la comparsa di risposta, che il mandato ad litem attribuisce al procuratore, a norma dell'art. 84 c.p.c., la facoltà di proporre tutte le domande che siano comunque ricollegabili con l'originario oggetto, restando escluse dai poteri del procuratore soltanto le domande con le quali si introduce una nuova e distinta controversia eccedente l'ambito della lite originaria (p. es. Cass. 26 luglio 2005, n. 15619, la quale ha ritenuto che rientrasse nel mandato per il procedimento di convalida di sfratto per morosità anche il potere di chiedere l'ingiunzione di pagamento per i canoni scaduti). In quest'ottica, spetta al difensore di proporre anche le domande riconvenzionali, atteso che esse, anche quando introducono un nuovo tema di indagine e mirano all'attribuzione di un autonomo bene della vita, restano sempre fondamentalmente connotate dalla funzione difensiva di reazione alla pretesa della controparte (Cass. 7 aprile 2006, n. 8207; in precedenza Cass. 7 aprile 2000, n. 4356; Cass. 7 febbraio 1995, n. 1394), indipendentemente dall'atto su cui è apposta la procura, e cioè anche se in calce o a margine della copia notificata della citazione (Cass. 11 maggio 1998, n. 4744).

Le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d'ufficio

In sintesi l'eccezione di merito consiste nell'allegazione dei fatti impeditivi, modificativi o estintivi (art. 2697, comma 2, c.c.) del diritto dedotto in giudizio dall'attore; l'eccezione processuale, o di rito, invece, ha il fine di contestare la validità di un atto processuale, facendo in tal modo scattare il dovere per il giudice di pronunciarsi sull'eccezione stessa.

Tali eccezioni possono o no essere rilevate d'ufficio. In proposito occorre rammentare la fondamentale regola stabilita dall'art. 112 c.p.c. secondo cui il giudice non può pronunciare d'ufficio su eccezioni, che possono essere proposte soltanto dalle parti.

Le eccezioni che possono essere proposte soltanto dalle parti (c.d. eccezioni in senso stretto), si tratti di eccezioni processuali o di merito, attualmente, vanno fatte valere a pena di decadenza dal convenuto nella comparsa di risposta (v. artt.167c.p.c. per il rito ordinario e 416 c.p.c. per il rito del lavoro).

Quanto alla distinzione tra eccezioni rilevabili e non rilevabili d'ufficio, la giurisprudenza della S.C. si è da tempo assestata nel senso, riassunto in breve, che le eccezioni sono tutte rilevabili d'ufficio, ossia sono tutte eccezioni c.d. in senso lato, ricorrendo invece la necessità dell'iniziativa di parte solo nel caso di esistenza di una eventuale specifica previsione normativa in tal senso, ovvero nel caso in cui la manifestazione della volontà della parte sia strutturalmente prevista quale elemento integrativo della fattispecie difensiva (tra le tantissime Cass., Sez.Un., 25 maggio 2001, n. 226; Cass. 5 agosto 2013, n. 18602; Cass. 5 giugno 2014, n. 12677; Cass.27luglio2015,n.15712).

In molti casi è la stessa legge che riserva l'eccezione alla disponibilità della parte: basti pensare, quanto alle eccezioni di merito, all'eccezione di compensazione (art. 1242 c.c.), o eccezione di prescrizione (art. 2938 c.c.). In altri casi, come si diceva, l'esigenza dell'iniziativa di parte discende dalla stessa struttura dell'eccezione, pur in mancanza di una previsione espressa (v. art. 1442 c.c. per l'eccezione di annullamento del contratto; art. 1449 c.c. per l'eccezione di rescissione; art. 1460 c.c. per l'eccezione di inadempimento; art. 1494 c.c. per l'eccezione di vizi della cosa venduta; artt. 1944 e 1947 c.c. per l'eccezione di beneficio di escussione a favore del fideiussore; art. 1359 c.c. per l'eccezione di avveramento della condizione).

Con riguardo alle eccezioni processuali occorre parimenti fare anzitutto riferimento alla previsione del codice di rito, che in più occasioni disciplina il regime di rilevazione dell'eccezione. Ad es., richiedono l'iniziativa di parte l'eccezione di incompetenza territoriale semplice (art. 38, comma 2, c.p.c.) e l'eccezione di inosservanza del termine a comparire o di mancanza dell'avvertimento di cui al comma 7 dell'art. 164; il disconoscimento della scrittura privata (art. 215, comma 1, n.2, c.p.c.). Al contrario, ad es. l'eccezione di difetto di giurisdizione e di incompetenza inderogabile sono rilevabili d'ufficio, sia pure entro determinati limiti temporali. Vi sono eccezioni il cui regime di rilevazione si è inoltre modificato nel corso del tempo, come quella di estinzione, un tempo sottoposta all'eccezione di parte, oggi rilevabile d'ufficio.

Per una tabella delle eccezioni processuali e di merito non rilevabili d'ufficio v. il Quesito Eccezioni di rito e di merito: quali non sono rilevabili d'ufficio? di M. Di Marzio.

La chiamata in causa

L'ultimo comma dell'art. 167 c.p.c. stabilisce che il convenuto, se intende chiamare un terzo in causa, deve farne dichiarazione nella stessa comparsa di risposta e provvedere ai sensi dell'art.269c.p.c.

Al riguardo è sufficiente limitarsi a richiamare la bussola Chiamata in causa di C. Trapuzzano.

Riferimenti
  • Andrioli, Commento al codice di procedura civile, II, Napoli, 1956;
  • Attardi, Le nuove disposizioni sul processo civile, Padova, 1991;
  • Balena, La riforma del processo di cognizione, Napoli, 1994, 137; Ciaccia Cavallari, Costituzione in giudizio, in Dig. civ., IV, Torino, 1989;
  • Cerino Canova, Dell'introduzione della causa, in Comm. c.p.c. diretto da Allorio, II, 1, Torino, 1980;
  • Cerino Canova-Balena, Citazione, in Enc. giur., VII, Roma, 1991; Consolo, voce Domanda giudiziale, in Dig. civ., VII, Torino, 1991, 44 ss.;
  • Mandrioli, Diritto processuale civile, Torino, 2002;
  • Montesano-Arieta, Diritto processuale civile, I, Torino, 1999;
  • Olivieri, Gli atti diparte nella fase introduttiva, in Riv. dir. proc., 2004, 107;
  • Oriani, Domanda giudiziale, in Enc. giur., XII, Roma, 1989; Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2012;
  • Saletti, Costituzione in giudizio, in Enc. giur., X, Roma, 1993, 2 ss.;
  • Satta, Domanda giudiziale (diritto processuale civile), in Enc. dir., XIII, Milano, 1964.

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