Principio della domanda
03 Febbraio 2017
Inquadramento
Il principio della domanda, corollario del principio dispositivo, permea si sé il sistema processual-civilistico italiano, caratterizzando la domanda giudiziale quale atto di esercizio del diritto di azione, cioè del diritto di adire l'autorità giurisdizionale per la tutela di un diritto prospettato come esistente e violato, così determinando l'oggetto del processo, caratterizzando la dinamica processuale, in ossequio al principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato ex art. 112 c.p.c., e segnando i limiti oggettivi e soggettivi del giudicato. Il detto principio caratterizza difatti il processo di cognizione, tanto il rito ordinario, si veda il contenuto dell'atto di citazione quale atto d'impulso processuale ex art. 163 c.p.c., quanto i riti speciali cautelari e non (ad esempio, si veda l'art. 414 c.p.c. circa le forme ed il contenuto dell'atto di impulso nel rito del lavoro). Con le dovute peculiarità, il principio in esame caratterizza anche la dinamica del processo di esecuzione forzata e finanche il procedimento arbitrale rituale, a fortiori in ragione del recente “revirement” attuato dalle S.U., ordinanza n. 24153 del 25 ottobre 2013, circa la funzione degli arbitri rituali – sostitutiva rispetto a quella dei giudici ordinari – e, quindi, del relativo procedimento arbitrale, avente natura giurisdizionale e non negoziale, dalla quale discendono rilevanti conseguenze di natura processuale in materia di arbitrato, così come elaborate dalla giurisprudenza di legittimità, anche in tema di applicazione dei principi di cui agli artt. 101 e 112 c.p.c.. L'importanza del principio della “domanda di arbitrato” è stata poi colta dal legislatore della riforma dell'arbitrato, attuata con d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, il quale, con apposita norma transitoria (art, 27, comma 4, del citato decreto), ha previsto l'applicazione della nuova disciplina inerente gli arbitri, il procedimento arbitrale ed il lodo, anche sotto il profilo impugnatorio, solo con riferimento ai procedimenti arbitrali azionati successivamente all'entrata in vigore delle detta riforma.
In termini positivi, il principio della domanda, a tutela anche dell'imparzialità del giudizio, è sancito, in attuazione del dettato costituzionale di cui all'art. 24 Cost., per il quale “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi”, dall'art. 9 c.p.c., in forza del quale “chi vuol far valere in giudizio un diritto deve proporre domanda al giudice competente”. Tale norma si pone in stretta correlazione, sotto il profilo sostanziale, con l'art. 2907, comma 1, c.p., il quale, disponendo che “alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l'autorità su domanda di parte e, quando la legge lo dispone, anche del pubblico ministero o d'ufficio”, sancisce la tendenziale subordinazione dell'esercizio della funzione giurisdizionale alla proposizione di un atto di parte. Il citato art. 2907, comma 1, c.p.c. individua altresì eccezioni al principio della domanda, in termini di mere limitazioni del potere sostanziale del titolare del diritto, nei casi (art. 69 c.p.c.) in cui l'impulso processuale, in ragione dell'importanza pubblicistica di un determinato rapporto privatistico, è rimesso al pubblico ministero (soggetto terzo rispetto al giudicante), ovvero nei casi di sostituzione processuale di cui all'art. 81 c.p.p., e di vere deroghe, nei casi nei quali l'autorità giurisdizionale provvede d'ufficio, cioè in assenza di qualsivoglia impulso di parte, sia essa pubblica o privata ovvero in sostituzione processuale. Il principio in esame, come evidenziato da attenta dottrina, in termini rigorosi, è difatti espressione del potere dispositivo della parte privata sul diritto che si assume leso nonché della subordinazione della tutela giurisdizionale all'istanza del titolare (affermato) del diritto, anche in termini di tutela interinale volta ad assicurare e, quindi, talora anche anticipare, gli effetti della decisione sul merito. Deroghe
Come detto, di vere e proprie deroghe al principio della domanda si può parlare con riferimento ad ipotesi nelle quale l'autorità giurisdizionale esercita il suo potere d'ufficio cioè prescindendo da una domanda di parte, sia essa pubblica (art. 69 c.p.c.) o privata ovvero operante in sostituzione processuale ex art. 81 c.p.c.. Ipotesi di attivazione officiosa si rinvenivano con riferimento alla materia del fallimento, essendo previste dalla legge fallimentare (r.d. 16 marzo 1942, n. 267) norme che, a determinate condizioni ed in particolari circostanze, attribuivano al giudice il potere di dichiarare il fallimento d'ufficio. Le diverse modifiche apportate alla l. fall., anche antecedenti a quelle più recenti del 2015 e del 2016, in realtà già quelle del 2006 e del 2007 (d.lgs. n. 5 del 2006 e d.lgs. n. 169 del 2007) hanno però finito con l'eliminare ipotesi, ancorché residuali, di dichiarazioni di fallimento d'ufficio. In particolare, nell'attualità, anche i riformati artt. 162 e 173 l.fall., che avevano “resistito” alle modifiche del 2006, in forza della riforma del 2007 attribuiscono, a date circostanze, al giudice il potere di dichiarare il fallimento ma previa istanza di parte, in ipotesi anche del pubblico ministero. Ipotesi attuali di deroghe al principio della domanda, con conseguente iniziativa officiosa del giudice, si rinvengono nell'ambito di taluni procedimenti di volontaria giurisdizione, con particolare riferimento a quelli aventi ad oggetto gli interessi degli incapaci e l'adozione. L'art. 336 c.c., con riferimento ai procedimenti inerenti la responsabilità genitoriale (decadenza e reintegrazione), le condotte pregiudizievoli per il figli nonché l'amministrazione del loro patrimonio, dispone che i relativi provvedimenti debbano essere adottati su ricorso ma, al comma 3, prevede, per il caso di urgente necessità, l'adozione da parte del tribunale, anche d'ufficio, di provvedimenti temporanei nell'interesse del figlio. Tale norma è stata anche posta al vaglio di legittimità. In particolare è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 336, comma 3, c.c. in riferimento agli artt. 3, comma 1, 24, comma 2, 111, commi 1 e 2, Cost., nella parte in cui non prevede che il provvedimento temporaneo assunto nell'interesse del figlio, nell'ambito del procedimento urgente in materia di potestà genitoriale, abbia, a pena di nullità, una durata massima, individuabile in trenta giorni, e che debba essere, nello stesso termine, confermato, modificato o revocato in contraddittorio. La Consulta, nel dichiarate l'inammissibilità della questione ha fornito importanti indicazioni circa la possibilità di coniugare il detto potere officioso del giudice con il principio del contraddittorio ed in particolare circa la possibilità, da parte del giudice di merito, di dare della norma impugnata una interpretazione idonea a porla al riparo dai dubbi di legittimità costituzionale, valutando se il procedimento in esame, attesa la sua natura cautelare, non possa ritenersi assoggettato alla disciplina generale del procedimento cautelare prevista dall'art. 669-sexiesc.p.c. (Cfr., Corte cost., sentenza n. 1 del 2002). L'art. 361 c.p., in materia di tutela del minorenne, attribuisce al giudice il potere di adottare, prima che il tutore o il protutore abbiano assunto le loro funzioni, anche d'ufficio, provvedimenti urgenti nell'interesse del minore circa la sua cura ovvero in merito alla conservazione ed amministrazione del suo patrimonio, così come l'art. 418 c.c. dispone che, promosso il giudizio di interdizione, il giudice possa dichiarare anche d'ufficio l'inabilitazione per infermità di mente. L'art. 8 della l. n. 184/1983, in materia di adozione, attribuisce poi al tribunale per i minorenni il potere di dichiarare, anche d'ufficio, in stato di adottabilità i minori in situazioni di abbandono, cioè privi di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi e sempre che la detta mancanza di assistenza non sia dovuta a forza maggiore di carattere transitorio. Il potere officioso del giudice da ultimo evidenziato necessita però di rigorosa applicazione al fine di meglio coniugarlo con il prioritario diritto fondamentale del figlio di vivere, nei limiti del possibile, con i suoi genitori e di essere allevato nell'ambito della propria famiglia, di cui all'art. 1 della citata l. n. 184. La S.C. ha difatti chiarito che, proprio ai fini di cui innanzi, si impone in capo al giudice un particolare rigore nella valutazione dello stato di adottabilità, potendo il citato diritto essere limitato solo ove si configuri un endemico e radicale stato di abbandono a causa dell'irreversibile incapacità dei genitori di allevarlo e curarlo per loro totale inadeguatezza, la cui dichiarazione, anche d'ufficio, va reputata, alla stregua della giurisprudenza costituzionale, della Corte europea dei diritti dell'uomo e della Corte di giustizia, come extrema ratio (Cfr., Cass., sez. I, sent., n. 13435 del 30 giugno 2016). Limitazioni
Integrano, per converso, limitazioni al principio della domanda le ipotesi nelle quali l'autorità giurisdizionale esercita il proprio potere non d'ufficio bensì su istanza della parte pubblica, il pubico ministero (art. 69 c.p.c.), in ragione dell'importanza pubblicistica di un determinato rapporto privatistico, ovvero quelle integranti sostituzione processuale ex art. 81 c.p.c.. Il forza della norma da ultimo citata, in particolare, la legge, in deroga alla regola generale della legittimazione ad agire, prevede ipotesi espresse di c.d. sostituzione processuale, attribuendo a terzi non titolari del diritto il potere di farlo valere nel processo, in nome proprio, generalmente in ragione dell'emersione di caratteri di indisponibilità di singoli rapporti giuridici privati o di coinvolgimento in essi di interessi pubblici. Oltre alle fattispecie di estromissione del garantito e di successione a titolo particolare nel diritto controverso, di cui rispettivamente agli artt. 108 e 111 c.p.c., è ritenuta ipotesi di sostituzione processuale, ancorché non senza contrasto in sede di legittimità, anche l'azione per la dichiarazione di genitura naturale, ex art. 273 c.c., proposta nell'interesse del minore dal genitore esercente la responsabilità genitoriale, dalla quale la S.C. fa discendere rilevanti conseguenze. In particolare Cass. sez. I, sent., 29 settembre 1999 n. 10786, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'articolo citato, con riferimento agli articoli 2 e 24 Cost., nella parte in cui, in ipotesi di figlio minorenne, attribuisce al genitore la legittimazione ad agire per la dichiarazione giudiziale di maternità o paternità naturale senza prevedere la necessità della nomina di un curatore speciale per il minore e, in caso di inattività del sostituto processuale, la sospensione dei termini fino al raggiungimento della maggiore età del sostituito. L'interesse del minore risulta difatti adeguatamente protetto, nel caso di promovimento dell'azione da parte del genitore, attraverso la verifica della sua rispondenza a quell'interesse demandata al giudice, nel caso contrario con la possibilità per il figlio, una volta divenuto maggiorenne, di promuovere l'azione, per lui imprescrittibile ai sensi dell'art. 270 c.c.. Nella prima ipotesi, inoltre, ha precisato la S.C., la scelta di non affiancare obbligatoriamente il rappresentante del minore con un curatore speciale, che ne controlli le iniziative processuali, è ragionevole e coerente con la qualità soggettiva del rappresentante e la sua natura di sostituto processuale. La previsione di una sospensione dei termini o di una rimessione in termini a favore del minore, divenuto maggiorenne, per esercitare le attività (in particolare le impugnazioni) da cui il genitore è decaduto, contrasterebbe invece con le esigenze di certezza del diritto e costituirebbe violazione del diritto di difesa della controporte, soggetta ad unilaterale possibilità di riesame di una sentenza passata in giudicato. In senso contrario, invece, Cass. sez. I, sent., 29 maggio 1999, n. 5259, ha fatto riferimento ad un'ipotesi non di sostituzione processuale bensì di rappresentanza processuale ed in particolare ad un'estensione – rispetto ad un diritto personale del figlio – del potere di rappresentanza ex lege spettante al genitore che mira a tutelare esclusivamente detto minore, sulla base della presunzione di un suo interesse all'accertamento dello status. Sicché, non occorre che il genitore esercente la potestà (responsabilità) genitoriale sul figlio minore dichiari espressamente di agire in nome e per conto del figlio o comunque nell'interesse dello stesso ma si rende sufficiente che, dal contesto complessivo del ricorso, emerga che il ricorrente agisca nell'interesse del minore. Parimenti, a titolo esemplificativo, in dottrina sono considerate ipotesi di sostituzione processuale ex art. 81 c.p.c., quindi limitazione del principio della domanda, l'opposizione al matrimonio (artt. 102 e 103 c.c.), l'impugnazione del matrimonio (art. 117 c.c.), l'azione di contestazione dello stato di figlio legittimo (art. 248 c.c.), le azioni a tutela della servitù proponibili anche dall'usufruttuario (art. 1012c.c.), l'azione del mandante ex art.1705, comma 2, c.c., l'azione di rivendica da parte del creditore pignorato (art. 2789 c.c.) nonché l'azione surrogatoria ex art. 2900 c.c.. L'art. 69 c.p.c., invece, dispone che il pubblico ministero esercita l'azione civile nei casi stabiliti dalla legge. Tali casi sono ritenuti tali da limitare il principio della domanda, nel senso di limitare il potere sostanziale del titolare del diritto pur non implicando intervento d'ufficio dell'autorità giurisdizionale, in virtù della tutela di interessi ritenuti dal legislatore aventi una certa rilevanza pubblica, tanto che la loro tutela non può essere lasciata all'iniziativa o all'arbitrio dei privati. Trattasi difatti di casi in cui l'esercizio dell'azine concerne diritti o status sottratti alla disponibilità delle parti e, pertanto, il pubblico ministero non può compiere atti dispositivi dell'azione a lui attribuita e non può rinunciare ad essa, sicché egli non potrà compiere atti presupponesti la libera disponibilità del diritto (giuramenti, confessioni, transazioni, stipulazione di compromessi, proporre o accettare richiesta di decisione secondo equità ex art. 114 c.p.c.), salva la possibilità, per parte della dottrina, di rinunciare agli atti del giudizio nei casi in cui, per difetti di procedura, il giudice non potrebbe adottare una decisione nel merito. La detta limitazione del principio della domanda, proprio perché incidente sul generale principio dispositivo, opera nei casi tassativamente ed esplicitamente previsti dal legislatore, rendendo eccezionale la titolarità dell'azine civile del pubblico ministero in sede civile. La detta regola di tipicità, argomentabile dal combinato disposto degli artt. 99, 69 c.p.c. e art. 2907 c.c., porta ad escludere interpretazioni estensive o analogiche, avendo tali enunciati carattere imperativo. Ne consegue che, come precisato da ultimo da Cass. sez. I, sent., 16 dicembre 2012, n. 17764, fuori dalle ipotesi tassativamente previste, il pubblico ministero non ha potere di azione e tanto meno d'impugnazione. Così argomentando, la S.C. ha nella specie dichiarato inammissibile il ricorso del pubblico ministero avverso il decreto di liquidazione del compenso ad un consulente tecnico, emesso dal tribunale nell'ambito della fase esecutiva, posteriore all'omologazione, di una procedura di concordato preventivo. Secondo una parte della dottrina un'attenuazione del principio della domanda opera, in generale, nei casi di processi a contenuto oggettivo (tra i quali il processo di interdizione e quello di fallimento), cioè non vertenti su diritti soggettivi o status e che non sono volti all'accertamento dell'esistenza o inesistenza di un diritto o di altro effetto giuridico ma aventi ad oggetto l'accertamento del dovere decisorio del giudice, tenuto a provvedere in funzione di interessi generali e non di diritti soggettivi. In via meramente esemplificativa, oltre alla materia fallimentare ed al potere di impulso rispetto alla dichiarazione di fallimento, limitando la disamina a quelle previste dal c.c., possono annoverarsi quali ipotesi rientranti nella previsione di cui all'art. 69 c.p.c.: l'annullamento e la sospensione delle deliberazioni di associazioni e fondazioni (art. 23 c.c.); la nomina del curatore dello scomparso (art. 48 c.c.); l'apertura degli atti di ultima volontà dell'assente (art. 50 c.c.); la dichiarazione di morte presunta dell'assente (art. 58 e 62 c.c.); la dichiarazione di esistenza o di accertamento della morte (art. 67 c.c.); l'interdizione per infermità di mente (art. 85 c.c.); l'opposizione al matrimonio (art. 102, comma 4, c.c.); l'impugnazione del matrimonio nei casi di cui all'art. 117, comma 1, e 119 c.c.; l'azione di nullità del matrimonio ex art. 125 c.c. e la nomina di un curatore speciale del minorenne (art. 321 c.c.). Vi rientrano, altresì: i procedimenti inerenti la responsabilità genitoriale (decadenza e reintegrazione), le condotte pregiudizievoli per il figli nonché l'amministrazione del loro patrimonio (art. 336 c.c.); l'istanza di interdizione o di inabilitazione (artt. 417 e 418 c.c.) e l'istanza per la revoca delle stesse (art. 429 c.c.); l'azione di annullamento del contratto di lavoro, stipulato senza l'osservanza delle disposizioni concernenti la disciplina della domanda e dell'offerta di lavoro (art. 2098 c.c.), nonché la revoca dei liquidatori di società di capitali (art. 2487 c.c.). Rilevanza nella dinamica del processo e conseguenze della sua violazione
Oltre a quanto già innanzi evidenziato in sede di inquadramento generale, circa la rilevanza del principio della domanda nella dinamica processuale è il caso di rilevare che in dottrina si è chiarita la duplicità di funzione della domanda giudiziale, la quale opera quale strumento iniziatore del processo, determinandone anche l'oggetto così concorrendo alla determinazione del thema decidendum e, quindi, del conseguente potere-dovere decisorio esercitabile dal giudice. In tale prospettiva il principio della domanda deve essere applicato in correlazione non solo al principio del contraddittorio, di cui all'art. 101 c.p.c., ma soprattutto in uno con il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, destinatario, anche di recente, di diverse decisioni della S.U., anche nel 2014 e nel 2016, tali da caratterizzarne la sua applicazione in materia di rilevazione d'ufficio delle nullità contrattuali oltre che in ordine alla rilevazione d'ufficio del difetto di titolarità sostanziale del diritto controverso (si vedano, Cass., Sez. Un., sent., n. 26242 del 12 dicembre 2014, Cass., Sez. Un., sent., n. 26243 del 12 dicembre 2014 e Cass. Sez. Un., sent., n. 2951 del 16 febbraio 2016). La successiva giurisprudenza di legittimità ha poi avuto l'arduo compito dell'applicazione concreta dei detti principi, anche in tema di collegamento negoziale, di rapporti tra domanda di simulazione e nullità negoziale e della loro estensione al sottosistema societario. Talvolta si è registrata perfino una non condivisione dei principi statuiti dalle S.U., come accaduto con riferimento alla ritenuta rilevabilità ex officio del difetto della titolarità sostanziale del diritto controverso. Rilevanti sono state altresì le ricadute processuali dei detti principi con riferimento ai giudizi di appello e di cassazione oltre che in merito ai riti speciali. In particolare, per quanto rileva ai presenti fini, circa le conseguenze della mancata correlazione tra i detti principi, è violato il principio della domanda, implicante nullità della statuizione, nel caso in cui il giudice non rapporti il contenuto del provvedimento alle richieste delle parti, ovviamente nei limiti in cui le stesse siano in grado di condizionarlo. Quanto detto si verifica sia nei casi di ultrapetizione, ove il giudice statuisce su un oggetto con riferimento al quale non vi sia stata richiesta o sostituisca a quello richiesto altro effetto giuridico (extrapetizione), sia in quelli di omissione di pronuncia, derivanti da omessa statuizionein ordine ad una richiesta. Interpretazione e qualificazione della domanda
Sempre con riferimento alla correlazione tra il principio in esame e quello di cui all'art. 112 c.p.c. preme sottolineare il potere-dovere del giudice di interpretare e qualificare la domanda ed i relativi limiti. L'interpretazione della domanda giudiziale costituisce operazione riservata al giudice del merito, il cui giudizio, risolvendosi in un accertamento di fatto, non è censurabile in sede di legittimità quando sia motivato in maniera congrua ed adeguata avuto riguardo all'intero contesto dell'atto e senza che ne risulti alterato il senso letterale. Necessità però tenere conto della formulazione testuale dell'atto nonché del contenuto sostanziale della pretesa in relazione alle finalità che la parte intende perseguire, elemento rispetto al quale non assume valore condizionante la formula adottata dalla parte medesima. Nel senso di cui innanzi si è espressa costantemente la S.C., si veda, ex plurimis, Cass. sez. IV, sent., n. 22893 del 9 settembre 2008, in CED n. 605117, che, in applicazione del principio, ha confermato la sentenza con la quale il giudice d'appello aveva interpretato la domanda contenuta nell'atto introduttivo del giudizio di primo grado, ove veniva utilizzato il termine mobbing, come diretta a reprimere comportamenti discriminatori per motivi sindacali, mentre soltanto con il ricorso in appello era stata domandata, con allegazione di numerose circostanze nuove, una tutela contro una condotta di “mobbing” onde il rigetto del gravame per novità della domanda. Ai fini di una corretta interpretazione della domanda, il giudice di primo grado è altresì tenuto ad interpretare le conclusioni contenute nell'atto di citazione, alle quali si è riportato l'attore in sede di precisazione delle conclusioni, tenendo conto della volontà della parte quale emergente non solo dalla formulazione letterale delle conclusioni assunte nella citazione ma anche dall'intero complesso dell'atto che le contiene. Occorre dunque considerare la sostanza della pretesa, così come è stata costantemente percepita dalle parti nel corso del giudizio di primo grado, tenendo conto non solo delle deduzioni e delle conclusioni inizialmente tratte nell'atto introduttivo ma anche della condotta processuale delle parti nonché delle precisazioni e specificazioni intervenute in corso di causa (Cfr., ex plurimis, Cass. sez. III, sent., n. 75 dell'8 gennaio 2010, in CED n. 611055). Ne consegue che il potere-dovere del giudicante di qualificare giuridicamente l'azione, nei termini di cui innanzi, dando al rapporto dedotto in giudizio il nomen iuris anche in difformità rispetto alla prospettazione formulata dalle parti, incontra il limite del petitum e della causa petendi azionati, non potendo attribuire un bene della vita diverso da quello domandato e non potendo introdurre nel tema controverso nuovi elementi di fatto. Sicché, come ha avuto modo di chiarire la S.C. con particolare riferimento al contratto di vendita, incorre nel vizio d'extrapetizione la decisione che, in presenza di una domanda di risoluzione per vizi della cosa venduta, accolga la domanda, ritenendo la cosa – sulla base dell'esame di corrispondenza intercorsa fra le parti – priva delle qualità pattuite per l'uso al quale la stessa era destinata. A differenza della garanzia per vizi, che ha la finalità di assicurare l'equilibrio contrattuale in attuazione del sinallagma funzionale indipendentemente dalla colpa del venditore, l'azione di cui all'art. 1497 c.c., rientrando in quella disciplinata in via generale dall'art. 1453 c.c., postula difatti che l'inadempimento posto a base della domanda di risoluzione e/o di risarcimento del danno sia imputabile a colpa dell'alienante ed abbia non scarsa importanza, tenuto conto dell'interesse della parte non inadempiente. A ciò deve aggiungersi la considerazione per la quale, poiché nell'ipotesi di mancanza delle qualità pattuite o promesse assume rilievo decisivo il ruolo della volontà negoziale, l'indagine che il giudice deve compiere ha necessariamente ad oggetto un elemento fattuale diverso ed estraneo rispetto alla fattispecie relativa alla presenza di un vizio o difetto che rendono la cosa venduta inidonea all'uso al quale la stessa è "normalmente" destinata (si veda, in termini, ex plurimis, Cass. sez. II, sent., 24 maggio 2005, n. 10922). Orientamenti a confronto
Riferimenti
In dottrina sul tema:
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