Le spese di lite in cause con pluralità di parti ed in cause riunite

Mauro Di Marzio
24 Ottobre 2016

Il più delle volte le sentenze civili si concludono con la laconica frase: «Le spese seguono la soccombenza». Nulla più. In realtà i problemi che la liquidazione delle spese di lite pone sono, come ogni lettore sa, innumerevoli. Uno tra questi, certo non il meno importante, riguarda l'eventualità che il processo si svolga nei riguardi di un pluralità di parti, eventualità sulla quale non si pronuncia il fondamentale art. 91 c.p.c. e che non è regolata se non in parte dall'art. 97 c.p.c.. Sorgono pertanto in materia di numerose questioni le quali trovano di volta in volta risposta attraverso l'applicazione del principio della soccombenza e/o di quello di causalità. Nell'articolo si esaminano i diversi aspetti del problema, tenendo conto della giurisprudenza di legittimità sulla questione.
Unicità del rapporto processuale e pluralità di rapporti processuali

In caso di processo con più attori o convenuti occorre distinguere se si sia o meno in presenza di una ipotesi di pluralità di rapporti processuali: se, in altri termini, si tratti di una sola causa — ipotesi tipica quella del litisconsorzio necessario che coinvolga più soggetti — o di una pluralità di cause.

Qualora si sia in presenza di un unico rapporto processuale, le regole applicabili in punto di liquidazione di spese di lite non divergono da quelle consuete, dall'angolo visuale della parte vincitrice, se non, eventualmente, nell'ipotesi che più vincitori siano rappresentati in giudizio da distinti difensori, mentre, dall'opposto angolo visuale, quello del soccombente, trovano applicazione le previsioni contenute nell'art. 97 c.p.c., a seconda che i soccombenti siano o meno avvinti da un comune interesse.

Se, viceversa, si è in presenza di una pluralità di rapporti processuali, essi vanno distintamente considerati, almeno in linea di massima, attraverso l'individuazione, di volta in volta, della relazione di soccombenza riscontrabile. In altri termini, nel giudizio con pluralità di parti, quando si tratti di più cause autonome, ancorché connesse ovvero riunite in un solo processo, occorre, ai fini delle spese, considerare distintamente la reciprocità delle singole posizioni processuali e sostanziali con la conseguenza che a carico della parte che è soccombente nei confronti di una sola delle altre, non possono essere poste anche le spese relative alle parti che, ancorché assistite dallo stesso difensore e da questo congiuntamente difese, stiano in giudizio per una distinta ed autonoma causa.

Tale impostazione, che costituisce diretta esplicazione del principio di soccombenza, subisce tuttavia rilevanti deviazioni, le quali trovano invece fondamento nel principio di causalità, qualora l'innesto sul rapporto processuale principale di un rapporto processuale ulteriore sia in definitiva addebitabile all'originario attore che sia risultato soccombente. In tal senso si trova affermato che il principio della soccombenza, cui l'art. 91 c.p.c. collega il rimborso delle spese in favore della controparte, trova fondamento nella sopportazione dell'onere relativo da parte del soggetto che, con le proprie domande o attraverso la resistenza a quelle altrui, abbia causato la lite. Nel giudizio con pluralità di parti, dunque, il giudice di merito deve indagare, a tal fine, sulla posizione assunta da ciascuna di esse, in relazione alla quale non può ritenersi soccombente colui che, fra più convenuti, non abbia formulato alcuna opposizione alla domanda (Cass. civ., 12 novembre 1993, n. 11195).

Intervento di terzi e chiamata in causa

Quanto all'intervento di terzi, l'interveniente volontario che avanza domande ottiene il rimborso delle spese se vince e subisce la condanna alle spese, se perde, nei confronti della parte contro cui la domanda è stata proposta, indipendentemente dalla circostanza che quest'ultima parte sia eventualmente rimasta soccombente nei confronti di un terzo.

In giurisprudenza, sull'argomento, si trova affermato, in generale, che chiunque partecipi al giudizio facendo propria la causa è soggetto al rimborso delle spese. Qualunque sia il titolo o la ragione per cui taluno è parte in un processo ― sia tale partecipazione necessaria o facoltativa, volontaria o coatta, legittima o arbitraria ― ove nel corso del giudizio anziché chiedere la estromissione o rimettersi ai provvedimenti del giudice, faccia propria la causa di alcuna delle parti ed assuma attiva posizione di contrasto verso altre parti, deve anche nei suoi confronti funzionare il principio della soccombenza ai fini dell'attribuzione delle spese di giudizio (Cass. civ., 8 ottobre 1965, n. 2105; Cass. civ., 22 novembre 1968, n. 3791; Cass. civ., 22 febbraio 1971, n. 464; Cass. civ., 8 aprile 1971, n. 1052; Cass. civ., 27 aprile 1972, n. 1318; Cass. civ., 26 giugno 1973, n. 1841; Cass. civ., 23 luglio 1997, n. 6880).

Quanto alle spese sostenute dall'intervenuto ovvero dal chiamato in causa, la giurisprudenza inclina a ritenere che esse debbano gravare sul soccombente, quantunque questi non abbia formulato nei confronti del terzo alcuna domanda. In quest'ottica, secondo un'impostazione costantemente ribadita, si trova affermato, con riguardo alla chiamata in causa ad istanza di parte o iussu iudicis, che le spese sostenute dal terzo chiamato in causa su istanza di parte o d'ufficio, quando non ricorrano giusti motivi per la compensazione, sono legittimamente poste a carico dell'attore soccombente, a nulla rilevando che questi non abbia formulato domanda alcuna nei confronti dello stesso terzo evocato in giudizio (Cass. civ., 21 marzo 2008, n. 7674; Cass. civ., 10 novembre 2011, n. 23552; Cass. civ., 8 febbraio 2016, n. 2492).

La parte che determina la chiamata in causa di terzi, sostenendo tesi che poi si rivelino infondate, in altri termini viene legittimamente condannata alle spese, come soccombente, anche nei confronti dei chiamati (Cass. civ., 12 giugno 1968, n. 1885; Cass. civ., 16 aprile 1971, n. 1081; Cass. civ., 10 maggio 1976, n. 1633; Cass. civ., 14 maggio 2012, n. 7431).

Siffatti principi trovano applicazione non soltanto con riguardo all'attore che abbia indirettamente provocato la chiamata l'intervento del terzo, ma parimenti nell'ipotesi che la chiamata o l'intervento siano stati provocati dal convenuto. Così ad esempio, qualora il convenuto, nel resistere alla domanda attrice, indichi un terzo quale responsabile dei fatti contestati e il giudice, ritenendo la comunione di cause, ordini la chiamata in causa di detto terzo, qualora venga accolta, anche parzialmente, la domanda attrice nei confronti del solo convenuto, escludendo qualsiasi responsabilità del terzo, non possono essere poste le spese di lite sostenute dal terzo a carico della parte attrice, ancorché quest'ultima, quale parte più diligente, abbia provveduto a notificare al terzo l'atto di chiamata (Cass. civ., 25 maggio 2004, n. 10023). Ai fini del riparto delle spese, cioè, occorre guardare non tanto alla parte che abbia effettuato la chiamata, ma a quella che ne abbia provocato l'effettuazione. Perciò, allorché una parte sia stata chiamata in giudizio ad opera del convenuto ma per effetto della tesi sostenuta dall'attore, — qualora questa si riveli infondata ―, legittimamente l'attore soccombente viene condannato alle spese anche nei confronti del chiamato in causa (Cass. civ., 30 marzo 1965, n. 558; Cass. civ., 15 novembre 2013, n. 25781).

Chiamata in garanzia

La regola così riassunta — ribadita tra le tante da Cass. civ., 12 novembre 1973, n. 2990; Cass. civ., 30 marzo 1977, n. 12207; Cass. civ., 2 maggio 1983, n. 3019; Cass. civ., 01 giugno 1988, n. 3728 — è stata più volte applicata con riguardo all'ipotesi che la chiamata in garanzia. In tal senso è stato affermato che la liquidazione delle spese processuali sostenute dal terzo chiamato in garanzia, va posta a carico della parte, rimasta soccombente, che abbia dato causa alla chiamata, a nulla rilevando la mancanza di una istanza di condanna in tal senso (Cass. civ., 15 dicembre 2003, n. 19181).

Il criterio della soccombenza, quando non viene escluso dalla compensazione per giusti motivi, opera cioè anche al fine di individuare chi debba sopportare le spese del chiamato in garanzia, pure quando nei suoi confronti non sia stata proposta alcuna domanda o emessa alcuna pronuncia di merito, con la conseguenza che le spese processuali del chiamato che non sia rimasto soccombente non possono gravare sul chiamante, quando anche quest'ultimo non sia rimasto soccombente né nei confronti del chiamato, né nei confronti della controparte (Cass. civ., 4 maggio 1990, n. 3729; Cass. civ., 26 aprile 1994, n. 3956; Cass. civ., 01 agosto 2003, n. 11743; Cass. civ., 20 agosto 2003, n. 12235; Cass. civ., 2 aprile 2004, n. 6514; Cass. civ., 10 giugno 2005, n. 12301; Cass. civ., 2 marzo 2007, n. 4958; Cass. civ., 28 agosto 2007, n. 18205; Cass. civ., 26 febbraio 2008, n. 5027).

Rapporti assicuratore-assicurato

La questione in esame si atteggia in modo peculiare nei riguardi del regolamento delle spese nei giudizi in cui è parte un assicuratore. La disciplina del carico delle spese giudiziali tra assicuratore ed assicurato dettata dal combinato disposto degli artt. 1917 c.c. e art. 91 c.p.c. e va cosi distinta:

a) spese del giudizio per il risarcimento dei danni, dovute dall'assicurato soccombente al danneggiato: esse costituiscono accessorio della somma liquidata per danni e vanno comprese nella somma assicurativa (massimale di polizza), quale conseguenza diretta dell'attuazione del diritto che l'assicurato ha, a norma dell'art. 1917, comma 1, c.c., di essere tenuto indenne di quanto, in dipendenza del fatto accaduto durante l'assicurazione, deve pagare al terzo;

b) spese sostenute per resistere all'azione del danneggiato contro l'assicurato; sono previste dall'art. 1917, comma 3, c.c., che le pone a carico dell'assicuratore nei limiti del quarto della somma assicurata, o, se la somma dovuta al danneggiato superi la somma assicurata, impone una ripartizione tra assicuratore ed assicurato in proporzione del rispettivo interesse e cioè in proporzione delle somme che, in ordine al risarcimento del terzo, gravano a carico di ciascuno;

c) infine, spese giudiziali sostenute dal danneggiato vittorioso contro l'assicuratore: esse non sono disciplinate dall'art. 1917 c.c., perche derivano dal principio della soccombenza processuale di cui all'art. 91 c.p.c. e pertanto non vanno comprese nel massimale dovuto (Cass. civ., 21 dicembre 1971, n. 3715; Cass. civ., 8 giugno 1973, n. 1663; Cass. civ., 11 gennaio 1978, n. 87; Cass. civ., 26 giugno 1998, n. 6340).

Anche di recente è stato ribadito che l'obbligazione dell'assicuratore della responsabilità civile di tenere indenne l'assicurato delle spese erogate per resistere all'azione del danneggiato, ai sensi dell'art. 1917, comma 3, c.c., ha natura accessoria rispetto all'obbligazione principale e trova limite nel perseguimento di un risultato utile per entrambe le parti, interessate nel respingere la detta azione. Ne consegue che l'assicuratore è obbligato al rimborso delle spese del procedimento penale promosso nei confronti dell'assicurato solo quando intrapreso a seguito di denuncia o querela del terzo danneggiato o nel quale questi si sia costituito parte civile (Cass. civ., 18 gennaio 2016, n. 667 che ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto rimborsabili le spese sostenute dalla società assicurata per le difese dei propri amministratori e sindaci, indagati in un procedimento penale non attivato su istanza di parte e conclusosi con archiviazione).

Rapporti danneggiato-assicuratore

Quanto ai rapporti tra danneggiato ed assicuratore per responsabilità civile, occorre rammentare che l'assicuratore, chiamato in causa dall'assicurato nel giudizio risarcitorio promosso dal danneggiato, può essere condannato al rimborso delle spese processuali direttamente in favore del danneggiato, ai sensi dell'art. 1917, comma 2, c.c., ove l'assicurato ne abbia fatto richiesta (Cass. civ., 11 gennaio 1978, n. 87).

È in questi termini legittima la condanna dell'assicuratore a rimborsare le spese al danneggiato: nell'ipotesi in cui il convenuto con azione risarcitoria chiami in garanzia l'assicuratore della responsabilità civile e, ai sensi dell'art. 1917, comma 2, c.c., chieda che paghi al danneggiato l'indennità dovuta, è legittima la condanna dell'assicuratore al rimborso delle spese processuali in favore del danneggiato, pur in difetto di un'istanza in tal senso da parte di costui (Cass. civ., 29 maggio 1980, n. 3533).

Spese che l'assicurato deve rimborsare al danneggiato

L'assicuratore per responsabilità civile risponde d'altronde delle spese che l'assicurato deve rimborsare al danneggiato.

Nell'assicurazione per la responsabilità civile, le spese processuali che il responsabile deve rimborsare al terzo danneggiato costituiscono cioè una componente del danno da risarcire e l'assicurato deve esserne tenuto indenne dall'assicuratore nei limiti stabiliti dal contratto (Cass. civ., 11 novembre 1975, n. 3802; Cass. civ., 10 giugno 1987, n. 5063).

Interventore ad adiuvandum

Con riguardo all'interventore ad adiuvandum è stato più volte ribadito che è soccombente rispetto alla parte vincitrice, e può perciò essere condannata al rimborso delle spese del processo, non solo la parte che propone domande, ma anche quella che interviene nel processo per sostenere le ragioni di una parte o che, chiamata nel processo da una delle parti, ne sostiene le ragioni contro l'altra (Cass. civ., 23 febbraio 2007, n. 4213; Cass. civ., 30 luglio 1984, n. 4529).

Dunque l'interventore può essere condannato al rimborso delle spese di lite nei confronti del vincitore. Per altro verso, il rimborso delle spese processuali sostenute dall'interveniente ad adiuvandum legittimamente è posto a carico della parte la cui tesi difensiva, risultata infondata, abbia determinato l'interesse all'intervento (Cass. civ., 23 luglio 1983, n. 5085; Cass. civ., 18 aprile 2000, n. 5025; Cass. civ., 17 luglio 2003, n. 11202; Cass. civ., 15 marzo 2006, n. 5684).

Pluralità di parti difese da un unico o da più avvocati

La statuizione sulle spese di lite, nel processo con pluralità di parti si atteggia altresì diversamente secondo che più vincitori siano o meno difesi da un unico avvocato.

In favore dell'unico difensore di una pluralità di parti va effettuata di regola una sola liquidazione. In tal senso è stato recentemente ribadito che, in tema di liquidazione delle spese del giudizio, in caso di difesa di più parti aventi identica posizione processuale e costituite con lo stesso avvocato, è dovuto un compenso unico secondo i criteri fissati dagli artt. 4 e 8 del d.m. n. 55 del 2014, senza che rilevi la circostanza che il comune difensore abbia presentato distinti atti difensivi, né che le predette parti abbiano nominato, ognuna, anche altro (diverso) legale (Cass. civ., 27 agosto 2015, n. 17215). Qualora, cioè, il difensore abbia assistito in giudizio una pluralità di parti deve procedersi a una sola liquidazione delle spese processuali, a meno che l'opera defensionale, pur se formalmente unica, non abbia comportato la trattazione di differenti questioni in relazione alla tutela di posizioni giuridiche non identiche; in tal caso soltanto è consentita una distinta liquidazione per ciascuna delle parti (Cass. civ., 24 novembre 2005, n. 24757; Cass. civ., 13 gennaio 2009, n. 476; Cass. civ., 01 ottobre 2009, n. 21064; Cass. civ., 4 giugno 2015, n. 11591).

La condanna al rimborso delle spese in favore di ciascuno dei vincitori richiede in altri termini distinte attività difensive (Cass. civ., 29 novembre 1963, n. 3065; Cass. civ., 5 dicembre 1966, n. 2851; Cass. civ., 7 giugno 1973, n. 1635; Cass. civ., 8 gennaio 1979, n. 91; Cass. civ., 15 dicembre 1980, n. 6491). Siffatta conclusione, beninteso, si giustifica nel caso in cui più parti vincitrici siano difese da un unico avvocato, non già se ciascuna di esse abbia affidato la difesa ad un proprio difensore. In tal caso, anche se le attività difensive sono affini, il rimborso delle spese spetta a ciascuna delle parti difesa da diversi avvocati (Cass. civ., 23 giugno 1969, n. 2259).

Costituisce giudizio di fatto incensurabile in sede di legittimità stabilire se il difensore di più parti abbia svolto un'attività difensiva unica o plurima (Cass. civ., 14 dicembre 1981, n. 6607; Cass. civ., 10 giugno 1997, n. 5174; Cass. civ., 30 agosto 2004, n. 17363 Cass. civ., 4 giugno 2015, n. 11591).

Cause riunite

Quanto alle cause riunite, la regola da applicare si riassume in ciò, che, unico essendo divenuto il giudizio, all'esito della riunione, unica deve essere la pronunzia sulle spese (Cass. civ., 1 aprile 1974, n. 916; Cass. civ., 24 maggio 1997, n. 4638).

In tale frangente, rimanendo le cause distinte nonostante la riunione, la liquidazione delle spese giudiziali va operata in relazione ad ogni singolo giudizio, posto che solo in riferimento alle singole domande è possibile accertare la soccombenza, non potendo essere coinvolte in quest'ultima soggetti che non sono parti in causa (Cass. civ., 13 luglio 2006, n. 15954; Cass. civ., 12 giugno 2001, n. 7908; Cass. civ., 13 luglio 2006, n. 15954; Cass. civ., 25 marzo 2011, n. 6951; Cass. civ., 10 luglio 2014, n. 15860).

Responsabilità di più soccombenti

L'art. 97 c.p.c., come si diceva in apertura, disciplina la liquidazione delle spese del giudizio nel caso del processo con pluralità di parti. In tale frangente occorre ancora una volta tener distinte due ipotesi:

a) se il rapporto processuale è unico;

b) se il rapporto processuale è plurimo.

Nella prima ipotesi l'applicazione del principio della soccombenza, come si diceva, non si atteggia diversamente da quanto accade nell'ipotesi di singoli contraddittori: la pronuncia in punto di spese giudiziali, in applicazione del principio, non può che essere unitaria, salva eventualmente la compensazione quando acquistino rilievo le differenti condotte difensive di ciascun soccombente.

La condanna alle spese, nell'ipotesi considerata, può essere o no pronunciata in solido tra i soggetti soccombenti. Nel primo caso il giudice tiene conto del «rispettivo interesse nella causa», avuto riguardo, cioè all'interesse al giuridico perseguito. La condanna in solido può invece essere disposta, anche in mancanza di un'istanza in tal senso da parte del vincitore, non soltanto in caso di rapporto processuale unico, ma in ogni caso in cui i soccombenti abbiano un «interesse comune alla causa», interesse derivante non solo da una indivisibilità o solidarietà del rapporto sostanziale, ma anche dalla identità delle questioni sollevate o dibattute ovvero dalla convergenza di atteggiamenti difensivi a contrastare la pretesa avversaria.

La condanna solidale può quindi ricorrere, oltre che in caso di litisconsorzio necessario, in caso litisconsorzio facoltativo, in ipotesi di obbligazione solidale o indivisibile, quando la decisione dipende totalmente o parzialmente dalla risoluzione di identiche questioni (art. 103, comma 1, ultima parte), nei confronti del garante e del garantito in favore della controparte vincitrice, nei confronti dell'interveniente ad adiuvandum e della parte adiuvata. Al contrario, in caso di intervento principale la comunanza d'interessi tra l'interveniente e alcuna delle parti originarie è in linea di principio da escludere.

Il potere di pronunciare la condanna in solido ha carattere discrezionale nella valutazione sul punto non è sindacabile in sede di legittimità. Infine, se la sentenza nulla dispone, che l'obbligazione di rimborso per le spese si considera effettuata per quote uguali.

L'interesse comune

La condanna solidale può tuttavia essere pronunciata soltanto in presenza dell'interesse comune (Cass. civ., 22 aprile 1963, n. 1032; Cass. civ., sez. un., 10 ottobre 1966, n. 2422).

Quanto alla nozione di «interesse comune», è stato chiarito che esso ricorre allorché si abbia una convergenza ed unitarietà di interesse al provvedimento del giudice, la quale si riveli in un'identità di atteggiamento difensivo diretto a contrastare la pretesa avversaria (Cass. civ., 12 dicembre 1986, n. 7406; Cass. civ., sez. un., 12 febbraio 1987, n. 1536; Cass. civ., 17 ottobre 1989, n. 4155; Cass. civ., 30 gennaio 1995, n. 1100; Cass. civ., 24 giugno 1996, n. 5825; Cass. civ., 21 novembre 2006, n. 24680). La comunanza di interessi può desumersi anche dalla semplice identità delle questioni sollevate e dibattute ovvero dalla convergenza di atteggiamenti difensivi diretti a contrastare la pretesa avversaria: situazione questa che non è incompatibile con l'ipotesi in cui vari processi, separatamente instaurati, siano stati dal giudice riuniti (Cass. civ., 12 dicembre 1988, n. 6739; Cass. civ., 30 gennaio 1995, n. 1100; Cass. civ., 24 giugno 1996, n. 5825; Cass. civ., 31 marzo 2005, n. 6761). Per altro verso, se c'è solidarietà, ciò basta per la sussistenza dell'interesse comune, anche se le strategie difensive sono diverse (Cass. civ., 8 agosto 1988, n. 4871).

Nel caso di due domande, tra loro autonome, e di valore diverso, la solidarietà deve essere rapportata alla misura dell'interesse comune e cioè a quella delle due domande che, per essere di minor valore, è ricompresa nel valore dell'altra, dovendosi per il resto rispettare il disposto dell'art. 97, comma 2, periodo 2, c.p.c. per il quale il giudice, se le parti soccombenti sono più, condanna ciascuna di esse alle spese in proporzione del rispettivo interesse nella causa (Cass. civ., 26 aprile 1966, n. 1063; Cass. civ., 24 maggio 1972, n. 1628).

L'apprezzamento della comunanza di interessi, secondo il costante insegnamento della S.C., è incensurabile in cassazione se congruamente motivato (Cass. civ., sez. un., 5 maggio 1962, n. 902; Cass. civ., 7 aprile 1987, n. 3345; Cass. civ., 17 ottobre 1989, n. 4155; Cass. civ., 28 novembre 2007, n. 24757). Allo stesso modo è incensurabile in cassazione l'apprezzamento dell'opportunità della pronuncia della condanna solidale alle spese in presenza di un interesse comune (Cass. civ., 16 aprile 1968, n. 1123; Cass. civ., sez. un., 30 marzo 1972, n. 1010; Cass. civ., 26 luglio 1974, n. 2265).

Guida all'approfondimento

CHIOVENDA, La condanna nelle spese giudiziali, Roma, 1935;

CORDOPATRI, Spese giudiziali, in ED, XLIII, Milano, 1990;

LAZZARO e DI MARZIO, Le spese nel processo civile, Milano, 2010;

SCARSELLI, Le spese giudiziali civili, Milano, 1998.

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