Istruzione probatoria

Gianluigi Morlini
01 Aprile 2016

L'istruzione probatoria è all'evidenza logicamente preceduta dalla formulazione delle richieste probatorie delle parti (art. 183, comma 6 c.p.c.) e dall'ammissione probatoria del giudice (art. 183, comma 7 e 186 c.p.c.). Un primo problema che si pone è quindi quello di comprendere, con riferimento alla fase dell'ammissione, come si deve sviluppare la duplice valutazione operata dal giudice, che investe il profilo dell'ammissibilità della prova e quello della sua rilevanza, posto che ammissibilità e rilevanza fungono da limite al diritto alla prova, spettante alla parte ex artt. 24 Cost. e art. 6.1 CEDU.
Inquadramento

L'istruzione probatoria è all'evidenza logicamente preceduta dalla formulazione delle richieste probatorie delle parti (

art. 183

,

comma 6 c.p.c.

) e dall'ammissione probatoria del giudice (

art. 183

,

comma 7 e

186 c.p.c.

).

Un primo problema che si pone è quindi quello di comprendere, con riferimento alla fase dell'ammissione, come si deve sviluppare la duplice valutazione operata dal giudice, che investe il profilo dell'ammissibilità della prova e quello della sua rilevanza, posto che ammissibilità e rilevanza fungono da limite al diritto alla prova, spettante alla parte ex

ar

tt. 24 Cost.

e

art.

6.1 CEDU

.

Una seconda tematica di rilievo concettuale e di pregnante importanza pratica è poi quella relativa alla rilevabilità officiosa o meno delle preclusioni istruttorie.

Una terza questione è quella dell'esercizio dei poteri officiosi da parte del giudice.

Infine, un ulteriore profilo di interesse è quello delle preclusioni nel caso di intervento dei terzi.

Ammissibilità della prova

Il giudizio di ammissibilità da parte del giudice ha natura strettamente giuridica e riguarda la cosiddetta legalità della prova, integrando una valutazione diretta a verificare, caso per caso, se ricorrano ragioni di non ammissione del mezzo di prova proposto rispetto allo schema legale.

Tale giudizio riguarda quindi la sussistenza delle condizioni, con riferimento a modalità e limiti di deduzione, alle quali l'ordinamento subordina l'esperimento di un determinato mezzo di prova, e spiegava già Carnelutti che si tratta per questo di un giudizio ricondotto a regole negative, ossia a “quelle regole che negano efficacia ad un mezzo di prova” (

Carnelutti

, Diritto e processo, Napoli, 1958, 198).

In particolare, la conformità della prova al modello normativo va scrutinata sia sotto il profilo processuale, valutando se essa sia stata tempestivamente dedotta prima dello spirare dei termini istruttori; sia sotto il profilo sostanziale, valutando se essa sia stata dedotta nel rispetto delle norme codicistiche previste per la validità del mezzo istruttorio (cfr.

artt. 2721-2726 c.c.

con riferimento alla prova testimoniale,

art. 1417 c.c.

con riferimento alla prova della simulazione,

artt. 244

e

230 c.p.c.

con riferimento alle modalità di deduzione dei capitoli di prova,

art. 246 c.p.c.

con riferimento alla capacità a testimoniare,

art. 2731 c.c.

con riferimento alla confessione,

artt. 2737

e

2739 c.c.

con riferimento al giuramento,

art. 118 c.p.c.

con riferimento all'ispezione,

art. 210 c.p.c.

con riferimento all'esibizione di documenti).

Specificamente e circa all'

articolo 118 c.p.c.

,

la Suprema Corte ha ritenuto che laddove il testimone abbia utilizzato per aiuto alla memoria documenti, questi possono essere acquisiti dal giudice, pur dopo lo spirare delle preclusioni istruttorie, trattandosi di potere officioso non soggetto a decadenze; e ferma restando la possibilità per le parti di essere ammesse alla prova contraria eventualmente resa necessaria dall'acquisizione d'ufficio (

Cass.

civ., sez. III, 24 settembre 2015

n. 18896

).

Per quanto concerne poi il tema dell'inammissibilità del capo di prova testimoniale contenente valutazioni, l'assunto deve essere valutato con particolare prudenza nel caso di testimonianza tecnica, relativamente alla quale, ha spiegato la Suprema Corte che «il principio secondo cui la prova testimoniale deve avere ad oggetto non apprezzamenti o giudizi, ma fatti obiettivi, deve essere inteso nel senso che il testimone non deve dare un'interpretazione del tutto soggettiva o indiretta delle circostanze di fatto ed esprimere apprezzamenti tecnici o giuridici su di esso, ma ciò non comporta, peraltro, che egli non possa riferire anche il convincimento sul fatto e le sue modalità derivatogli dalla sua stessa percezione ed esprimere gli apprezzamenti che non sia possibile scindere dalla deposizione dei fatti»

(così

Cass.

civ., sez. lav., 2 gennaio 2001

n. 5

; in termini anche le successive

Cass.

civ., sez. II, 31 gennaio 2006

n. 2166

e

Cass.

civ., sez. III, 22 aprile 2009

n. 9526

).

Di più: «laddove si tratti di apprezzamenti di assoluta immediatezza, praticamente inscindibili dalla percezione dello stesso fatto storico, essi possono concorrere al convincimento del giudice» (

Cass.

civ., sez. III, 22 aprile 2009

n. 9526

, relativamente allo stato scivoloso di un pavimento), soprattutto allorquando gli apprezzamenti riguardano situazioni «difficilmente riproducibili e verificabili sul piano sperimentale» (

Cass.

civ., sez. III, 31 gennaio 2006

n. 216

6

, in tema di immissioni).

Rilevanza della prova

Il giudizio di rilevanza ha invece natura logico-ipotetica ed è volto a verificare a priori se il mezzo di prova, alla luce del brocardo latino frustra probatur quod probatur non relevat, sia potenzialmente utile per l'accertamento dei fatti controversi, cioè se sia tecnicamente idoneo a dimostrare l'esistenza o l'inesistenza dei fatti allegati in causa.

In tutta evidenza, non si può mai definire irrilevante una prova che mira a contrastare l'esito di altre prove e comunque fornire una diversa versione dei fatti che debbono essere provati: una prova diventa superflua

solo quando ciò che essa intende dimostrare è già altrimenti dimostrato

.

Si è quindi osservato, per fissare la distinzione tra ammissibilità e rilevanza, che il giudizio di ammissibilità della prova riguarda un profilo esterno di rispondenza allo schema legale, mentre il giudizio di rilevanza riguarda un profilo interno di conducenza della prova ai fini della decisione, ed è escluso quindi con riferimento a fatti pacifici, già provati o non utili ai fini della decisione. Testualmente, afferma la Suprema Corte che «l'ammissibilità attiene al rispetto delle norme che stabiliscono modalità e limiti di deduzione del singolo mezzo di prova», mentre il giudizio di rilevanza va svolto verificando la sussistenza del «nesso tra i fatti da provare ed il riconoscimento della fondatezza della domanda o dell'eccezione»

(

Cass.

civ., sez. III, 21 dicembre 1999

n. 14386

).

Ciò posto, muovendo dal presupposto che anche la mancanza di uno solo tra i due requisiti di ammissibilità e rilevanza impedisce l'ammissione della prova, la Cassazione ha chiarito che non vi è gerarchia tra i due giudizi, nel senso che il giudice può indifferentemente procedere prima alla valutazione dell'ammissibilità e poi della rilevanza, ovvero prima alla valutazione della rilevanza e poi dell'ammissibilità (cfr.

Cass.

civ., sez. I, 15 giugno 2000

n. 8164

; contra, nel senso che il giudizio di rilevanza è concettualmente precedente a quello di ammissibilità, cfr. Taruffo, La prova dei fatti giuridici, Milano, 1992, 337).

Fondamentale è poi chiarire, con la dottrina e la giurisprudenza (cfr., ex pluribus,

Cass.

civ., sez. III, 21 dicembre 1999

n. 14386

;

Cass.

civ., sez. I, 10 settembre 1999

n. 9640

;

Cass.

civ., sez. II, 29 maggio 1998

n. 5313

) assolutamente pacifiche sul punto, che ammissibilità e rilevanza vanno valutate con riferimento all'astratta idoneità del mezzo a provare una circostanza rilevante ai fini della decisione, senza alcuna preventiva prognosi circa l'esito dell'assunzione o la verosimiglianza delle circostanze dedotte.

Pertanto, relativamente alla richiesta di interpello, è pacifico come la stessa non possa essere disattesa per il solo fatto che la parte interroganda abbia, in atti processuali pregressi, smentito quanto dedotto in sede di interrogatorio; pur se è invece inammissibile allorché sia da escludere la possibilità che l'interpellato possa avere diretta conoscenza delle circostanze per le quali è interrogato, ovvero quando la richiesta di interpello appaia dilatoria e defatigatoria in quanto in contrasto con altre risultanze già acquisite o con il comportamento processuale delle parti (cfr.

Cass.

civ., sez. III, 14 febbraio 2006

n. 3188

;

Cass.

civ., sez.

II, 28 maggio 2004 n.

10319

).

In evidenza

L'interrogatorio formale, diretto a provocare la confessione della parte alla quale è deferito, può non essere ammesso qualora il giudice ritenga che l'esistenza del fatti oggetto dell'interrogatorio sia già esclusa dalle prove raccolte, sì da apparire l'interrogatorio stesso meramente dilatorio o defatigatorio

(

Cass. n. 3188/2006

).

Rilevabilità officiosa delle preclusioni istruttorie

La questione di maggiore spessore pratico in tema di istruttoria è quella relativa al fatto se, nel rito novellato a partire dalle

leggi n. 353/1990

e

534/1995

, le preclusioni siano rilevabili solo ad istanza di parte, ovvero anche d'ufficio (nulla quaestio sul fatto che, in precedenza, le nullità e le decadenze relative alle modalità di deduzione delle prove non fossero rilevabili d'ufficio, e dovessero perciò considerarsi sanate ove non eccepite tempestivamente, in quanto stabilite a tutela di interessi di parte:

Cass.

civ., sez. II, 29 marzo 1995

n. 3710

e

Cass.

civ.,

sez. III, 21 febbraio 1995

n. 1864

).

In tutta evidenza, solo nel caso di rilevabilità ad istanza di parte le preclusioni esse potrebbero essere superate in virtù di un atto di disposizione -tacito nel senso della mancata formulazione dell'eccezione od esplicito nel senso della manifestata rinuncia ad eccepire- della parte a cui favore le preclusioni stesse sono maturate.

Dal punto di vista strettamente teorico di dottrina generale, la questione si risolve tramite lo stabilire unicamente se le preclusioni siano previste nel solo interesse delle parti, con la necessitata conseguenza che in tal caso la rilevabilità non potrebbe che essere a sola istanza di parte; ovvero siano previste anche nell'interesse pubblico, con l'altrettanto necessitata conseguenza che diverrebbero rilevabili anche d'ufficio.

Ciò posto, appare decisamente preferibile la tesi della rilevabilità d'ufficio, e questo per almeno una duplicità di ragioni.

Infatti, sotto un profilo giuridico, non dubitandosi della natura perentoria del termine posto a presidio delle preclusioni istruttorie, risulta incongruo ipotizzare la derogabilità, sull'accordo delle parti, di un termine avente appunto natura perentoria, in violazione dell'

articolo 153

,

comma 1 c.p.c.

Da altra angolazione e comunque, non è revocabile in dubbio il fatto che il rito processualcivilistico sia stato modificato al dichiarato ed evidente scopo di rendere più celere, ordinato, razionale e spedito, l'iter processuale: se così è, pare evidente che l'effettività delle preclusioni non possa essere rimessa alla volontà delle parti, a pena di ritenere che una generale scelta dell'ordinamento processuale possa essere vanificata nel caso concreto dalla volontà di un singolo soggetto processuale.

Né tale approdo ermeneutico merita le censure mosse da quella parte della dottrina che, rivendicando a sé una matrice liberale e garantista, censura le conclusioni raggiunte come espressione di una visione autoritaria del processo. Sul punto, può replicarsi che un'impostazione autenticamente liberale del diritto e del processo, postula l'assoluta libertà e del singolo di decidere se tutelare i propri diritti e con quale tra gli strumenti ipotizzati dall'ordinamento operare tale tutela; ma non implica altresì di rimodellare lo strumento di definizione delle controversie previsto dall'ordinamento, che ben può essere ragionevolmente sottratto al potere dispositivo della parte, proprio perché in tale strumento l'ordinamento può connotare scelte di valore che qualifichino la propria azione di risoluzione della controversia.

Le sopra esposte conclusioni circa la rilevabilità d'ufficio delle preclusioni istruttorie, che sulla scia dell'insegnamento di Chiovenda e Calamandrei valorizzano la natura pubblicistica del processo ed il ruolo del giudice quale direttore del processo stesso, sono state propugnate sia dalla maggioritaria dottrina, sia dalla giurisprudenza di merito, sia infine dalla Suprema Corte.

La Cassazione ha infatti affermato che il regime di preclusioni introdotto nel rito civile ordinario deve ritenersi inteso non solo nell'interesse di parte, ma anche nell'interesse pubblico all'ordinato e celere andamento del processo, con la conseguenza che la tardività delle domande, eccezioni, allegazioni e richieste, deve essere rilevata d'ufficio dal giudice indipendentemente dall'atteggiamento processuale della controparte al riguardo e dall'eventuale accettazione del contraddittorio (giurisprudenza consolidata a partire da

Cass.

civ., sez. I, 7 aprile 2000

n. 4376

: più di recente, cfr.

Cass.

civ., sez. III, 21 marzo 2013

n. 7115

e

Cass.

civ., sez. II, 30 novembre 2011

n. 25598

).

Parimenti, secondo la tesi maggioritaria, anche nel rito del lavoro le preclusioni, tra le quali rientrano ovviamente anche quelle istruttorie, sono rilevabili d'ufficio, nonostante l'accettazione del contraddittorio di controparte, in ragione dei principi ispiratori fondati sulle esigenze pubblicistiche di accelerazione del processo (cfr.

Cass.

civ., sez. lav., 17 dicembre 1997

n.

12764

;

Cass.

civ., sez. lav., 22 aprile 1995

n. 4555

; contra la più datata tesi di

Cass.

civ., sez. lav., 16 luglio 1992

n. 8600

).

In evidenza

La questione della novità della domanda risulta del tutto sottratta alla disponibilità delle parti, e pertanto pienamente ed esclusivamente ricondotta al rilievo officioso del giudice, essendo l'intera trattazione improntata al perseguimento delle esigenze di concentrazione e speditezza che non tollerano - in quanto espressione di un interesse pubblico - l'ampliamento successivo del thema decidendi, anche se su di esso si venga a registrare il consenso del convenuto (

Cass. civ., sez. II, 30 novembre 2011 n. 25598

).

Poteri officiosi del giudice

In linea teorica ed astratta, è possibile distinguere tre modelli processuali relativamente ai poteri in materia probatoria.

Un primo modello, dispositivo puro, prevede che le prove possano essere acquisite solo su iniziativa di parte, ed affida alle parti stesse poteri monopolistici nell'istruzione della causa, relegando invece il giudice ad un ruolo inattivo e non interventista: secondo i teorici di tale approccio, è proprio la posizione di non attività istruttoria del giudice che rende lo stesso realmente indipendente ed imparziale.

Un opposto modello, inquisitorio puro, parifica il ruolo delle parti a quello del giudice, attribuendo a quest'ultimo gli stessi poteri delle parti in ordine alla ricerca delle fonti di prova, per meglio garantire il pieno accertamento della verità materiale.

Tali due modelli, se considerati in termini assoluti, non hanno reali riscontri nel diritto positivo, poiché si riferiscono entrambi a situazioni estreme che risultano difficilmente compatibili con un processo equo e giusto. Ciò spiega perché si è affermato un terzo modello processuale, genericamente chiamato modello misto, ove, a seconda delle concrete applicazioni e secondo proporzioni volta a volta variabili, vengono contemperati elementi tipici del modello dispositivo con elementi tipici del modello inquisitorio.

Con generica approssimazione, può forse dirsi che nei sistemi europei di common law è normalmente utilizzato un sistema misto che prevede un modello base di cognizione ordinaria ove il potere inquisitorio del giudice è particolarmente limitato, affiancato a modelli alternativi diretti a garantire maggiore tutela in particolari settori (quali, ad esempio, il diritto del lavoro ed il diritto di famiglia) ove il potere inquisitorio del giudice è più marcato per meglio garantire il raggiungimento della verità materiale.

La stessa Corte Europea dei diritti dell'uomo non impone agli stati membri un modello unico di processo a cognizione piena, limitandosi a prescrivere che il modello dispositivo non deve contrastare con il principio della ragionevole durata del processo, ed il modello inquisitorio non deve sacrificare le garanzie del contraddittorio.

Anche il modello processuale italiano è certamente ascrivibile al novero di quelli misti nelle forme di un modello dispositivo attenuato, posto che la generale impalcatura dispositiva è temperata da una serie di poteri officiosi del giudice che sono espressione del principio inquisitorio.

Invero, autorevole dottrina ha osservato che non potrebbe parlarsi di giusto processo se si escludesse il potere-dovere del giudice di contribuire attivamente alla ricostruzione della verità dei fatti rilevanti ai fini della decisione (cfr.

Taruffo

, Per la chiarezza di alcuni aspetti del processo civile, in Riv. trim. dir e proc civ., 2009, 723 ss.), pur se deve riconoscersi come non abbia trovato seguito nel diritto positivo la tesi di chi auspicava che il rigido sistema delle preclusioni introdotto con la novella del 1990-1995, fosse bilanciato da incisivi poteri istruttori officiosi del giudice.

In particolare, può dirsi che tali poteri officiosi previsti dal codice sono:

  • la CTU ex

    artt.

    61

    e

    191 c.p.c.

    , nei limiti in cui tale mezzo, con riferimento alla consulenza percipiente, possa definirsi istruttorio;

  • l'interrogatorio non formale delle parti

    ex

    art. 117 c.p.c.

    ;

  • l'ispezione di cose o persone ex

    artt. 118

    e

    258 c.p.c.

    ;

  • l'assunzione di informazioni dalla PA

    ex

    art. 213 c.p.c.

    ;

  • il giuramento suppletorio ed estimatorio ex

    artt. 240

    e

    241 c.p.c.

    ;

  • la riduzione liste testi sovrabbondanti

    ex

    art. 245 c.p.c.

    ;

  • il confronto tra testimoni

    ex

    art. 254 c.p.c.

    ;

  • la formulazione di domande di chiarimento ai testi

    ex

    art. 253 c.p.c.

    ;

  • l'assunzione di testimoni di riferimento indicati dai testi escussi, l'audizione dei testi ritenuti superflui e la rinnovazione dei testi già escussi

    ex

    art. 257 c.p.c.

    ;

  • le riproduzioni, copie ed esperimenti

    ex

    art. 261 c.p.c.

    ;

  • il giuramento nelle cause di rendimento dei conti e

    x

    art. 265 c.p.c.

    ;
  • l'assunzione di testimoni di riferimento indicati dalle parti

    ex

    art. 281-

    ter

    c.p.c.

    ;

  • l'ammissione delle prove d'ufficio nel rito del lavoro

    ex

    art. 421 c.p.c.

    ;

  • l'assunzione di informazioni ex

    ar

    t

    t. 669-

    sexies

    comma 2 e

    738 comma 2 c.p.c.

    ;

  • gli accertamenti di polizia tributaria

    ex

    art. 155 comma 6 c.c.

    in tema di separazione personale;

  • i provvedimenti officiosi

    ex

    art. 155-

    sexies

    c.c.

    in materia di famiglia ed

    ex

    art. 6

    ,

    comma

    9 l

    . n. 898/1970

    in tema di scioglimento del matrimonio;

  • i provvedimenti officiosi

    ex

    art.

    23 L

    . n. 689/1981

    in tema di opposizione ad ordinanza ingiunzione;

  • la comunicazione ed esibizione di scritture contabili

    ex

    art. 2722 comma 2 c.c.

Preclusioni per i terzi intervenienti

L'

articolo 268

,

comma 1 c.p.c.

legittima l'intervento in causa sino al momento della precisazione delle conclusioni, pur se, ai sensi del comma 2, «il terzo non può più compiere atti che al momento dell'intervento non sono più consentiti ad alcuna altra parte», eccetto il caso del litisconsorzio necessario.

Pertanto, fermo restando che in caso di litisconsorzio necessario il processo deve regredire alla sua fase iniziale, onde consentire al terzo di esplicare appieno le sue prerogative difensive, si è discusso circa l'atteggiarsi delle preclusioni nel caso di intervento adesivo dipendente (ove ci si limita a sostenere le conclusioni di una parte), principale (ove si fanno valere propri e specifici diritti soggettivi in contrasto con tutte le parti), litisconsortile o adesivo autonomo (ove si fanno valere propri e specifici diritti soggettivi verso alcuni soltanto dei soggetti originari del processo). Evidentemente, la problematica riguarda le sole preclusioni istruttorie nel caso di intervento adesivo dipendente, ove non vengono spiegate domande; mentre riguarda sia le preclusioni istruttorie, sia quelle relative alle domande giurisdizionali, nel caso di intervento principale o litisconsortile.

Quattro, in particolare, sono le tesi che sono state sul punto formulate.

La prima ricostruzione, che aveva inizialmente incontrato il maggiore consenso in giurisprudenza di merito e dottrina, riteneva che la proposizione di domande, anche da parte del terzo interveniente, fosse possibile, ex

artt. 166-167 c.p.c.

, solo fino a venti giorni prima dell'udienza di prima comparizione; e che, parimenti, la formulazione delle istanze istruttorie fosse tempestivamente azionata solo nel rispetto dei termini istruttori concessi dal Giudice.

Una seconda ed opposta ricostruzione, seguita da parte della giurisprudenza e della dottrina, non vedeva invece limitazioni temporali alla possibilità per il terzo di formulare domande giurisdizionali e richieste istruttorie, ritenendo che il sistema delle preclusioni valesse solo per le parti originarie del processo, non anche per gli intervenienti.

Una terza tesi, seguita da una minoritaria giurisprudenza di merito e sostanzialmente mediana tra le due sopra riportate, riteneva invece che il limite temporale massimo entro il quale operare l'intervento fosse quello dello spirare delle preclusioni assertive posto ora dal vigente

art. 183

,

comma 6 n. 1 c.p.c.

, con la conseguenza che un tempestivo intervento rendeva altresì possibile l'eventuale richiesta dei termini istruttori.

Una quarta opinione, inizialmente minoritaria, distingue invece le preclusioni in tema di domande giurisdizionali da quelle in tema di istanze probatorie, ritenendo che non vi siano limiti temporali all'attività assertiva, ma che il terzo debba invece rispettare le preclusioni istruttorie eventualmente già maturate, ove l'intervento sia spiegato in un momento successivo.

Proprio quest'ultima è stata la soluzione prescelta dalla Corte di Cassazione, che ha affrontato ex professo la tematica per la prima volta con la pronuncia di

Cass.

civ., sez. III, 28 luglio 2005

n. 15787

, e poi ha sempre confermato la propria posizione (cfr. da ultimo

Cass.

civ., sez. III, 26 maggio 2014

n. 11681

).

La Suprema Corte da un lato ha chiarito che non vi sono limitazioni temporali alla possibilità per il terzo di formulare domande giurisdizionali, atteso che la proposizione di domande costituisce l'essenza stessa dell'intervento; dall'altro lato, però, anche sulla base dell'insegnamento di

C

.

Cost.

, 31 maggio 2005

n. 215

, ha statuito che pure per l'interveniente volontario principale valgono le preclusioni istruttorie già verificatesi per le parti originarie, e che conseguentemente la domanda dell'interveniente, pur se ammissibile, dovrà essere rigettata nel merito se non supportata da adeguata prova.

In evidenza

La preclusione per il terzo interveniente di compiere atti che al momento dell'intervento non sono più consentiti ad alcuna parte, ai sensi dell'

art. 268

comma

2

c.p.c.

, opera esclusivamente sul piano istruttorio, e non anche su quello assertivo, attesa la facoltà di intervento, attribuita dal primo comma della stessa disposizione, sino a che non vengano precisate le conclusioni. Ne consegue che è ammissibile la formulazione da parte del terzo di domande nuove ed autonome rispetto a quelle già proposte dalle parti originarie, in quanto attività coessenziale all'intervento stesso (

Cass. civ., sez. III, 26 maggio 2014 n. 11681

).

Riferimenti

ANDRIOLI, Diritto processuale civile, Napoli, 1979, 205;

BALENA, Le preclusioni nel processo di primo grado, in Giur. It., 1996, IV, 273-274;

CARPI-TARUFFO, Commentario breve al codice di procedura civile, sub artt. 2721-2726, Padova, 2015; COMOGLIO, Le prove civili, Torino, 2010, 123;

COMOGLIO-CONSOLO-SASSANI-VACCARELLA, Commentario al codice di procedura civile, sub artt. 183 e 268, Torino, 2014;

GRASSELLI, L'istruzione probatoria nel processo civile, Padova, 2015, 179 ss.;

LUISO, Diritto processuale civile, Milano, vol. 2, 2015;

MANDRIOLI, Diritto processuale civile, Torino, vol. II, 2015;

MERZ, Manuale pratico della prova civile, Padova, 2012;

PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2014;

TARUFFO, Il diritto alla prova nel processo civile, in Riv. Dir. Proc., 1984, 78, 97;

TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, Milano, 1992, 337.

Sommario