Abuso del processo

Francesco Bartolini
22 Settembre 2017

Il processo civile è uno strumento che lo Stato pone a disposizione dei consociati per l'attuazione del diritto ed affinché essi stessi non provvedano a farsi giustizia da sé, con la violenza e il sopruso. Questo strumento può essere fatto un utilizzo distorto, se esso viene adoperato per finalità diverse da quelle che gli sono proprie. Esso può essere trasformato in un mezzo di vessazione o di compressione di diritti di libertà nella lotta politica, con risultati di sopraffazione che nulla hanno a che vedere con l'equa applicazione di una legge uguale per tutti.
Inquadramento

Il processo civile si risolve, nella sua essenziale funzione, in uno strumento che lo Stato pone a disposizione dei consociati per l'attuazione del diritto ed affinché essi stessi non provvedano a farsi giustizia da sé, con la violenza e il sopruso. In dottrina è ancora vivo l'insegnamento di chi autorevolmente ebbe ad affermare che il processo ha lo scopo di accertare, dichiarare e attuare il diritto di chi ha ragione. Anche dello strumento processuale può essere fatto un utilizzo distorto, se esso viene adoperato per finalità diverse da quelle che gli sono proprie. Esso può essere trasformato in un mezzo di vessazione o di compressione di diritti di libertà nella lotta politica, con risultati di sopraffazione che nulla hanno a che vedere con l'equa applicazione di una legge uguale per tutti. Si tratta, evidentemente, di forme di patologia del diritto eclatanti ed esecrabili, estranee al grado di civiltà che deve caratterizzare i tempi odierni. Ma forme di utilizzo distorto molto meno gravi e molto meno appariscenti possono essere attuate con modalità che non offendono valori collettivi essenziali e che, pure, sono da respingere perché tradiscono lo scopo del processo civile, di componimento degli interessi privati sotto la guida della legge. Queste forme possono essere ricomprese in una nozione generica di abuso che esclude le aberrazioni della più riprovevole patologia e si riferisce ai casi nei quali attraverso il processo si ottengono effetti che non gli sono propri, di distorsione, con pregiudizio della parte a cui danno sono cagionati.

Nozione di abuso del processo

Nel senso così precisato si ha abuso del processo quando la parte pone in essere un atto processuale non per perseguire lo scopo proprio dell'atto, ma - sviando l'atto dalla sua causa tipica - per perseguire uno scopo diverso da quello per cui l'atto è funzionalmente previsto dalla legge, dando luogo, per questo, ad una violazione dei doveri di correttezza e di buona fede, che è tenuta ad osservare. La definizione è così enunciata da Cass. civ., II, n. 22754/2016 e descrive l'abuso processuale come un utilizzo contrario alle regole di comportamento che devono informare di sé non soltanto i rapporti negoziali tra i cittadini (artt. 1337, 1338 c.c.) ma anche la contrapposizione nel giudizio civile (art. 88 c.p.c.). La nozione così posta è applicativa di valori essenziali nella nostra disciplina processuale; ed ha poi dovuto tener conto dell'introduzione nel nostro ordinamento dei principi del giusto processo e della sua ragionevole durata.

L'abuso per inosservanza del dovere di lealtà e probità

La forma di abuso meno tipizzata e più conosciuta nella tradizione applicativa processuale riguarda la violazione del dovere di lealtà e probità imposto ai difensori e alle parti dall'art. 88 c.p.c.. Il richiamo a valori generali quali la lealtà del comportamento e l'onestà dei propositi lascia indeterminato il possibile contenuto delle condotte inosservanti. I parametri cui fare riferimento sono quelli del buon padre di famiglia che si muove con correttezza e trasparenza, senza espedienti maliziosi pur se ricorre a tutte le modalità consentite dall'etica e dalla legge per tutelare i propri interessi. Per avere una guida, in una società che cambia velocemente e diventa sempre più chiusa a proteggere interessi egoistici, si può richiamare l'antica distinzione tra il dolus bonus e il dolus malus, effettuata a proposito delle attività negoziali ma trasferibile al mondo del processo. Il processo tollera le astuzie e le scaltrezze; non anche i raggiri e gli espedienti disonorevoli.

Le conseguenze sanzionatorie per il caso di comportamento che venga ritenuto contrario agli obblighi di cui all'art. 88 c.p.c. sono diversamente regolate dalla legge processuale. Per i difensori, poiché essi sono soggetti alla disciplina deontologica rimessa ai Consigli professionali, il giudice deve limitarsi a fare comunicazione del fatto all'organo competente. In genere, l'inosservanza della citata disposizione processuale costituisce anche una violazione del codice etico della professione e giustifica l'esercizio del potere disciplinare. Al riguardo, al giudice è fatto obbligo di riferire ai competenti organi professionali (Cass., Sez. Un., n. 10090/2015); esclusivamente ad essi spetta accertare la violazione ed applicare la sanzione. Per quanto concerne le condotte processuali delle parti, la sanzione è rimessa al giudice. Essa, a norma dell'art. 92, primo comma, c.p.c., consiste nella condanna a rifondere alla controparte le spese, anche non ripetibili, che per trasgressione al dovere di lealtà e probità questa abbia dovuto sostenere. La condanna, in tale caso, consente una deroga alla regola secondo cui le spese processuali non possono essere poste a carico della parte vincitrice: Cass. civ., II, n. 13427/2013; Cass. civ., I, n. 15353/2000; Cass. civ., lav., n. 1743/ 1996.

La fattispecie problematica: il frazionamento del processo

La vicenda processuale che, sotto il profilo del possibile abuso, ha posto all'interprete le vere questioni da risolvere è rappresentata dal così detto frazionamento del processo.

Più fatti possono contribuire a determinare l'elemento costitutivo di una domanda giudiziale (ad esempio, il mancato pagamento di canoni locativi comporta il sorgere di un diritto a percepirli in un ammontare complessivo e in unica soluzione; ma la relativa domanda in giudizio potrebbe essere scomposta in plurime domande aventi ad oggetto i singoli canoni). Si è posto il problema di stabilire se nella libertà dell'attore di scegliere e determinare il contenuto della propria domanda rientri anche la possibilità di preferire alla richiesta complessiva di riconoscimento della sua pretesa una pluralità di accessi al processo che soltanto nella sua totalità esaurisca il contenuto dell'intero credito.

La questione si è posta perché implica, da un lato, la determinazione dell'ampiezza del diritto dispositivo riconosciuto in genere alle parti, che l'ordinamento processuale conferisce loro esplicitamente e che costituisce il contenuto di uno dei principi fondamentali del processo civile; e, d'altro lato, perché comporta evidenti conseguenze preclusive ove si neghi la possibilità di un esercizio plurimo della medesima azione attraverso la scomposizione del suo oggetto. In particolare, la questione in argomento trovò una ragione pratica nel vantaggio che poteva essere conseguito attraverso la parcellizzazione del credito pecuniario quando fosse stato di valore rientrante nella competenza del tribunale. Suddividere questo credito in somme di valore inferiore consentiva di adire, in allora, il pretore e poi il giudice di pace, in entrambi i casi in un giudizio caratterizzato da formalità ridotte e da tempi più celeri.

La dottrina si schierò in prevalenza a favore di questa parcellizzazione, in nome del ricordato principio dispositivo che, tra l'altro, rimette alla scelta della parte la determinazione concreta del contenuto delle istanze da rivolgere al giudice. Si precisava, però, che doveva sussistere un interesse, tutelabile, della parte al frazionamento, in difetto del quale esso andava considerato contrario a buona fede.

L'evoluzione giurisprudenziale

La giurisprudenza si espresse nel senso di ammettere il frazionamento se condizionato alla formulazione di una espressa riserva di agire in un separato giudizio, nel quale far valere le altre voci della stessa pretesa. Questa fu la presa di posizione delle Sezioni unite della Corte di cassazione (sent. n. 108/S.U. del 2000), che ritennero ammissibile la domanda frazionata ove il creditore si fosse contestualmente riservato di agire per il residuo del suo diritto. Siffatto orientamento trovava giustificazione nella necessità di far risultare che l'azione esercitata per una sola porzione del credito non era da interpretare come implicante una rinuncia alla porzione rimanente dello stesso credito. La riserva doveva chiarire che persisteva comunque l'interesse ad agire del creditore, salva la sua scelta di adire in più volte il giudice.

Dopo la modifica dell'art. 111 Cost. (l. cost. 23 novembre1999, n. 2) che ha introdotto nell'ordinamento il principio del giusto processo, la Suprema Corte ha rimeditato la questione. Con un revirement che una parte della dottrina definì “eversivo”, le Sezioni Unite affermarono, con sent. 15 novembre 2007, n. 23726, che: “Non è consentito al creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, di frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo, in quanto tale scissione del contenuto dell'obbligazione, operata dal creditore per sua esclusiva utilità con unilaterale modificazione aggravativa della posizione del debitore, si pone in contrasto sia con il principio di correttezza e buona fede - che deve improntare il rapporto tra le parti non solo durante l'esecuzione del contratto ma anche nell'eventuale fase dell'azione giudiziale per ottenere l'adempimento - sia con il principio costituzionale del giusto processo, traducendosi la parcellizzazione della domanda giudiziale diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria in un abuso degli strumenti processuali che l'ordinamento offre alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale. E' contraria alla regola generale di correttezza e buona fede, in relazione al dovere inderogabile di solidarietà di cui all'art. 2 Cost. e si risolve in abuso del processo (ostativo all'esame della domanda), il frazionamento giudiziale, contestuale o sequenziale, di un credito unitario”. La Corte spiegò, in motivazione, che l'intervenuta modifica legislativa imponeva un ripensamento, alla luce del nuovo principio e che non poteva dirsi “giusto” un processo che consenta abusi o ne sia frutto attraverso l'esercizio di un diritto in forme eccedenti e devianti rispetto alle necessità della sua tutela. La parcellizzazione del credito danneggia la posizione del debitore perché prolunga il vincolo coattivo, aggrava le spese e accolla oneri di molteplici opposizioni a fronte della moltiplicazione delle iniziative giudiziarie. Comporta il rischio di contraddittorietà di giudicati ed è in conflitto con l'obiettivo costituzionalizzato della ragionevole durata del processo. Infine, è contraria alla regola generale di correttezza e buona fede, è inadempiente al dovere di solidarietà e si risolve in un abuso del processo.

L'orientamento enunciato con la pronuncia citata fu confermato da un successivo arresto delle stesse Sezioni unite, sia pure con riferimento ad una fattispecie particolare. Con sent. n. 26961/2009, esse affermarono: “In materia di obbligazioni pecuniarie nascenti da un unico rapporto di lavoro, costituisce principio generale la regola secondo la quale la singola obbligazione va adempiuta nella sua interezza e in un'unica soluzione, dovendosi escludere che la stessa possa, anche nell'eventuale fase giudiziaria, essere frazionata dal debitore o dal creditore. Ne consegue che, ove la prestazione abbia ad oggetto la restituzione di somme indebitamente ricevute e relative all'erogazione degli accessori dell'indennità di buonuscita, sussiste l'obbligo di restituire l'indebito attraverso il pagamento in un'unica soluzione, dovendosi escludere l'applicabilità, in via estensiva o analogica, della norma di cui all'art. 26, d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032, secondo la quale il recupero dell'indennità di buonuscita indebitamente corrisposta avviene mediante una pluralità di trattenute sul trattamento di quiescenza, attesa la natura speciale ed eccezionale di tale disposizione”.

L'insegnamento delle Sezioni unite è divenuto principio coralmente seguito. Tra le pronunce edite della giurisprudenza di merito si vedano, ad esempio: Trib. Ascoli Piceno, 25 gennaio 2013, n. 45; Giudice di pace di Milano, 2 aprile 2012, n. 105041; Trib. Catanzaro, 22 febbraio 2012; Trib. Busto Arsizio, 23 settembre 2010; Trib. Varese, 2 settembre 2010.

Il ripensamento effettuato dalle Sezioni Unite nel 2007 è stato considerato non rientrante nei casi che danno luogo al così detto “overruling” (o prospective ovverruling) e che comportano di conseguenza una decisione “a sorpresa” (o della terza via). Al riguardo Cass. civ., III, n. 929/2017 ha argomentato che quella pronuncia non aveva comportato il mutamento di una regola del processo che preveda una preclusione o una decadenza ma aveva sancito l'improponibilità delle domande successive alla prima in ragione del difetto di una situazione giuridica sostanziale tutelabile, per contrasto con il principio costituzionale del giusto processo, che non consente di accordare protezione ad una pretesa caratterizzata dall'uso strumentale del diritto di azione.

Casi nei quali il frazionamento è consentito

Una volta stabilito il principio della non frazionabilità della domanda avente ad oggetto un credito pecuniario, si è dovuta constatare la sussistenza di fattispecie concrete nelle quali il detto principio non poteva non subire una deroga.

La situazione di maggior rilevanza è costituita dal caso in cui, all'interno dell'unico rapporto, per una porzione dei crediti, se intesi ciascuno a sé stante, è possibile ottenere l'emissione di un decreto ingiuntivo. Si è osservato che sarebbe irragionevole negare al creditore l'agile tutela monitoria e costringerlo all'ordinaria azione di cognizione per tutte le somme dovute, anche se ciò comporta necessariamente un frazionamento della domanda: “Non opera il divieto di parcellizzazione della domanda giudiziale, né si configura abuso del processo, nel caso in cui il creditore agisca in via monitoria per la parte di credito certa, liquida ed esigibile e utilizzi il rito sommario di cognizione per l'altra parte di credito da accertare e liquidare. L'attore che, a tutela di un credito nascente da un unico rapporto obbligatorio (nella specie per il pagamento di compensi professionali), agisce, dapprima, con ricorso monitorio, per la somma già documentalmente provata, e, poi, in via ordinaria, per il residuo, non viola il divieto di frazionamento di quel credito in plurime domande giudiziali, e non incorre, pertanto, in abuso del processo, - quale sviamento dell'atto processuale dal suo scopo tipico, in favore di uno diverso ed estraneo al primo - stante il diritto del creditore a ricorrere ad una tutela accelerata, mediante decreto ingiuntivo, per la parte di credito assistita dai requisiti per la relativa emanazione” (Cass. civ., sez. II, n. 22574/2016). Al riguardo si è precisato che un siffatto comportamento del creditore non si pone in contrasto né con il principio di correttezza e buona fede, né con il principio del giusto processo, dovendosi riconoscere il diritto del creditore a una tutela accelerata mediante decreto ingiuntivo per i crediti provati con documentazione sottoscritta dal debitore (Cass. civ., II, n. 10177/2015). Un caso particolare è costituito dalla scelta del lavoratore di agire in via monitoria per ottenere il pagamento dei crediti retributivi e di agire con separato ricorso per impugnare il licenziamento intimatogli e ottenere le indennità in proposito previste. Cass., sez. lav., n. 26464/2016 ha affermato che in tale ipotesi non sussiste un illegittimo frazionamento del credito, in quanto, benchè all'interno di un unico rapporto, si è in presenza di crediti autonomi e distinti, scaturenti da diversi fatti costitutivi, aventi differenti regimi probatori e prescrizionali; l'imposizione di un'unica azione impedirebbe al creditore l'uso della tutela monitoria, praticabile per i soli crediti assistiti da prova scritta, né è conferente il richiamo alla ragionevole durata del processo di cui all'art. 111 Cost., da valutarsi in relazione alla durata del singolo processo e non dei molteplici processi fra le stesse parti.

Di recente le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno enunciato un principio che sintetizza le regole da osservare e fornisce al giudice la regola da seguire: “Le domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito, benchè relativi ad un medesimo rapporto di durata tra le parti, possono essere proposte in separati processi, ma, ove le suddette pretese creditorie, oltre a far capo ad un medesimo rapporto tra le stesse parti, siano anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o, comunque, fondate sullo stesso fatto costitutivo, - sì da non poter essere accertate separatamente se non a costo di una duplicazione di attività istruttoria e di una conseguente dispersione della conoscenza dell'identica vicenda sostanziale - le relative domande possono essere formulate in autonomi giudizi solo se risulti in capo al creditore un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata, e, laddove ne manchi la corrispondente deduzione, il giudice che intenda farne oggetto di rilievo dovrà indicare la relativa questione ex art. 183, c.p.c., riservando, se del caso, la decisione con termine alle parti per il deposito di memorie ex art. 101, comma 2, c.p.c.“ (Cass. civ., Sez.Un., n. 4090/2017).

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