Gina Gioia
Guido D'Ippolito
18 Gennaio 2017

La locuzione tempus regit actum esprime un principio-guida del nostro ordinamento, in base al quale ciascun fatto o atto giuridicamente rilevante deve essere assoggettato alla normativa vigente nel momento in cui si verifica.
Inquadramento

La locuzione tempus regit actum esprime un principio-guida del nostro ordinamento, in base al quale ciascun fatto o atto giuridicamente rilevante deve essere assoggettato alla normativa vigente nel momento in cui si verifica. Costituisce risvolto del medesimo concetto, dunque, la regola di irretroattività della legge, cristallizzata all'art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale, la quale, anche in ragione della propria collocazione topografica, assurge a principio generale del nostro ordinamento. Nel tratteggiare le caratteristiche del principio tempus regit actum, accanto alla norma richiamata, assumono rilevanza anche l'art. 25, comma 2, Cost., in base al quale «nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso», gli artt. 73 Cost. e art. 10 disp. prel., relativi alla data di entrata in vigore della legge, nonché l'art. 15 delle disp. prel. che regola i fenomeni dell'abrogazione tacita o espressa.

Il principio tempus regit actum, seppur principio generale dell'ordinamento, può vantare copertura costituzionale solo in ambito penale; fatta eccezione, dunque, per la materia penalistica il principio potrà ben essere derogato dal legislatore.

L'art. 11 disp. prel. assurge a riferimento costante per l'interprete e precipitato di una condivisa esigenza di certezza del diritto, al quale, in ogni caso, anche il legislatore dovrebbe ragionevolmente attenersi considerato il valore che la certezza acquisisce nei rapporti preteriti. In generale, dunque, è possibile affermare che gli atti normativi abbiano immediata efficacia e che non possano disporre che con riguardo al futuro. Anche ove agli stessi venga attribuita una forza retroattiva, in virtù di specifica previsione da parte del legislatore, la stessa sarebbe riferibile a fatti verificatisi nel passato ma, tra questi, solo a quelli che continuino a dar vita a conseguenze giuridiche nel presente.

Diritto intertemporale e diritto transitorio

In merito alla successione delle leggi nel tempo, appare utile richiamare una distinzione elaborata dalla dottrina e mai successivamente abbandonata: quella tra diritto intertemporale e diritto transitorio.

Con la prima locuzione si indica quel complesso di regole che disciplinano, in via generale, la successione delle norme nel tempo, mentre, con l'espressione diritto transitorio si è soliti indicare l'insieme di quelle prescrizioni dettate, di volta in volta, dal legislatore per regolare quanto accaduto nel periodo in cui si sia venuto a concretizzare il mutamento legislativo. Ad un carattere, per così dire, generale del primo si contrapporrebbe, quindi, la specificità del secondo.

Come esempio della prima tipologia di norme si possono richiamare gli artt. 10, 11 e 15 delle disposizioni della legge in generale, nonché gli artt. 25, 2° co. e 73 Costituzione, quali imprescindibili elementi ermeneutici, validi in ogni ambito del diritto, dai quali è possibile derivare la normalità dell'immediata applicazione della norma e il carattere tendenzialmente non retroattivo della stessa.

Come ipotesi di diritto transitorio, a titolo esemplificativo, si veda la complessa disciplina dettata dall'art. 90, l. 26 novembre 1990, n. 353, che, nell'ambito della riforma del processo civile, regolava l'applicazione della nuova normativa alle liti pendenti. Generalmente si propende per attribuire la ntura di diritto transitorio alle diposizioni che chiudono gli atti legislativi di riforma.

Astrattamente, quindi, il diritto intertemporale dovrebbe essere dotato di una valenza sussidiaria: intervenire solo ove manchi una disciplina ad hoc; ma, allo stesso tempo, sarebbe auspicabile che il legislatore tenga in debita considerazione le norme di diritto intertemporale al fine di disciplinare quello transitorio. Il primo necessita di un'attenta ricostruzione da parte dell'interprete, specialmente, avuto riguardo alla vicenda processuale, tenendo conto anche di tutti i principi costituzionali e di derivazione europea rilevanti in materia; basti in questa sede richiamare il principio del giusto processo, di cui agli artt. 111 Cost. e art. 6 CEDU, e dei relativi corollari. Le norme transitorie sembrano più garantiste nel regolare il passaggio graduale fra assetti normativi.

Tuttavia, a parte il rispetto del principio di ragionevolezza e con il solo limite che non vengano contraddetti principi e norme costituzionali, in ogni caso, il legislatore potrebbe regolare come ritenuto più opportuno l'eventuale retroattività della norma rispetto ai processi pendenti.

A questo proposito, la Corte costituzionale ritiene che le misure transitorie vadano emanate per garantire la razionalità del sistema normativo, nonché per riconoscere ed attuare un diritto già venuto ad esistenza. Su queste considerazioni, la Corte si limita ad ammonire il legislatore al quale demanda l'intervento normativo. La Corte di giustizia UE sanziona decisamente la mancata adozione delle norme in questione con l'illegittimità da cui il diritto al risarcimento del danno di chi ne abbia subito le conseguenze.

La regola tempus regit actum nel processo civile

La possibilità che una norma possa avere una sua valenza retroattiva pone, dunque, un generale problema di accertamento dei limiti di operatività della norma subentrata, rispetto alla vecchia disposizione.

Il generale principio di irretroattività delle norme necessita di qualche riflessione specifica ove lo si consideri calato nell'ambito del processo e, segnatamente, in quello civile. Bisogna, infatti, muovere dalla preliminare considerazione di come il processo sia, ontologicamente, attività che si estende nel tempo, composta da molteplici atti concatenati, volti al raggiungimento di un risultato finale.

Appare, dunque, tutt'altro che improbabile l'intervento di norme idonee ad incidere sullo svolgimento dello stesso, non solo sotto il profilo del diritto sostanziale ma anche di quello processuale. In tale ipotesi, dunque, l'aspetto più critico può essere identificato, non tanto nella necessità di individuare quale sia la norma in concreto applicabile, risolvendo gli eventuali conflitti, bensì comprendere a quale destino vadano incontro gli atti processuali svolti legittimamente nella vigenza della norma abrogata e in che modo gli stessi possano essere coniugati con quelli successivamente posti in essere, vigente la norma successiva.

Da un lato, dunque, esigenze di conservazione degli effetti già prodottisi, dall'altro l'immediata applicazione della nuova norma, nel rispetto del principio tempus regit actum.

Avuto riguardo alla vicenda processuale, è bene sottolineare come il principio tempus regit actum sia riferibile ad ogni atto in sé considerato e non solo, ad esempio, all'atto decisorio finale, poiché idoneo a decidere della legittimità dell'intero procedimento. La legittimità dell'atto, dunque, nel rispetto del principio-guida qui in considerazione, dovrebbe essere valutata con esclusivo riferimento alla legge vigente nel momento in cui lo stesso sia stato posto in essere ed è, pertanto, rispetto a tale legge che dovrebbe giudicarsi della validità dell'atto compiuto.

Ecco che, allora, da quanto sopra considerato, dovrebbe derivare che gli atti posti in essere in conformità della legge precedente dovranno spiegare effetti nel corso del giudizio, rendendo quindi possibile che tali effetti si ripercuotano sui successivi atti del processo, anche in parziale deroga al principio tempus regit actum.

Può dunque desumersi che la regola generale del diritto intertemporale, in ambito processuale, è nel senso di una immediata applicazione e di una generale non valenza retroattiva della norma processuale e, dunque, la non riferibilità della stessa agli atti già compiuti. La regola, invece, di diritto transitorio potrà assumere, in concreto, qualunque portata il legislatore ritenga opportuna, purché nel rispetto del canone di ragionevolezza e dei principi inderogabili in materia, quali ad esempio quello del contraddittorio, costituzionalmente presidiato.

Una conferma, indiretta, sulla validità del principio in base al quale ogni attività processuale debba essere regolata sulla base della legge vigente al momento della sua esplicazione, viene fornita anche dalla circostanza che, in occasione delle riforme processuali, il legislatore si sia preoccupato di predisporre apposite norme di natura transitoria, volte ad escludere l'applicabilità della disciplina appena entrata in vigore nei confronti dei processi già pendenti; si veda a tal riguardo il contenuto del già richiamato art. 90 della legge 26 novembre 1990, n. 35 o, più di recente, l'art. 27, d. lgs. n. 40/2006.

L'idea in base alla quale le regole processuali non debbano essere cambiate nel corso del procedimento si pone in contrasto con il principio-guida qui considerato. A tal riguardo, basti osservare che la novella di cui all'art. 345, comma 3, c.p.c., sulla base dell'art. 54, d.l. 22 giugno 2012, n. 83, così come convertito con l. 7 agosto 2012, n. 134, ha reso applicabile la nuova disposizione anche a quei giudizi già pendenti in primo grado.

In questo caso, a ben guardare, la norma risulta essere perfettamente in armonia con il principio tempus regit actum. Essa non ha, infatti, efficacia retroattiva, essendo destinata a disciplinare solo i procedimenti d'appello instaurati successivamente alla sua entrata in vigore e, pur tuttavia, produce i propri effetti su vicende processuali incardinate ben prima dell'entrata in vigore della nuova disciplina.

Parte della dottrina si è anche premurata di sottolineare come, stante la natura complessa della vicenda processuale e la sua naturale estensione temporale, una applicazione del principio tempus regit actum, che non sia calibrata sulla particolare natura dell'istanza processuale, avrebbe come effetto quello di minare alle fondamenta l'unità e la coerenza dello stesso procedimento. In tale prospettiva, allora, il termine actum della nota locuzione latina, dovrebbe riferirsi all'intero processo, o quanto meno all'intero grado di giudizio, e non ai singoli atti monisticamente considerati.

A tal riguardo, può, innanzitutto, muoversi dalla constatazione che il codice di rito non contenga norme di carattere generale idonee a regolare i rapporti tra l'applicazione della legge processuale e l'efficacia della stessa nel tempo. Manca, dunque, una norma generale di diritto intertemporale e transitorio specificamente congeniata.

Successione di leggi processuali e perpetuatio iurisdictionis: l'art. 5 c.p.c.

L'unica disposizione rinvenibile nel codice di procedura civile attinente alla successione delle norme processuali nel tempo è l'art. 5, relativo al momento determinante della giurisdizione e della competenza.

A ben guardare, dunque, l'art. 5 si occupa solo di un aspetto relativo al problema della successione temporale delle leggi e lo fa in deroga al principio del tempus regit actum. Ed infatti, in base alla norma richiamata è prevista una generale ultrattività della disposizione abrogata che regoli giurisdizione e competenza, in modo tale che i mutamenti successivi, di diritto e di fatto, astrattamente idonei ad indurre ad una diversa determinazione della giurisdizione e della competenza, non influenzino il procedimento già pendente.

La ratio di una tale previsione è quella di salvaguardare il procedimento pendente al fine di non porre nel nulla le posizioni legittimamente acquisite dalle parti, in ragione della legge in vigore al momento della domanda. La norma in esame, dunque, in ragione della tutela delle posizioni legittimamente acquisite, dell'economia processuale e della certezza del diritto, deroga al principio tempus regit actum consentendo la prosecuzione del processo correttamente incardinato in base alla norma ormai abrogata, sancendo il principio della c.d. perpetuatio iurisdictionis. Ovviamente, in accordo con quanto sin qui rilevato, ben potrebbe il legislatore dettare, in seguito a riforma delle norme processuali, una disciplina transitoria contraria alla perpetuatio generalmente prevista.

Il principio non trova applicazione, invece, nell'ipotesi in cui il giudice adito risulti sprovvisto di giurisdizione o competenza.

La novella dell'art. 5 c.p.c. intervenuta in forza dell'art. 90, comma 1., l. 26 novembre 1990 n. 353, nel testo sostituito dall'art. 9 d.l. 18 ottobre 1990 n. 432, convertito nella l. 20 dicembre 1995 n. 534, e applicabile a tutti i giudizi pendenti a far data dal 1 gennaio 1993, ha avuto lo scopo di chiarire come la perpetuatio fosse riferibile anche alle modificazioni delle norme relative alla giurisdizione ed alla competenza e non solo ai cambiamenti dello stato di fatto, così rispondendo a convenienti ragioni di economia processuale e di tutela delle ragioni processuali dell'attore, ma anche a quelle esigenze di natura pubblica legate ad un uso razionale delle risorse giurisdizionali. V'è, poi, da precisare come la norma si riferisca esclusivamente ai cambiamenti di quelle situazioni, di fatto o di diritto, che siano estrinseche alla domanda e non a quelle relative, invece, al rapporto dedotto in giudizio.

La non rilevanza prevista dalla norma considerata, dunque, non potrà ritenersi operativa nel caso di modificazione della domanda o nell'ipotesi nella quale venga fatta valere una nuova pretesa. La lettera della norma impedisce un'applicazione della stessa ai cambiamenti di indirizzi giurisprudenziali, atteso che questi ultimi non possano essere fatti rientrare, neanche tramite il ricorso ad una interpretazione estensiva, nel concetto di stato di fatto o di legge vigente.

Il principio espresso dalla disposizione di cui all'art. 5 c.p.c. privilegia, dunque, esigenze di economia processuale, di certezza del diritto e di ragionevole durata del processo, rispetto ad una incondizionata applicazione del principio tempus regit actum.

In evidenza

È escluso, in difetto di disposizioni transitorie ad hoc, che un nuovo rito introdotto possa essere applicato ad un procedimento già pendente, in ragione del rispetto di quel principio di irretroattività della legge sancito in via generale dall'art. 11 delle disposizioni della legge in generale, del quale l'art. 5 c.p.c. è applicazione (così Cass. civ., sez. III, 7 ottobre 2010, n. 20811).

L'overruling processuale

Un argomento affine, seppur distinto, da quello qui considerato è l'overruling o revirement della giurisprudenza in materia processuale, con tale termine intendendosi i mutamenti giurisprudenziali relativi all'interpretazione di norme processuali. Di recente si è imposta, infatti, come questione di non secondaria importanza quella dell'individuazione della disciplina da applicare, nei processi pendenti, all'interno dei quali una delle parti abbia tenuto un dato contegno processuale facendo affidamento su un precedente orientamento giurisprudenziale. Il problema, dunque, può essere così sintetizzato: l'attività legittimamente svolta da una parte, sulla base di un precedente orientamento giurisprudenziale, si rivelerebbe non più legittima in seguito alla variazione di orientamento della giurisprudenza, avvenuto mentre il processo risulta ancora pendente. Si pensi al caso affrontato da Cass. civ., Sez.Un., 9 settembre 2010, n. 19246, relativo ai termini per la comparizione e costituzione nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo o quello oggetto di Cass. civ., 30 marzo 2010, n. 7607, sui termini per l'impugnazione delle sentenze del Tribunale delle acque pubbliche. Quid iuris in queste ipotesi? In realtà, dietro il problema di un overruling così configurato, si celano altre problematiche, tra le quali possono evidenziarsi: la soluzione dell'interrogativo se l'overruling di norme processuali debba valere sempre e solo per il futuro, la questione relativa alla possibilità di riconoscere il ruolo di fonte del diritto alla giurisprudenza e, ancora, quella relativa a quale sia la natura dell'attività ermeneutica posta in essere dai giudici. Tali tematiche risultano, peraltro, influenzate anche da alcuni interventi del legislatore con i quali si è, in qualche misura, riconosciuta una certa rilevanza giuridica al precedente giurisprudenziale. Si pensi al tal riguardo all'art. 375 c.p.c. così come modificato dal d. lgs. n. 40 del 2006, all'art. 360-bis c.p.c. e all'art. 118, 1° co., disp. att. c.p.c.; in forza delle disposizioni richiamate si è, rispettivamente, previsto che:

  1. la sezione semplice della Corte di Cassazione che non intenda conformarsi all'orientamento espresso dalle Sezioni Unite sia obbligata a rimettere la questione a queste,
  2. che possa dichiararsi l'inammissibilità del ricorso in Cassazione avverso una decisione conforme alla giurisprudenza di legittimità e, da ultimo,
  3. che il giudicante possa redigere motivazioni in forma semplificata, ove si faccia riferimento a precedenti conformi.

Invero, da una lettura delle medesime norme può rilevarsi come al precedente giurisprudenziale sia stata attribuita certamente una qualche rilevanza, ma nessuna efficacia vincolante. Di talché, non potrà mai parlarsi di cambiamento di legge attuato per via giurisprudenziale, pena l'inserimento surrettizio ed illegittimo di una fonte di produzione del diritto ulteriore e diversa, rispetto a quelle previste nel nostro ordinamento. Tuttavia, la questione deve tenere ferma la riflessione, condivisa dalla stessa Corte di legittimità, in base alla quale il precedente giurisprudenziale, individuando il significato proprio della norma, avrebbe efficacia retroattiva di modo tale che l'interpretazione da ultimo fornita dovrebbe investire anche i fatti oggetto del processo pendente.

Una tale impostazione si scontra contro l'altro principio, pur condiviso da dottrina e giurisprudenza, in base al quale le regole non possono mutare nel corso del processo, pena il rischio di una non condivisibile alterazione degli assetti che le norme vigenti in materia mirano a mantenere.

In realtà, dunque, un'applicazione pedissequa del principio tempus regit actum, in questo ambito, pare non potersi condividere poiché lesiva di altri principi aventi rango sovraordinato come quello del giusto processo. Una conferma indiretta in tal senso verrebbe proprio dalla norma di cui all'art. 5 c.p.c., a maggior ragione ove si tenga conto che oggetto della disposizione richiamata siano i mutamenti di fatto o legislativi, mentre nel caso qui considerato a mutare siano gli orientamenti giurisprudenziali. Dall'analisi di alcune pronunzie della Corte di legittimità (tra le quali si segnalano Cass. civ., Sez.Un., 11 luglio 2011, n. 15144, Cass. civ., Sez.Un., 9 settembre 2010, n. 19246, Cass. civ., 16 giugno 2010, n. 14627, Cass. civ., 30 marzo 2010, n. 7607, Cass. civ., 9 ottobre 2008, n. 24883) possono essere tratti alcuni principi e indicazioni utili, per orientarsi in mezzo alle problematiche sopra brevemente sintetizzate.

Tralasciando le considerazioni in merito alla ricostruzione in chiave ontologica dell'attività ermeneutica svolta dai giudici, avuto riguardo al contesto delle fonti del diritto, un principio che pare essersi affermato è quello in forza del quale i mutamenti giurisprudenziali intercorsi non possano tradursi in danno nei confronti della parte che abbia agito legittimamente, facendo affidamento nell'orientamento, o negli orientamenti, ritenuti sino a quel momento maggioritari. Pertanto, da un lato, l'affidamento incolpevole non potrà esser sanzionato; dall'altro, proprio per determinare se affidamento incolpevole vi sia, sarà necessario distinguere fra orientamenti giurisprudenziali che esprimano una interpretazione “correttiva” e come tale tendenzialmente non prevedibile, dai casi in cui l'interpretazione, invece, si ponga nel solco dei precedenti orientamenti segnandone, per così dire, un successivo passo evolutivo. Solo, infatti, nel primo caso la parte si troverebbe in una ipotesi di affidamento incolpevole e, pertanto, avrebbe diritto a non essere pregiudicata dal nuovo orientamento; un tale risultato potrebbe essere raggiunto attraverso l'impiego del meccanismo della rimessione in termini o attraverso l'esclusione dell'operatività delle preclusioni introdotte, a seconda che si sia configurato, nel caso di specie, un'ipotesi sopravvenuta di irritualità o di tardività.

Casistica

Rimessione in termini in caso di affidamento incolpevole.

Alla luce del principio costituzionale del giusto processo, la parte che abbia proposto ricorso per Cassazione facendo affidamento su una consolidata giurisprudenza di legittimità in ordine alle norme regolatrici del processo, successivamente travolta da un mutamento di orientamento interpretativo, incorre in errore scusabile ed ha diritto ad essere rimessa in termini ai sensi dell'art. 184-bis c.p.c., "ratione temporis" applicabile, anche in assenza di un'istanza di parte, se, esclusivamente a causa del predetto mutamento, si sia determinato un vizio d'inammissibilità od improcedibilità dell'impugnazione dovuto alla diversità delle forme e dei termini da osservare sulla base dell'orientamento sopravvenuto alla proposizione del ricorso (Cass. civ., sez. II, 17 giugno 2010, n. 14627).

Ammissibilità dell'impugnazione tardiva.

È ammissibile l'impugnazione pur proposta dopo la scadenza del termine individuato dalla Corte con una decisione successiva alla sua proposizione, in relazione al "dies a quo" per l'impugnazione, perché sussiste affidamento incolpevole nella giurisprudenza allorché un orientamento consolidato sia modificato repentinamente e imprevedibilmente con effetti preclusivi del diritto di azione e di difesa (Cass. civ., Sez. Un., 11 luglio 2011, n. 15144).

In tema di espropriazione forzata, l'impugnazione del solo capo di condanna alle spese dell'ordinanza che dichiari l'estinzione del processo esecutivo va promossa nelle forme del reclamo ex art. 630 c.p.c. e non con ricorso per cassazione. Tuttavia, poiché l'affermazione di tale principio ha determinato un mutamento della precedente interpretazione della norma processuale (cosiddetto "overruling"), con conseguente decadenza dallo strumento impugnatorio esclusa sulla base del precedente orientamento, il ricorso proposto ex art. 111 Cost. prima che si consolidasse il nuovo indirizzo deve essere esaminato dalla Corte (Cass. civ., sez. III, 16 maggio 2014, n. 10836).

Tempus regit actum e affidamento.

In difetto di esplicite previsioni contrarie, il principio dell'immediata applicazione della legge processuale sopravvenuta (nella specie, l'art. 68 l. 26 novembre 1990 n. 353, a mente del quale "la proposizione della revocazione non sospende il termine per proporre ricorso per cassazione", norma applicabile ai giudizi pendenti al 1 gennaio 1993 ex art. 9 l. n. 534 del 1995) ha riguardo soltanto agli atti processuali successivi all'entrata in vigore della legge stessa, alla quale non è dato incidere, pertanto, sugli atti anteriormente compiuti, i cui effetti restano regolati, secondo il fondamentale principio del "tempus regit actum", dalla norma sotto il cui imperio siano stati posti in essere. Un generale principio di "affidamento" legislativo (desumibile dall'art. 11 disp. prel.) preclude, difatti, la possibilità di ritenere che gli effetti dell'atto processuale già formato al momento dell'entrata in vigore della nuova disposizione siano da quest'ultima regolati, quantomeno nei casi in cui la retroattività della disciplina verrebbe a comprimere la tutela della parte, senza limitarsi a modificare la mera tecnica del processo (Cassazione civile, sez. III, 12/05/2000, n. 6099)

Sommario