Ordini di protezione e preminente interesse del minore: vis actractiva del tribunale in composizione collegiale già investito del conflitto familiare

Giovanni Verardi
22 Agosto 2017

L'attribuzione ex art. 736-bis c.p.c. al tribunale in composizione monocratica delle istanze di adozione degli ordini di protezione non esclude la competenza del tribunale in composizione collegiale, ove l'istanza sia presentata nell'ambito di un più ampio conflitto familiare già incardinato innanzi a quest'ultimo
Massima

L'attribuzione ex art. 736-bis c.p.c. al tribunale in composizione monocratica delle istanze di adozione degli ordini di protezione non esclude la competenza del tribunale in composizione collegiale, ove l'istanza sia presentata nell'ambito di un più ampio conflitto familiare già incardinato innanzi a quest'ultimo, al fine di evitare decisioni intempestive, contrastanti e incompatibili da parte di organi giudiziali diversi.

Il caso

Il ricorrente principale, padre della minore, impugna per cassazione la sentenza con la quale la Corte d'Appello aveva confermato la pronuncia di primo grado in ordine all'affidamento esclusivo della minore alla madre ed ex convivente del ricorrente, a fronte di condotte aggressive e di stalking del padre. La Corte d'Appello aveva altresì confermato la necessità di incontri in forma protetta, di un assegno di mantenimento in favore della figlia e del contributo per le spese straordinarie, ma aveva dichiarato la nullità del divieto di avvicinarsi all'abitazione dell'ex convivente, in quanto pronunciato dal giudice collegiale in luogo di quello monocratico. La madre propone ricorso incidentale per cassazione avverso quest'ultimo capo della sentenza d'appello, invocando i principi della concentrazione delle tutele e del preminente interesse del minore.

La Corte di Cassazione dichiara ammissibile il ricorso principale, anche alla luce dell'applicabilità, in tema di affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio, della l. n. 54/2006 e dei relativi procedimenti in materia di separazione e divorzio, ribadendo in tal modo la totale assimilazione della posizione dei figli nati fuori dal matrimonio con quella dei figli nati nell'ambito del matrimonio. Dichiara tuttavia infondati tutti motivi di ricorso, aventi ad oggetto l'accertamento dei fatti di violenza e persecuzione, le modalità esecutive del diritto di visita della minore, le richieste risarcitorie, il quantum dell'assegno di mantenimento in favore della minore, nonché le spese straordinarie, tra le quali quelle per l'iscrizione all'asilo nido.

Dichiara invece inammissibile il ricorso incidentale, in quanto il decreto impugnato difetta dei requisiti della decisorietà e della definitività, ma esercita il potere di pronunciare il principio di diritto applicabile nell'interesse della legge ai sensi dell'art. 363, terzo comma, c.p.c..

La questione

Il principio di diritto in questione prevede la possibilità di proporre dinanzi al giudice collegiale, già investito di altre questioni relative a una crisi familiare, anche l'istanza di adozione di ordini di protezione ex artt. 342-bis e 342-ter c.c.. L'art. 736-bis c.p.c., a questo riguardo, prevede la competenza del tribunale in composizione monocratica, ma ad avviso della Corte di Cassazione non si può escludere una vis actractiva in favore del tribunale in composizione collegiale che stia già regolando la crisi, in virtù dei principi del preminente interesse del minore e della concentrazione delle tutele, evitando in tal modo decisioni intempestive, contrastanti e incompatibili. Nel caso di specie, la Suprema Corte ha pronunciato d'ufficio il principio di diritto nell'interesse della legge ai sensi dell'art. 363, terzo comma, c.p.c. ritenendo la questione di particolare importanza. Ha dichiarato tuttavia inammissibile il ricorso incidentale che la contempla, poiché il decreto che dispone gli ordini di protezione è solo reclamabile ex art. 736-bis, quarto comma, c.p.c., ma non ricorribile per cassazione.

Le soluzioni giuridiche

L'art. 736-bis, primo comma, c.p.c. prevede la necessaria composizione monocratica del tribunale competente per l'adozione degli ordini di protezione. Il quarto comma della stessa norma riconosce la possibilità di proporre reclamo avverso il decreto. A questo riguardo, la proposizione del ricorso incidentale nel caso di specie ha sottoposto all'attenzione della Corte due rilevanti questioni giuridiche, tra loro interconnesse ed entrambe ricollegate all'articolo richiamato.

La prima, pregiudiziale, concerne l'ammissibilità del ricorso per cassazione avverso il decreto che conferma in sede di reclamo, ai sensi dell'art. 736-bis, quarto comma, c.p.c., l'ordine di protezione adottato dal tribunale ai sensi del primo comma della stessa norma. Tale quarto comma ne esclude espressamente l'impugnabilità tramite gli ordinari mezzi di impugnazione. La ricorrente incidentale, tuttavia, invoca la possibilità di esperire il c.d. «ricorso straordinario» innanzi alla Corte di Cassazione ai sensi dell'art. 111, settimo comma, Cost., che prevede la ricorribilità per cassazione di tutti i provvedimenti incidenti sulla libertà personale pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali. Ad avviso della Suprema Corte, invece, tale strumento non sarebbe attivabile con riferimento al decreto che dispone in sede di reclamo sugli ordini di protezione, poiché tale pronuncia difetterebbe dei requisiti della decisorietà e della definitività, necessari per proporre il rimedio previsto dall'art. 111, settimo comma, Cost.. Tale statuizione, infatti è «sempre modificabile e riproponibile al giudice di merito».

Alla luce di tale considerazioni, la Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso incidentale, ma decide al contempo di esercitare d'ufficio il potere di pronunciare il principio di diritto nell'interesse della legge, ravvisando nel caso di specie la sussistenza di una questione giuridica di particolare importanza.

In particolare, ad avviso della Prima Sezione, la riserva di giudizio monocratico prevista dall'art. 736-bis c.p.c., trova applicazione qualora l'istanza di protezione sia avanzata in via principale, non qualora sia invece presentata «nell'ambito di un più ampio conflitto familiare teso a definire anche questioni che sono riservate alla competenza del giudice collegiale». Nel caso di specie, ad esempio, innanzi al tribunale in composizione collegiale era stato già incardinato un processo relativo ad altri aspetti della crisi del rapporto familiare, quali l'affidamento, il mantenimento e le modalità di visita. Imporre in simili ipotesi un doppio binario di attribuzione sarebbe dunque «antieconomico ed irrazionale». Ad avviso della Suprema Corte, quindi, non si può limitare il potere del giudice collegiale di conoscere anche delle istanze di relative agli ordini di protezione. Alla luce di tali considerazioni, la Prima Sezione enuncia il principio di diritto secondo il quale l'attribuzione al tribunale in composizione monocratica, in simili ipotesi, «non esclude la vis actractiva del tribunale in composizione collegiale chiamato ad arbitrare il conflitto familiare che sia stato già incardinato avanti ad esso, atteso che una diversa opzione ermeneutica, facente leva sul solo tenore letterale delle citate disposizioni, ne tradirebbe la ratio, che è quella di attuare, nei limiti previsti, la concentrazione delle tutele ed evitare, a garanzia del preminente interesse del minore che sia incolpevolmente coinvolto, o del coniuge debole che esige una tutela urgente, il rischio di decisioni intempestive o contrastanti ed incompatibili con gli accertamenti resi da organi giudiziali diversi».

Osservazioni

L'istituto degli ordini di protezione avverso gli abusi familiari ha origini anglosassoni ed è stato introdotto in Italia con la l. 4 aprile 2001, n. 154, che ha contemplato, oltre a una tutela sul piano penale, anche una tutela civile, per il tramite dei nuovi artt. 342-bis c.c., 342-ter c.c. e 736-bis c.p.c.. Come evidenziato in dottrina, le disposizioni riconoscono in modo innovativo una tutela generale per tutti i soggetti deboli all'interno dei rapporti familiari (non solo i figli) e una nozione ampia di abuso, riferibile anche a comportamenti non costituenti reato (G. Basilico, Profili processuali degli ordini di protezione familiare,in Rivista di Diritto Processuale, 2011, p. 1116 ss.). A fronte di comportamenti illeciti, il giudice può ordinare la cessazione della condotta violenta, l'allontanamento dalla casa familiare e il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati abitualmente dalla vittima. Può inoltre disporre l'intervento dei servizi sociali e il pagamento di un assegno periodico a favore delle persone conviventi, che, in conseguenza dell'allontanamento del familiare, si dovessero trovare prive di mezzi economici adeguati.

Il caso di specie rappresenta un'importante ipotesi, in tema di ordini di protezione, di esercizio della funzione nomofilattica da parte delle sezioni semplici della Corte di Cassazione. La pronuncia del principio di diritto non influisce sulla fattispecie concreta all'esame della Suprema Corte, alla luce della richiamata inammissibilità del ricorso per cassazione avverso il decreto di cui all'art. 736-bis c.p.c.. Il potere in questione, tuttavia, consente alla Corte, agendo ai sensi dell'art. 363, terzo comma, c.p.c., di individuare un criterio di decisione di estremo rilievo per futuri casi analoghi o simili. Come evidenziato anche dalla Seconda Sezione con l'ordinanza n. 11185/2011, infatti, «le sezioni semplici della Corte di Cassazione, possono enunciare il principio di diritto nell'interesse della legge ai sensi dell'articolo 363 c.p.c., comma 3, su una questione ritenuta di particolare importanza, non necessariamente circoscritta alle ragioni per le quali il ricorso è stato dichiarato inammissibile, potendo invece investire tutte le ragioni di merito o processuali, che sono state fatte oggetto del giudizio di legittimità».

Nel caso di specie, in particolare, la Prima Sezione ha ritenuto l'ipotesi al suo esame di particolare importanza alla luce della frequente applicazione di casi simili nella giurisprudenza di merito, chiamata spesso a giudicare comportamenti violenti o persecutori nei rapporti familiari, accompagnati molte volte anche da clamore mediatico. La Suprema Corte, sul punto, dà piena ragione alla doglianza avanzata dalla ricorrente incidentale, secondo la quale la dichiarazione di nullità dell'ordine di protezione per violazione della regola di competenza «non si avvede dell'immanenza nel sistema del diritto di famiglia del principio della concentrazione delle tutele e della possibilità, per il giudice che tratti una qualsiasi vertenza familiare, di dare anche provvedimenti ufficiosi a tutela della condizione del figlio minore». La Corte sembra quindi indicare la necessità di superare il mero dato letterale dell'art. 736-bis, primo comma, c.p.c., laddove prevede la riserva di attribuzione al giudice monocratico, evidenziando come le regole di competenza debbano conformarsi all'esigenza di rispettare il preminente interesse del minore. Secondo i giudici di legittimità, dunque, occorre garantire una piena attuazione della ratio della norma, che risiede nell'evitare che il minore incolpevolmente coinvolto e il coniuge debole non ricevano una tutela tempestiva e idonea. La frammentazione della competenza tra il giudice monocratico e il giudice collegiale già adito per altri profili della crisi familiare, infatti, porterebbe con sé il rischio di decisioni financo in contrasto con quelle già assunte dal giudice collegiale, non assicurando una tutela adeguata ai beneficiari dell'ordine di protezione. È bene ricordare, infatti, che le misure di protezione non sono preordinate a garantire solo il coniuge vittima dell'azione violenta, ma anche il figlio, soggetto ancor più bisognoso di tutela «in quanto privo degli strumenti di elaborazione dei comportamenti propri dell'altro genitore».

Inoltre, la Corte di Cassazione osserva come la frammentazione in questione violerebbe altresì il principio di economia dei mezzi processuali, in quanto darebbe luogo a una situazione antieconomica e irrazionale. La stessa Corte di Cassazione nel 2016 si è espressa in senso conforme in un'ipotesi simile, sottolineando come occorre evitare la lettura delle disposizioni basate sul solo tenore letterale della disposizione, poiché comporterebbe il rischio di violare il principio del preminente interesse del minore e di addivenire «a decisioni contrastanti ed incompatibili, tutte temporalmente efficaci ed eseguibili, resi da due organi giudiziali diversi» (Cass., Sez. 6 – 1, ord., 19 maggio 2016, n. 10365). La Prima Sezione cita, inoltre, l'importante pronuncia della Corte Costituzionale n. 194/2015, con la quale è stato osservato in modo non dissimile come si possa ammettere un'estensione del cumulo processuale ai sensi dell'art. 38, secondo comma, disp. att. c.p.c., in forza del quale i procedimenti ex artt. 330 c.c. e 333 c.c. relativi alla condotta pregiudizievole dei genitori nei confronti del figlio, di norma di competenza del Tribunale per i minorenni, possono essere attribuiti al Tribunale ordinario qualora sia già pendente innanzi a quest'ultimo un giudizio di separazione o di divorzio. La ratio della vis actractiva, dunque, è anche in questo caso da ravvisare nella necessità di attuare la concentrazione delle tutele e garantire il principio del preminente interesse del minore.

Come evidenziato in dottrina, tale principio informa l'intera normativa a tutela del fanciullo e mira a garantire che tutte le pronunce giurisdizionali siano finalizzate a promuovere il benessere psico-fisico del minore. Ciò comporta l'impossibilità di delineare automatismi decisionali e la necessità di un approccio on a case by case basis, rappresentando una formula aperta che può essere riempita di contenuti specifici (N. Di Lorenzo, Il principio del superiore interesse del minore nel sistema di protezione del fanciullo all'interno delle relazioni famigliari, in Quaderni europei, 2015, p. 1 ss.;). A conferma di ciò non si rinviene nella normativa e nella giurisprudenza un'univoca definizione del concetto, bensì il riferimento a una clausola di carattere generale basata sulla discrezionalità interpretativa, un vero e proprio principio ispiratore dei rapporti tra la sfera pubblica e quella privata in ambito familiare (G. Ondei, I bisogni del minore fra autonomia privata e intervento giudiziario, CSM-Ufficio del Referente Distrettuale per la formazione decentrata, 18 novembre 2015, p. 16 ss.). Il principio in questione, infatti, è stato richiamato in vari contesti, con riferimento ad esempio alla sottrazione internazionale o all'affidamento del minore a coppie omosessuali, e ha fondamento sia sul piano costituzionale nazionale (su tutti nell'art. 31 Cost.), che su quello sovranazionale. A quest'ultimo riguardo, in particolare, il principio trova fondamento nella Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989, nell'art. 8 Cedu come interpretato dalla giurisprudenza europea con riferimento al concetto di «vita familiare», nell'art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, nella Convenzione europea sull'esercizio dei diritti dei minori del 1996, nonché in numerosi altri atti internazionali, tra i quali la Risoluzione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1959, n. 1386 (XIV), il reg. (CE) n. 2201/2003 (c.d. «Bruxelles II-bis») e le Linee guida del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa sulla giustizia a misura di minore del 17 novembre 2010. Tutti questi documenti hanno in comune la finalità di riconoscere ai minori una protezione speciale e specifica, in funzione della generale debolezza psico-fisica e delle specificità del caso di specie, imponendo al giudice di riconoscere la preminenza dell'interesse del minore anche rispetto ad altri interessi previsti dalla legge (v. sul tema C. Focarelli, La Convenzione di New York sui diritti del fanciullo e il concetto di «best interest of the child», in Rivista di diritto internazionale, 2010, p. 981 ss.; L. Mari, L'interesse superiore del minore nel quadro dello spazio giuridico europeo, in Studi urbinati di scienze giuridiche, politiche ed economiche, 2012, p. 99 ss.).

Il principio del preminente interesse del minore rappresenta dunque un criterio interpretativo che informa sia la normativa sostanziale che quella processuale, sul piano nazionale e internazionale, e che configura un necessario riferimento per il giudice, consentendogli di indirizzare la valutazione discrezionale e di risolvere conflitti tra valori. Un riscontro applicativo di ciò è rinvenibile, ad esempio, proprio nel caso di specie, nel quale l'interesse al rispetto del mero tenore letterale della norma viene bilanciato in concreto con la ratio di protezione del minore sottesa alla norma stessa, ritenuta nella specie superiore e, pertanto, prevalente.