L'impugnazione del lodo per errori di diritto e la “riscritta” disciplina transitoria

Fabio Antezza
07 Dicembre 2016

Le tre note sentenze delle S.U. Cass. civ. del 9 maggio 2016, nn. 9242, 9284 e 9285, sono intervenute sul regime transitorio relativo all'impugnazione del lodo rituale per errori di diritto. L'Autore, ripercorrendo l'acceso il dibattito in merito alla questione di diritto, coglie spunti di riflessione per un approccio alternativo tale da evitare una “riscrittura pretoria” della norma transitoria, tenendo conto dei profili inerenti la natura retroattiva di essa, la sua “compatibilità costituzionale” e “convenzionale”, oltre che i possibili esiti di una eventuale questione di legittimità costituzionale e le ripercussioni dell'adesione all'una o all'altra teoria.
La questione

Con tre ordinanze interlocutorie, depositate nel mese di dicembre dell'anno 2015, la sez. I della Suprema Corte rimette i rispettivi ricorsi al Primo Presidente affinché sia valutata l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della questione di diritto in quanto oggetto di contrastanti decisioni delle sezioni semplici (Cfr., Cass. sez I, 11 dicembre 2015, nn. 25039 e 25040; Cass. sez. I, 21 dicembre 2015, n. 25662).

Trattasi, in particolare, della questione relativa all'applicabilità dell'art. 829, comma 3, c.p.c., nel testo introdotto dal d.lgs. n. 40 del 2 febbraio 2006, laddove sancisce che l'impugnazione del lodo per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia è ammessa se espressamente disposta dalle parti o dalla legge, ai procedimenti arbitrali promossi successivamente alla sua entrata in vigore (2 marzo 2006) ma la cui convenzione arbitrale sia stata stipulata in data anteriore.

Il contrasto verteva, dunque, sull'interpretazione e sulla portata della disciplina transitoria esplicitamente prevista dall'art. 27, commi 3 e 4, d.lgs. n. 40/ 2006 (di riforma dell'arbitrato) la quale distingue le norme introdotte dall'art. 20 d.lgs. n. 40 del 2006, relative alla convenzione di arbitrato, da quelle di cui agli artt. 21, 22, 23, 24 e 25, inerenti il giudizio arbitrale ed in particolare anche il novellato art. 829 c.p.c.

Le norme appartenenti al primo gruppo, ai sensi del detto art. 27, comma 3, in particolare, si applicano alle convenzioni di arbitrato stipulate dopo l'entrata in vigore della riforma della disciplina dell'arbitrato del 2006, mente le norme appartenenti al secondo gruppo si applicano, come recita al quarto comma il medesimo articolo, «ai procedimenti arbitrali nei quali la domanda di arbitrato è stata promossa successivamente alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 40 del 2006».

Rileva la questione in esame in quanto, con riferimento all'arbitrato rituale, ante d.lgs. n. 40/2006, valeva la regola, stabilita dall'art. 829, comma 2, c.p.c., dell'ammissibilità dell'impugnazione del lodo, per violazione di norme di diritto, a condizione che le parti non avessero autorizzato gli arbitri a pronunciare secondo equità e non avessero dichiarato il lodo non impugnabile. Il novellato testo dell'articolo citato dispone, ora, al comma 3, che l'impugnazione per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia è ammessa solo se espressamente disposta dalle parti o dalla legge, così invertendo il precedente rapporto tra regola ed eccezione.

In forza del rinvio all'art. 829, comma 2, c.p.c., operato dall'art. 36, d.lgs. n. 5 del 17 gennaio 2003, la questione di cui innanzi opera anche con riferimento ai procedimenti arbitrali da clausole compromissorie statutarie (c.d. arbitrati societari), costituendo oggetto di una delle tre ordinanze interlocutorie(Cfr., Cass., sez. I, n. 25040/2015, cit.).

Il 9 maggio 2016 le S.U. si pronunciano in merito alla questione di diritto di cui innanzi, statuendo che in tema di impugnazione per nullità del lodo rituale, in applicazione della disciplina transitoria dettata dall'art. 27 d.lgs. n. 40/2006, l'art. 829, comma 3, c.p.c., come riformulato dall'art. 24 d.lgs. n. 40/2006, si applica nei giudizi arbitrali promossi dopo l'entrata in vigore del suddetto decreto, ancorché fondati su convenzioni arbitrali antecedenti (Cfr., Cass., Sez. Un, 9 maggio 2016, sent. n. 9284; Cass., Sez. Un., 9 maggio 2016, sent., n. 9285; Cass., Sez. Un., 9 maggio 2016, sent. n. 9342). La legge cui lo stesso comma 3 rinvia, per stabilire se sia ammessa l'impugnazione per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia, precisa la S.C., è quella, diversa dal art. 829, comma 3, c.p.c., vigente al momento della stipulazione della convenzione d'arbitrato da essa disciplinata. Ne consegue che, sempre per il Supremo consesso, nel caso di convenzione d'arbitrato (nella specie c.d. “di diritto comune”) stipulata prima della detta data, la legge di rinvio è l'art. 829, comma 2, c.p.c., antecedente alla sua riformulazione attuata con il citato art. 24 d.lgs. n. 40/2006, che ammetteva l'impugnazione dei lodi, per gli indicati motivi di diritto, nel silenzio delle parti e salvo che le stesse avessero autorizzato gli arbitri a giudicare secondo equità o avessero dichiarato il lodo non impugnabile.

Sempre in applicazione del suddetto principio, le S.U. chiariscono che nel caso di arbitrato da clausola compromissoria statutaria (c.d. arbitrato societario), la legge di rinvio è l'art. 36 del d.lgs. n. 5/2003, il quale espressamente ammette l'impugnazione dei lodi, per gli indicati motivi di diritto, quando gli arbitri, per decidere, abbiano conosciuto di questioni non compromettibili ovvero quando l'oggetto del giudizio sia costituito dalla validità delle delibere assembleari.

La tesi del "vecchio regime"

L'orientamento di legittimità per il quale l'art. 829, comma 3, c.p.c., così come introdotto dall'art. 24 d.lgs. n. 40/2006, non è applicabile ai procedimenti arbitrali promossi successivamente all'entrata in vigore della riforma dell'arbitrato se fondati su clausole arbitrali antecedenti ad essa, si basa su un'interpretazione costituzionalmente orientata della norma transitoria di cui all'art. 27, comma 4, del d.lgs. n. 40/2006 (così facendo proprie, sviluppandole ulteriormente, prospettazioni della dottrina che si occupata della questione).

Tale orientamento è inaugurato da Cass. sez. I, del 19 aprile 2012, sent. n. 6148, antecedente alla svolta circa la natura giurisdizionale dell'arbitrato intervenuta nel 2013, alla cui motivazione fanno esplicito rinvio le altre sentenze di legittimità che sposano il medesimo orientamento.

Per Cass., sez. I, n. 6148/2012, le modifiche apportate all'art. 829 c.p.c. dalla legge di riforma di cui al d.lgs. n. 40/2006 sono volte a delimitare l'ambito d'impugnazione del lodo arbitrale, laddove le convenzioni concluse prima della sua entrata in vigore continuano ad essere regolate dalla legge previgente, che disponeva l'impugnabilità del lodo per violazione della legge sostanziale, salva diversa previsione pattizia. In difetto di una disposizione che ne sancisca la nullità o che obblighi le parti ad adeguarle al nuovo modello, la salvezza di tali convenzioni deve ritenersi insita nel sistema, pur in difetto di un'esplicita previsione della norma transitoria.

Sicché, la regola della impugnabilità nel merito del lodo per violazione delle regole di diritto, solo se espressamente pattuita dalle parti o dalla legge, come prevista dal riformato art. 829, comma 3, c.p.c., non sarebbe immediatamente applicabile agli arbitrati introdotti in data successiva all'entrata in vigore del d.lgs. n. 40 del 2006, se fondati su convenzioni arbitrali anteriormente stipulate, dovendo le relative condizioni di efficacia restare disciplinate, ai sensi dell'art. 11 delle preleggi, dalla legge in vigore al momento di adozione dell'atto negoziale cui accedono, pena la violazione degli artt. 3 e 24 Cost..

La tesi del nuovo regime

IL contrapposto orientamento di legittimità, invece, ritiene applicabile il “nuovo regime” impugnatorio basandosi sull'interpretazione letterale della norma transitoria di cui all'art. 27, comma 4, d.lgs. n. 40/2006, il cui disposto è ritenuto “chiarissimo”.

Tale interpretazione sarebbe anche conforme ad una lettura logico-sistematica, teleologica e storica della norma, ritenendola, peraltro, conforme a Costituzione ed a “Convenzione” ed alla natura giurisdizionale e non negoziale del lodo rituale e del relativo procedimento arbitrale.

L'orientamento interpretativo in esame è inaugurato da Cass., sez. I, n. 2400/2012, in materia di c.d. arbitrato societario, che è seguita, tra le altre, da Cass., 17 settembre 2013, n. 21205 ordinanza sez. VI-I. Il detto orientamento sembra altresì fatto proprio da due delle ordinanze di rimessione della questione di diritto al Primo Presidente della S.C., innanzi citate, ed in particolare da Cass., sez. I, 11 dicembre 2015 nn. 25039 e 25040 (la seconda in materia di c.d. arbitrato societario).

Cass., sez. I, n. 25039/2015, in particolare,chiarisce che l'indirizzo interpretativo espresso da Cass., sez. I, n. 6148/2012, è tutto incentrato sulla necessità di salvaguardare l'efficacia di un atto negoziale. Il riferimento è al “patto compromissorio” che, in quanto manifestazione della volontà delle parti, deve essere disciplinato dalla legge in vigore al momento della sua adozione, risultando pertanto insensibile alle modificazioni legislative successive.

Tale soluzione, prosegue l'ordinanza interlocutoria, è pienamente coerente con la giurisprudenza della S.C. elaborata sulla scia del noto arresto delle sez. un. del 2000 circa la natura di atto di autonomia privata del lodo rituale e, quindi, del relativo procedimento arbitrale.

Le stesse S.U., tuttavia, come evidenzia l'ordinanza interlocutoria, con consapevole e meditato “overruling”, hanno mutato decisamente giurisprudenza, con l'altrettanto noto arresto del 2013, circa la natura giurisdizionale del lodo rituale e, quindi, del relativo arbitrato, perciò successivo alla menzionata sentenza n. 6148/2012 (Cfr., Cass., Sez. Un., 25 ottobre 2013, n. 24153).

Equivalendo l'attività svolta dagli arbitri ad un vero e proprio giudizio, prosegue l'ordinanza interlocutoria, l'applicazione delle regole processuali che concernono il loro giudizio non può che essere svolto tenendo conto del diritto processuale vigente al momento dell'atto di accesso agli arbitri, costituente la domanda introduttiva di quel giudizio, divenendo del tutto irrilevante il fatto che il patto compromissorio avesse tenuto presente un diverso diritto processuale (quello del tempo dell'accordo).

Il medesimo percorso argomentativo caratterizza l'ordinanza interlocutoria emessa da Cass., sez. I, n. 25040/2015 con riferimento all'arbitrato da clausola compromissoria statutaria (c.d. arbitrato societario).

In conclusione

Il contrasto interpretativo, ancorché denunciato con riferimento alla citata norma transitoria di cui all'art. 27 d.lgs. n. 40/2006, per le Sezioni Unite deve trovare la sua risoluzione nell'interpretazione del riformato art. 829, comma 3, c.p.c., essendo indiscutibile la portata della detta norma transitoria di cui al citato art. 27 d.lgs. n. 40/2006 nel senso di rendere applicabile il nuovo regime impugnatorio per errores in iudicando ai soli arbitrasti azionati successivamente all'entrata in vigore della riforme del 2006 ancorché fondanti su convenzioni arbitrali stipulate antecedentemente a tale data.

La statuizione di cui innanzi, circa l'applicabilità del “nuovo regime” impugnatorio anche con riferimento a convenzioni arbitrali anteriori alla riforma del 2006, coglie le ragioni del contrasto e, muovendo da essa, la S.C. ben avrebbe potuto affermare principi condivisibili tali da risolverlo effettivamente e definitivamente (nell'uno o nell'altro senso). Sarebbero state così poste le necessarie premesse per evitare futuri ulteriori contrasti, di plausibile prospettazione, in ragione dell'iter argomentativo adottato e della conseguente soluzione concreta, tale da “abrogare” la norma transitoria prevista dal legislatore delegato sostanzialmente sostituendo ad essa una norma transitoria di portata opposta, identificandola nello stesso riformato comma 3 dell'art. 829 c.p.c..

Premesso quanto innanzi chiarito, le S.U. evidenziano, difatti, che la “legge”, alla quale il riformato art. 829, comma 3, c.p.c., fa riferimento al fine di rendere ammissibile l'impugnazione del lodo per i detti motivi di diritto, deve necessariamente essere differente dallo stesso citato comma 3, il quale ammette l'impugnazione del lodo per i detti motivi nel caso di espressa previsione delle parti o della legge. Deve altresì trattarsi della legge che disciplina la convenzione d'arbitrato, in quanto essa definisce, anche per volontà delle parti, i limiti di impugnabilità del loto, vigente nel momento in cui la convenzione viene stipulata, in quanto è solo la legge vigente il quel momento che può ascrivere al silenzio delle parti un significato normativamente predeterminato.

Con il chiarimento di cui innanzi le S.U., nella sostanza, privano di efficacia, sostanzialmente riscrivendola, la norma transitoria di cui all'art. 27, comma 4, d.lgs. n. 40/2006, che, invece per stessa statuizione delle citate S.U., implicherebbe l'applicazione del “vecchio regime” impugnatorio anche nel caso di convenzioni antecedenti alla riforma.

Non si considera altresì che, comunque, il nuovo art. 829 comma 3, c.p.c. fa riferimento, circa il regime impugnatorio, sia all'espressa volontà delle parti sia a disposizione di legge e che, quindi, per quest'ultima deve farsi riferimento ad espressa previsione legislativa di impugnabilità per errores in iudicando, quale potrebbe essere in ipotesi l'art. 36 del d.lgs. n. 5/2003 per il c.d. arbitrato societario, e non alla legge che disciplina e regola la convenzione arbitrale quale frutto della volontà delle parti, altrimenti si interpreterebbe la norma nel senso di farle prevedere un'inutile duplicazione di riferimenti.

Le S.U. argomentano la statuizione di cui innanzi muovendo dall'assunto in forza del quale il silenzio è comportamento di per sé neutro, potendo quindi solo il contesto normativo preesistente attribuirgli un particolare significato, ed ambiguo, potendo assumere un significato convenzionale solo in ragione del contesto, anche normativo, proprio del luogo e del momento dell'azione.

I dubbi che l'iter argomentativo delle S.U. potrebbe suscitare sembrerebbero avvalorati ed amplificati proprio dalla valutazione del comportamento silente delle parti di cui innanzi.

In primo luogo, la S.C., nell'affermare quanto innanzi evidenziato, fa esplicito riferimento all'art. 1368, comma 2, c.c. che, però, prevede un criterio di interpretazione di clausole ambigue. Circostanza, quest'ultima, non sussistente nel caso che ci occupa, non essendovi ambiguità circa gli effetti negoziali del silenzio delle parti, sia antecedentemente che successivamente alla riforma del 2006, ma dubbi solo in ordine alla portata della norma transitoria in esame, con conseguente maggiore eventuale pertinente richiamo dell' art. 1339 c.c. ed all'applicazione con riferimento ai contratti di durata o ad esecuzione differita in termini di sopravvenuta inefficacia della “tacita clausola di impugnabilità” e sua sostituzione con la “clausola di non impugnabilità”, come argomentato nei paragrafi successivi.

Le stesse S.U., quale motivazione delle dette considerazioni in merito al “silenzio” delle parti, citano poi esplicitamente precedenti di legittimità inerenti valutazione e portata negoziale o “probatoria” di un comportamento silente. Nel caso di specie, però, trattasi di valutazioni e di portata del silenzio non in discussione, determinando esso l'applicabilità di uno dei due regimi di impugnazione a seconda del momento di proposizione della domanda arbitrale, rilevando invece l'interpretazione della norma transitoria, l'eventuale portata retroattiva della stessa e, nel caso di ritenuta retroattività, la compatibilità di essa con i principi costituzionali.

In secondo luogo, sempre a detta delle S.U., il silenzio potrebbe assumere un significato convenzionale, del quale, comunque, nel caso che ci occupa non si discute per quanto già innanzi evidenziato, solo in ragione del contesto anche normativo proprio del luogo e del momento dell'azione. La stessa S.C., benché con riferimento al significato negoziale da attribuire al consenso non rilevante al fine di risolvere il quesito di diritto, fa quindi esplicito riferimento al “momento dell'azione” che, però, con riferimento al procedimento arbitrale, coincide con la proposizione della domanda arbitrale.

È certo possibile, precisano le S.U., che una legge sopravvenuta privi di effetti una determinata convenzione contrattuale, ammessa nel momento in cui fu stipulata, sicché si è ritenuto che il divieto di arbitrato previsto dall'art. 3, comma 2, del d.l. 11 giugno 1998, n. 189 (conv. in l. 3 agosto 1998 n. 267) per le controversie relative all'esecuzione delle opere pubbliche comprese in programmi di ricostruzione di territori colpiti da calamità naturali, comporti l'inefficacia per il futuro delle clausole compromissorie già stipulate. Non sarebbe possibile invece che una norma sopravvenuta ascriva al silenzio delle parti un significato convenzionale che le vincoli per il futuro in termini diversi da quelli definiti dalla legge vigente al momento della conclusione del contratto.

Con tale ultima argomentazione la S.C. sembra ritornare sulla questione alla stessa rimessa ma senza esplicitare se l'impossibilità di cui innanzi sia riconducibile alla natura non retroattiva della norma transitoria, alla sua interpretazione costituzionalmente orientata ovvero se, data la natura retroattiva della norma, necessiterebbe un sindacato da parte della Consulta.

La circostanza per la quale le S.U. sembrino ora rievocare la portata della norma transitoria, ancorché sostanzialmente riscrivendola e dandole una portata diametralmente opposta nei termini di cui innanzi, sembrerebbe confermata dalle ulteriori sue argomentazioni.

La S.C., in particolare, precisa che la ricostruzione del paradigma normativo, come innanzi sintetizzata, è conforme alla stessa disciplina transitoria di cui ai commi 3 e 4 dell'art. 27 del. D.lgs. n. 40/2006, i quali difatti distinguono tra norme disciplinanti le convenzioni e norme disciplinanti il giudizio di arbitrato. E poiché è la convenzione a definire i limiti di impugnabilità dei lodi è alle norme che la disciplinano nel momento della stipulazione che occorre richiamarsi. Così concludendo le S.U. sembrerebbero però riscrivere la norma transitoria di cui al citato comma 4, che, invece, loro stesse interpretano nel senso dell'applicabilità del “nuovo regime” impugnatorio anche in caso di convenzioni arbitrali antecedenti alla riforma del 2006.

Nella prospettiva di cui innanzi, sempre a detta delle S.U, non assumerebbe rilievo il mutamento di giurisprudenza intervenuto nel 2013, con il riconoscimento della natura giurisdizionale e non negoziale dell'arbitrato rituale. La natura processuale dell'attività degli arbitri, infatti, non esclude che sia pur sempre la convenzione di arbitrato a determinare i limiti di impugnabilità dei lodi; mentre la presenza di un'esplicita disciplina transitoria priva di rilevanza esclusiva il riferimento alla natura processuale per risolvere le questioni di diritto intertemporale.

La S.C., quindi, evoca nuovamente la specifica disciplina transitoria dettata dall'art. 27, comma 4. D.lgs. n. 40/2006, da lei interpretato nel senso dell'applicabilità del “nuovo regime” impugnatorio anche alle convenzioni arbitrali antecedenti alla riforma, per escludere che la natura giurisdizionale del lodo rituale e quindi del relativo arbitrato possa rilevare ai fini dell'interpretazione della detta norma transitoria nel senso dell'applicabilità del nuovo regime. Non si considerano però le diverse implicazioni della natura giurisdizionale dell'arbitrato circa la valenza di presupposto processuale della convenzione di arbitrato, nei termini esplicitati nei successivi paragrafi.

Con specifico riferimento al c.d. arbitrato societario, infine, le S.U. chiariscono che la norma di cui all'art. 36 del d.lgs. n. 5/2003 è certamente in rapporto di specialità con l'art. 829 c.p.c. ma il fatto che vi faccia esplicito riferimento pone il problema della natura del rinvio. Si è molto discusso in ordine al se il detto rinvio debba intendersi riferito alla sopravvenuta nuova versione della norma richiamata ma per le S.U. è indiscutibile che il legislatore abbia inteso escludere la possibilità delle parti di rinunciare all'impugnabilità del lodo per errores in iudicando, in particolare quando oggetto della controversia sia la validità di una delibera assembleare.

In questa prospettiva, precisa la S.C., non ha alcuna rilevanza se il rinvio all'art. 829 c.p.c. debba essere inteso in senso materiale, al precedente testo (come indurrebbe a ritenere il riferimento al secondo comma, che solo in quel testo disciplinava l'impugnazione del lodo), o in senso formale, al nuovo testo della norma richiamata. Nel rapporto con il vecchio testo dell'art. 829 c.p.c., infatti, il citato art. 36 d.lgs. n. 5/2003 ha una portata inequivocabilmente derogatoria, imponendo comunque la pronuncia secondo diritto, e dunque l'impugnabilità del lodo per errores in iudicando anche contro l'originaria volontà delle parti, quando per decidere si sia conosciuto di questioni non compromettibili ovvero quando l'oggetto del giudizio sia costituito dalla validità di delibere assembleari.

Quest'ultima condivisibile argomentazione sembrerebbe confermare i dubbi in merito al percorso argomentativo innanzi prospettati circa la necessità di non identificare il riferimento che il nuovo art. 829, comma 3, c.p.c. fa all'impugnabilità per errores in iudicando in forza di specifica previsione di legge, quale effettivamente potrebbe essere l'art. 36 citato con riferimento al c.d. arbitrato societario, con la legge che attribuisce effetti alla volontà delle parti circa il regime impugnatorio, alla quale pure fa riferimento il detto riformato art. 829, comma 3, c.p.c..

Premessa la disamina dell'iter motivazionale delle tre sentenze delle S.U., quale spunto di riflessione, si prospetta un possibile alternativo approccio alla risoluzione della questione.

Previa analisi del quadro normativo di riferimento, anche alla luce della ratio degli interventi legislativi in materia di arbitrato, a partire dal codice di rito del Regno d'Italia del 1865 fino ai recenti disegni di legge delega per nuove riforme, si potrebbe interpretare la norma transitoria in esame e verificare se essa sia suscettibile di interpretazione, in ipotesi “costituzionalmente” e “convenzionalmente” “orientata”, anche alla luce del “diritto di accesso al giudice” ex art. 24 Cost e 6 CEDU, tale da escludere l'applicabilità del “nuovo regime” impugnatorio ai procedimenti arbitrali azionati dopo la riforma del 2006 ma in forza di convenzioni arbitrali antecedenti.

All'esito dell'interpretazione della norma transitoria, non solo letterale e logico-sistematica ma anche teleologica e storica, si potrebbe verificare la sua eventuale efficacia retroattiva – processuale o sostanziale –, la “compatibilità costituzionale e convenzionale” di essa, se considerata retroattiva, nonché analizzare, nell'ipotesi di criticità costituzionali, l'annesso profilo dell'ammissibilità di un'eventuale questione di legittimità costituzionale. Trattandosi, difatti, di ambito, quello del diritto transitorio, nel quale la discrezionalità del legislatore è ampia, in quanto limitata solo da ragionevolezza costituzionale, si potrebbe rischiare di sollecitare alla Consulta un intervento additivo-manipolativo, di tipo “creativo”, tale da sostituirsi al legislatore in possibili scelte discrezionali (con conseguente verosimile manifesta inammissibilità).

Si potrebbe infine analizzare taluni possibili riflessi sulla disciplina del riformato procedimento arbitrale, dell'eventuale adesione alla tesi del “vecchio regime” impugnatorio, circa altre norme comunque aventi un fondamento nella volontà pattizia e rette dalla medesima norma transitoria, oltre che possibili profili problematici della questione di diritto in esame anche con riferimento all'arbitrato da clausola compromissoria statutaria (c.d. arbitrato societario), in forza del rinvio all'art. 829 c.p.c. operato dall'art. 36 d.lgs. n. 5/2003.

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