La revocazione della sentenza per dolo della parte

Giuseppe Buffone
10 Giugno 2016

Che si tratti di vizio della sentenza o di ingiustizia della decisione, la revocazione è strumento idoneo a provocare una revisione del processo, attraverso due fasi: una prima fase (rescindente) si conclude con una pronuncia che accerta o nega la sussistenza del vizio; una seconda fase (rescissoria), segue all'accertata presenza del vizio revocatorio e ha la finalità di sostituire la pronuncia «giusta» in luogo di quella viziata. Il primo motivo previsto dalla legge a fondamento delle istanze revocatorie, è la condotta dolosa di una delle parti ai danni dell'altra.
Il quadro normativo

La revocazione è uno dei mezzi di impugnazione previsto dal codice di rito che ha ad oggetto le sentenze pronunciate in grado di appello, in unico grado o all'esito del giudizio di Cassazione (art. 391-bis c.p.c.). La revocazione è ammessa contro le decisioni non ancora passate in giudicato o, eccezionalmente, contro quelle per cui non sono più esperibili i mezzi ordinari di impugnazione (cd. revocazione straordinaria). In particolare, ai sensi dell'art. 395 comma 1 n. 1 c.p.c., le sentenze pronunciate in grado di appello o in unico grado possono essere impugnate per revocazione «se sono l'effetto del dolo di una delle parti in danno dell'altra». In questo caso, l'impugnazione per revocazione può essere promossa anche avverso le sentenze per le quali è scaduto il termine per l'appello purché la scoperta del dolo sia avvenuta dopo la scadenza del termine suddetto (art. 396, comma 1 c.p.c.). Se la scoperta del dolo avviene durante il corso del termine per l'appello, il termine stesso è prorogato dal giorno dell'avvenimento in modo da raggiungere i trenta giorni da esso (art. 396, comma 2, c.p.c.). Il dolo processuale di una delle parti in danno dell'altra in tanto può costituire motivo di revocazione della sentenza, in quanto consista in un'attività deliberatamente fraudolenta (Cass. civ., sez. U.,6 settembre 1990 n. 9213), concretantesi in artifici o raggiri tali da paralizzare o sviare la difesa avversaria ed impedire al giudice l'accertamento della verità, facendo apparire una situazione diversa da quella reale (Cass. civ.,sez. lav., 7 giugno 2014 n. 12875). Di conseguenza, non sono idonei a realizzare la fattispecie descritta la semplice allegazione di fatti non veritieri favorevoli alla propria tesi, il silenzio su fatti decisivi della controversia o la mancata produzione di documenti, che possono configurare comportamenti censurabili sotto il diverso profilo della lealtà e correttezza processuale, ma non pregiudicano il diritto di difesa della controparte, la quale resta pienamente libera di avvalersi dei mezzi offerti dall'ordinamento al fine di pervenire all'accertamento della verità (Cass. civ., sez. lav., 11 novembre 2009 n. 23866 e Cass. civ., n. 4936 del 2010). Per integrare la fattispecie del dolo processuale revocatorio ai sensi dell'art. 395 c.p.c., n. 1, non è, dunque, sufficiente la sola violazione dell'obbligo di lealtà e probità previsto dall'art. 88 c.p.c., né, in linea di massima, sono di per sé sufficienti il mendacio, le false allegazioni o le reticenze, ma si richiede un'attività intenzionalmente fraudolenta che si concretizzi in artifici o raggiri idonei a paralizzare la difesa avversaria e a impedire al giudice l'accertamento della verità. (Cass. civ.,sez. lav., 26 gennaio 2004 n. 1369). Giova ricordare, tuttavia, come taluni (sia in dottrina che giurisprudenza) ammettano ai fini della revocazione anche il dolo meramente omissivo con orientamento da ritenersi, però, non condivisibile: infatti, il dolo revocatorio deve consistere in un quid pluris rispetto alla mera omissione.

Autorevolmente la Dottrina adduce l'esempio dell'accordo concluso tra parte costituita e parte contumace, in virtù del quale la prima dovrebbe abbandonare il processo e, invece, lo prosegue fino a sentenza (Luiso). Nel solco di questo indirizzo, propenso a richiedere un comportamento doloso dinamico, si collocano quelle pronunce che, ad esempio, hanno escluso la revocabilità della sentenza di separazione su ricorso del marito al quale era stata taciuta, dalla moglie, la nuova relazione sentimentale: quanto aveva inciso, secondo il ricorrente, sulla misura dell'assegno di mantenimento stabilito dal giudice. La Cassazione, in questo caso, ha escluso che in ipotesi del genere possa trovare spazio l'istituto della revocazione anche perché i fatti non conosciuti (incolpevolmente) dall'onerato, nel procedimento di famiglia, se tali da giustificare una revisione delle condizioni di separazione o divorzio, possono essere fatti valere con apposita istanza di modifica ex art. 710 c.p.c. o art. 9 l. 898/70 (Cass. civ., sent., sez. I, 10 aprile 2012 n. 5648). È bene rievocare, ciò nondimeno, le pur presenti (e risalenti) aperture della Suprema Corte in favore della condotta non commissiva, nel senso della possibilità, anche per il comportamento omissivo – sub specie di silenzio – di integrare gli estremi del dolo processuale revocatorio. Si tratta, però, di aperture che non in contrasto con l'orientamento sin qui illustrato: in questi arresti, infatti, si afferma che anche il silenzio su fatti decisivi può integrare gli estremi del dolo processuale revocatorio, rilevante ai fini ed agli effetti di cui all'art. 395, comma 1, numero 1), c.p.c. ma «a condizione che esso costituisca elemento essenziale di una macchinazione fraudolenta diretta a trarre in inganno la controparte e idonea, in relazione alle circostanze, a sviarne o pregiudicarne la difesa e a impedire al giudice l'accertamento della verità» (Cass. civ., sez. III, 15 novembre 2013 n. 25761).

Decorrenza del termine per l'impugnazione

Nell'ipotesi di revocazione di sentenza per dolo di una parte in danno dell'altra, ex art. 395, comma 1, n. 1, c.p.c., il termine perentorio per proporla, di trenta giorni, decorre, ai sensi dell'art. 326 c.p.c., dalla scoperta del dolo, benché debba trattarsi di scoperta effettiva e completa, riconoscibile solo quando si sia acquisita la ragionevole certezza - non essendo sufficiente il mero sospetto - che il dolo vi sia stato ed abbia ingannato il giudice, fino a determinarne statuizioni diverse da quelle che sarebbero state adottate a conclusione di un dibattito corretto (v. Cass. civ., sez. III, 27 febbraio 2004 n. 4008; Cass. civ., sez. I, 14 maggio 1990 n. 4123). Questa giurisprudenza è stata pure di recente confermata da Cass. civ., sez. I, 16 febbraio 2016 n. 2989, in un caso in cui il creditore aveva presentato domanda di revocazione contro la sentenza pronunciata per effetto di collusione fra il debitore e un terzo.

Revocazione per dolo processuale e provvedimenti diversi dalle sentenze

La Corte costituzionale (C. Cost., 20 febbraio 1995, n. 51) ha dichiarato la illegittimità costituzionale del numero 1) dell'art. 395 c.p.c., nella parte in cui non prevede la revocazione avverso i provvedimenti di convalida di sfratto per morosità che siano l'effetto del dolo di una delle parti in danno dell'altra. La Consulta ha giustificato la pronuncia additiva evidenziando il contenuto decisorio del provvedimento che consegue alla convalida dello sfratto, la sua efficacia esecutiva, l'attitudine a produrre effetti di cosa giudicata e la rilevanza delle situazioni su cui esso è destinato ad incidere immediatamente: elementi che, a parere della Corte delle leggi, non giustificano una minore tutela.

In conclusione

Il dolo della parte rilevante ai fini della revocazione della sentenza ai sensi dell'art. 395, n.1, c.p.c., deve avere avuto una influenza decisiva sul convincimento del giudice, e, pertanto, si deve risolvere in un comportamento concreto, ben individuato dalla parte che lo fa valere, non potendosi identificare nel silenzio o in altri atteggiamenti simili, salvo il caso in cui il silenzio stesso costituisca elemento essenziale di una macchinazione fraudolenta diretta a trarre in inganno la controparte e idonea a impedire al giudice l'accertamento della verità. La giurisprudenza ha peraltro chiarito che non è configurabile un motivo di revocazione allorquando il comportamento asseritamente doloso della parte poteva desumersi dalla stessa lettura della sentenza di primo grado e doveva quindi essere fatto valere come motivo di appello (Cass. civ.,sez. I, 15 maggio 2013 n. 11697).

Guida all'approfondimento

Bartole, Conforti, Raimondi (a cura di), Commentario alla Convenzione per la tutela dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, Padova, 2012;

Buffone, La Revocazione in De Giovanni (a cura di), Impugnazioni e Filtro in appello, Rimini, 2013;

Mandrioli, Corso di diritto processuale civile, II, Il processo di cognizione, Torino, 2003;

Luiso, Diritto processuale civile, Milano, 2011.

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