L'impugnativa di licenziamento secondo il rito Fornero: rapporti tra la fase sommaria e il giudizio di opposizione
11 Gennaio 2017
Il quadro normativo
La legge n. 92/2012ha introdotto, come ormai noto, uno specifico procedimento per l'impugnativa del licenziamento ove si versi in una delle ipotesi contemplate dall'art. 18, l. n. 300/1970. Il carattere peculiare di questo nuovo rito sta nell'articolazione del giudizio di primo grado in due fasi: una fase a cognizione semplificata e l'altra, definita di opposizione, a cognizione piena nello stesso grado. La prima fase del procedimento si instaura mediante il deposito di un ricorso avente i requisiti previsti dall'art. 125 c.p.c – ovvero l'indicazione dell'ufficio giudiziario, delle parti, dell'oggetto, delle ragioni della domanda e delle conclusioni – ed è caratterizzata dalla mancanza di formalità: non c'è – rispetto al rito ordinario delle controversie di lavoro – il rigido meccanismo delle decadenze e delle preclusioni di cui agli artt. 414 e 416 c.p.c..; l'istruttoria, essendo limitata agli atti di istruzione indispensabili, è semplificata o sommaria, quale quella così qualificata nel procedimento di cui all'art. 702-bis c.p.c. e si conclude con un'ordinanza. La seconda fase è invece introdotta con un atto di opposizione proposto con ricorso contenente i requisiti di cui all'art. 414 c.p.c., si caratterizza per un'istruttoria a cognizione piena a mezzo di tutti gli atti di istruzione ammissibili e rilevanti e si conclude con una sentenza. Natura giuridica del procedimento
In questa cornice normativa è intervenuta, a più riprese, la Corte di Cassazione confermando il (già indiziato dalla disciplina normativa) carattere sommario della fase iniziale del primo grado, e ascrivendolo, nella volontà legislativa, ad esigenze di effettività della tutela. Non si tratta, tuttavia, di una fase cautelare in senso stretto: non occorre infatti la prova di alcun concreto periculum, essendo l'urgenza preventivamente ed astrattamente valutata dal legislatore in considerazione del tipo di controversia. Quanto all'opposizione, la Suprema Corte ha chiarito che non si tratta di una revisio prioris istantiae e che essa dunque non ha natura impugnatoria, costituendo una mera prosecuzione del giudizio di primo grado, con cognizione piena (Cass., Sez. Un., 18 settembre 2014, n. 19674). Quindi dopo una fase iniziale concentrata e deformalizzata – mirata a riconoscere, sussistendone i presupposti, al lavoratore ricorrente una tutela rapida ed immediata e ad assegnargli un vantaggio processuale (da parte ricorrente a parte eventualmente opposta), ove il fondamento della sua domanda risulti prima facie sussistere alla luce dei soli atti di istruzione indispensabili – il procedimento si riespande, nella fase dell'opposizione, alla dimensione ordinaria della cognizione piena, con accesso per le parti a tutti gli atti di istruzione ammissibili e rilevanti. Anche la Corte Costituzionale, con la sentenza del 20 maggio 2015 n. 78, ha escluso che l'opposizione possa essere equiparata ad una impugnazione, evidenziando che l'oggetto della seconda fase del rito non è circoscritto alla ricognizione degli errores in procedendo o in iudicando eventualmente commessi dal giudice della prima fase, tant'è che il giudizio di opposizione può avere anche profili soggetti e oggettivi diversi rispetto alla cognizione sommaria, attesa l'ammissibilità della chiamata in causa di terzi e della formulazione di domande nuove, eventualmente proposte in via riconvenzionale, purché fondate sui medesimi fatti costituitivi. Da queste premesse, che costituiscono indiscusso diritto vivente, discendono significative conseguenze di stampo pratico, che di seguito verranno passate sinteticamente in rassegna. Costituisce assunto pacifico quello secondo cui deve riconoscersi efficacia di giudicato sostanziale alla ordinanza conclusiva della prima fase che non venga opposta. Pur in assenza di una disposizione espressa, la natura non meramente facoltativa del nuovo rito e soprattutto la previsione di un termine perentorio per la proposizione dell'opposizione hanno infatti indotto gli interpreti a ritenere in modo pressoché unanime che l'ordinanza non oggetto di tempestiva opposizione acquisisca la stabilità propria del giudicato. Le Sezioni unite (Cass., Sez. Un., 31 luglio 2014, n. 17443) hanno motivato tale conclusione evidenziando innanzitutto le analogie tra il procedimento ex art. 28, Legge n. 300/1970, in tema di repressione della condotta antisindacale – che per l'appunto si conclude con un decreto che chiude la fase sommaria e che, in difetto di opposizione, produce effetti sostanziali di carattere definitivo - e quello previsto dalla legge Fornero. In altra pronuncia, le Sezione Unite hanno poi rilevato che l'idoneità al giudicato, pur espressamente prevista solo per la sentenza resa all'esito dell'opposizione, “non può essere esclusa per l'ordinanza conclusiva della fase sommaria, irrevocabile fino alla conclusione di quella di opposizione” (Cass., Sez. Un., 18 settembre 2014, n.19674), proponendo un parallelismo tra suddetta ordinanza e quella emessa nell'ordinario rito sommario di cognizione ex art. 702-bis c.p.c.. Tale conclusione è stata inoltre recentemente ribadita con la sentenza n. 17325 del 25 agosto 2016, in cui la Corte di Cassazione ha affermato che, nell'ambito del Rito Fornero, la mancata notifica del ricorso in opposizione nei termini di legge determina l'improcedibilità del ricorso medesimo. In tale ultima occasione, la Suprema Corte ha ritenuto assimilabile tale procedimento al giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, essendo entrambi volti a confermare e/o modificare un precedente provvedimento giudiziale emesso all'esito di una fase a cognizione semplificata, suscettibili di divenire definitivi nel caso di mancata opposizione. Del resto, ad avviso di chi scrive, appare difficilmente sostenibile (oltre che in contrasto con il dichiarato fine della riforma di pervenire alla celere definizione di controversie di forte impatto sociale ed economico) che la parte, per ottenere un giudicato, debba necessariamente accedere alla fase di opposizione. Senza contare che, ove all'ordinanza di accoglimento della domanda di reintegrazione non opposta dal datore di lavoro venisse negata l'idoneità a dettare una disciplina pressoché definitiva del rapporto controverso, come tale invocabile anche in altro procedimento, non si garantirebbe al lavoratore la possibilità di agire per la tutela dei diritti derivanti dalla continuità del rapporto di lavoro, con evidente violazione degli artt. 24 e 111 Cost.. Corollario applicativo dei principi appena esposti, secondo la Suprema Corte, è che non è possibile ipotizzare la formazione del giudicato solo su alcune statuizioni e non su altre dell'ordinanza emessa in sede sommaria, atteso che quest'ultima è destinata ad acquisire il carattere della definitività nella sola ipotesi in cui l'opposizione non venga promossa. Di conseguenza, si ritiene che non possa operare il divieto di reformatio in peius, in quanto lo stesso trova il suo fondamento nelle norme che disciplinano le impugnazioni, non applicabili attesa la già segnalata natura non impugnatoria del giudizio di opposizione (Cass., 28 febbraio 2016, n. 3836). Tali considerazioni consentono allora di dare risposta negativa al quesito, che pure si era posto tra i commentatori all'indomani della novella, sul se sussista un onere di promuovere opposizione incidentale in capo all'opposto parzialmente vittorioso nella fase sommaria. Dalla natura del giudizio di opposizione quale mera prosecuzione di quello instaurato con la prima fase discende infatti che, qualora all'esito della fase sommaria la domanda di impugnazione del licenziamento venga accolta solo parzialmente, l'instaurazione dell'opposizione ad opera di una delle parti consente all'altra di limitarsi a riproporre, con la memoria difensiva, la domanda o le difese non accolte, senza che sia necessario presentare un distinto ed autonomo atto di opposizione.
Come segnalato in precedenza, oggetto del giudizio di opposizione è la situazione sostanziale dedotta in causa e non l'ordinanza del giudice di prime cure, con possibilità di modifica tanto dell'ambito soggettivo che di quello oggettivo della lite. Oltre alla rinuncia ad alcune delle originarie domande il cui cumulo era stato ammesso nella prima fase, possono infatti essere dedotte per la prima volta in detta sede, sia dall'opponente che dall'opposto, domande nuove purché, secondo quanto stabilito dall'art. 1, comma 51, l. n. 92/2012, fondate sui medesimi fatti costitutivi della domanda azionata in fase sommaria. Orbene, giurisprudenza consolidata considera fatti costitutivi dell'azione di impugnazione del licenziamento esclusivamente l'esistenza del rapporto di lavoro subordinato e l'illegittimità dell'atto espulsivo (cfr. ex multis Cass. 10 gennaio 2006 n.141). Applicando tale principio di diritto, la Suprema Corte ha concluso allora in favore dell'ammissibilità della proposizione in fase di opposizione, per la prima volta ed in via subordinata, della domanda di accertamento dell'illegittimità del licenziamento perché privo di giusta causa, laddove in fase sommaria era stato dedotto unicamente il suo carattere discriminatorio (Cass., 16 agosto 2016, n. 17107). In altra occasione, ha addirittura sostenuto che non sarebbe necessaria una assoluta identità di tutti i fatti costitutivi delle domande azionate, essendo sufficiente un loro sovrapposizione quanto meno parziale, ritenendo pertanto ammissibile anche la domanda di condanna al pagamento dell'indennità sostitutiva del preavviso proposta nell'ambito di un'impugnativa di licenziamento, in quanto fondata anch'essa sulla pregressa esistenza di un rapporto di lavoro e sull'ingiustificato recesso (Cass., 13 giugno 2016, n. 12094). Tale soluzione, a ben vedere, si impone per ragioni di effettività della tutela; la concentrazione delle domande in un'unica sede neutralizza invero il rischio di giudicati contrastanti e scongiura il pericolo di inutili dilatazioni dei tempi processuali, non coerenti con lo spirito della riforma. Il principio di diritto per cui fase sommaria e fase di opposizione si pongono in rapporto di prosecuzione, quali momenti consecutivi di un unico grado di giudizio, ha indotto la giurisprudenza a ritenere possibile la formulazione nel ricorso in opposizione di nuove richieste istruttorie, ulteriori rispetto a quelle avanzate nella prima fase, nonché di sollevare per la prima volta in tale sede eccezioni in senso stretto, come quella di decadenza dal potere di impugnazione del licenziamento (Cass. 1 dicembre 2015 n. 25046). A tali conclusioni, secondo la Suprema Corte, si perviene dall'analisi delle disposizioni che dettano il contenuto, rispettivamente, del ricorso che apre la prima fase e di quello in opposizione. Segnatamente, l'art. 1 comma 48 l. n. 92/2012 stabilisce che il ricorso contro il licenziamento deve avere i requisiti di cui all'art. 125 c.p.c., ossia deve indicare gli elementi minimi di tutti gli atti di parte, senza la necessità di indicare nell'atto le richieste istruttorie. Il successivo comma 51 richiede invece, per l'opposizione all'ordinanza di accoglimento o di rigetto, gli elementi elencati dall'art. 414 c.p.c., vale a dire quelli con i quali si delimita il tema della decisione nel giudizio di cognizione ordinaria. Da tali norme deriva, allora, la possibilità di introdurre in fase di opposizione nuovi temi della disputa; esse consentono, cioè, un ampliamento del thema decidendum, oltre che del thema probandum. Una riflessione specifica merita la questione relativa alla possibilità di trattare il giudizio di opposizione da parte dello stesso magistrato che abbia emesso l'ordinanza conclusiva della fase sommaria. Le norme che hanno introdotto il rito Fornero e l'art. 51, comma 1, n. 4 c.p.c.non prevedono che il giudice investito del giudizio di opposizione avverso la suindicata ordinanza debba astenersi, qualora egli abbia pronunciato tale provvedimento. Sin dalle prime applicazioni della nuova disciplina sono stati, però, sollevati dubbi in ordine alla legittimità della mancata previsione dell'incompatibilità del giudice che ha emanato l'ordinanza a trattare anche la fase a cognizione piena ed alla sussistenza dei presupposti dell'astensione (e della ricusazione), per la possibile compromissione del principio di terzietà ed imparzialità del giudice. Questi dubbi sono stati ritenuti privi di consistenza dalla Corte Costituzionale che, con la già segnalata sentenza n. 78 del 20 maggio 2015, ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale delle norme (della legge n. 92/2012 e del codice di procedura civile), che, in riferimento alla disciplina dell'impugnativa dei licenziamenti individuali, non prevedono l'obbligo di astensione per il giudice investito dell'opposizione all'ordinanza emanata nella fase sommaria, qualora abbia egli abbia pronunciato tale provvedimento. La conclusioni della Consulta si fondano, ancora una volta, sul principio di diritto vivente in virtù del quale il procedimento in esame è caratterizzato da una fase sommaria, destinata ad accertare il mero fumus di fondatezza della domanda sulla base di un'istruttoria ridotta, ed una fase a cognizione piena, di carattere non impugnatorio, che costituisce prosecuzione del giudizio di primo grado. Da tale ricostruzione consegue allora l'inesistenza dell'obbligo di astensione previsto dall'art. 51, comma 1, n. 4 c.p.c., applicabile soltanto in riferimento al magistrato che abbia conosciuto della controversia in altro grado del processo, non già nello stesso. In altri termini, quando un procedimento - benché bifasico - dà luogo, in sostanza, ad un unico giudizio, poiché la seconda fase in nessun modo costituisce impugnazione rispetto alla prima ed è priva dei caratteri necessari a farla configurare quale altro grado del processo, non sussiste l'obbligo di astensione. Da tale configurazione la Corte ha desunto che la possibilità che le due fasi siano trattate e definite da uno stesso giudice non soltanto non viola il principio di terzietà del giudice, ma è anzi strumentale all'attuazione del principio del giusto processo, sotto il profilo della sua ragionevole durata, e garantisce, allo stesso tempo, il lavoratore, che può ottenere una rapida tutela dei propri diritti (nella fase sommaria), e la parte soccombente nella fase sommaria, alla quale è assicurata la possibilità di un approfondimento delle proprie tesi all'esito di una fase a cognizione piena. In conclusione
Le soluzioni proposte dalla Corte di Cassazione e gli interventi chiarificatori del giudice delle leggi sui principali nodi problematici derivanti dalla scissione del giudizio di impugnativa dei licenziamenti in due fasi appaiono accomunati da un minimo comune denominatore: lo sforzo di ricondurre agli schemi già noti del processo civile un rito che, nella lacunosità del dettato normativo, indubbiamente presenta caratteri difficilmente catalogabili in un unico e preesistente modello procedimentale. Se non può che convenirsi con la considerazione per cui la diversità e peculiarità della materia giustificano un binario accelerato e dotato di regole sue proprie, è anche vero che il carattere geneticamente ibrido di tale modello processuale lascia ancora aperti ed irrisolti alcuni interrogativi fondamentali. Nella prassi applicativa permangono, infatti, ancora incertezze, ad esempio, in punto di individuazione dei limiti oggettivi del giudicato che copre l'ordinanza conclusiva della prima fase, con particolare riferimento alla intangibilità o meno delle questioni che si sia reso necessario accertare in via pregiudiziale ai fini dell'accoglimento delle domande ex art. 18 Stat. Lav. (prime fra tutte, le questioni relative alla qualificazione del rapporto, cui l'art. 1, comma 47, legge 92/2012 estende esplicitamente il nuovo rito). O ancora, ci si interroga se tra le domande diverse da quelle proposte ai sensi dell'art. 18 legge n. 300/70, ma fondate su identici fatti costitutivi, possano o meno ricomprendersi anche le domande di tutela obbligatoria. Ancora una volta, per rispondere a questi e ad altri interrogativi, dovrebbero prevalere soluzioni in linea con il principio costituzionale del diritto della parte alla tutela piena ed effettiva dei diritti (art. 24 Cost.) attuata attraverso il cd. giusto processo che, come affermato dalle Sezioni Unite, non si esplicita nella sola durata ragionevole dello stesso, ma tende ad assicurare altri valori - in cui pure si sostanzia il processo equo - quali il diritto di difesa, il diritto al contraddittorio e, in definitiva, il diritto ad un giudizio. |