Rito del lavoro c.d. semplificato (semplificazione dei riti)

Ida Ponticelli
25 Novembre 2016

La l. n. 92/2012 ha introdotto uno specifico procedimento per l'impugnativa del licenziamento ove si versi in una delle ipotesi contemplate dall'art. 18 della l. n. 300/1970, con il dichiarato scopo di prevedere per tali controversie un procedimento più snello e semplice, accelerando la tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo e, nel contempo, tenendo presente l'interesse datoriale a non subire le onerose conseguenze di una declaratoria di illegittimità pronunciata a distanza di un notevole lasso di tempo dal licenziamento stesso.
Inquadramento

La legge n. 92/2012ha introdotto uno specifico procedimento per l'impugnativa del licenziamento ove si versi in una delle ipotesi contemplate dall'art. 18 della legge 300/1970, con il dichiarato scopo di prevedere per tali controversie un procedimento più snello e semplice, accelerando la tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo e, nel contempo, tenendo presente l'interesse datoriale a non subire le onerose conseguenze di una declaratoria di illegittimità pronunciata a distanza di un notevole lasso di tempo dal licenziamento stesso.

La disciplina di tale rito è contenuta nei commi da 47 a 68 dell'art. 1 della legge in commento e la peculiarità più significativa è costituita dall'articolazione del primo grado di giudizio in due fasi, di cui una con carattere di sommarietà a cognizione semplificata, ed una eventuale fase di opposizione, a cognizione piena.

Segnatamente, dopo una fase iniziale concentrata e deformalizzata – mirata a riconoscere, sussistendone i presupposti, al lavoratore ricorrente una tutela rapida ed immediata e ad assegnargli un vantaggio processuale (da parte ricorrente a parte eventualmente opposta), ove il fondamento della sua domanda risulti prima facie sussistere alla luce dei soli atti di istruzione indispensabili – il procedimento si riespande, nella fase dell'opposizione, alla dimensione ordinaria della cognizione piena, con accesso per le parti a tutti gli atti di istruzione ammissibili e rilevanti.

In evidenza

La fase introduttiva del primo grado del rito per l'impugnazione dei licenziamenti di cui alla legge 92/2012 ha natura sommaria ma non cautelare in senso stretto: non occorre la prova di alcun concreto periculum, essendo l'urgenza preventivamente e astrattamente valutata dal legislatore in considerazione del tipo di controversia. L'opposizione all'ordinanza conclusiva della prima fase non è una revisio prioris istantiae e dunque non ha natura impugnatoria, costituendo una mera prosecuzione del giudizio di primo grado, con cognizione piena (Cass., Sez. Un., 18 settembre 2014, n. 19674).

Ambito applicativo

L'art. 1, comma 47, l. n. 92/2012 stabilisce testualmente che «le disposizioni dei commi da 48 a 68 sia applicano alle controversie aventi ad oggetto l'impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall'art. 18, l. 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro».

Argomentando dal tenore letterale di tale disposizione, la giurisprudenza sia di merito che di legittimità ha concluso in maniera pressoché unanime in favore dell'obbligatorietà del rito da essa introdotto per l'impugnativa dei licenziamenti: il verbo utilizzato dal legislatore, coniugato al modo indicativo (si applicano) prevede invero come ineludibile l'applicazione delle disposizioni enunciate nei commi successivi.

Nello specifico, il rito speciale previsto dalle norme citate non costituisce uno strumento finalizzato alla tutela delle ragioni del dipendente – con la possibilità che quest'ultimo scelga il rito dal seguire – bensì una tecnica di tutela volta ad abbreviare i tempi necessari per ottenere una decisione definitiva ogni qual volta la domanda abbia ad oggetto l'impugnativa di un licenziamento ascrivibile ad una delle ipotesi regolate dall'art. 18 Stat. Lav. Ne discende che il lavoratore licenziato non può rinunciare al procedimento speciale, perché la specialità non è prevista nel suo esclusivo interesse (Cass. 11 novembre 2015 n. 23073).

Il riferimento alle «questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro», che sia necessario risolvere prima di esaminare la fondatezza delle doglianze concernenti l'illegittimità del recesso datoriale, ha posto poi gli interpreti di fronte al problema di individuare in quali frangenti venga effettivamente in rilievo una questione qualificatoria prodromica all'applicazione dell'art. 18 Stat. Lav..

Orbene, ciò accade sicuramente quando venga dedotto il carattere subordinato di un rapporto di lavoro formalmente autonomo, quando venga asserito il carattere fittizio di un contratto a progetto o di un contratto di apprendistato.

Maggiori contrasti si registrano invece in punto di assimilabilità delle questioni relative alla titolarità del rapporto a quelle riguardanti la qualificazione dello stesso.

Ed invero, se la giurisprudenza di merito sembra orientata in senso negativo – poiché la domanda di accertamento della titolarità del rapporto di lavoro in capo ad un soggetto diverso dal formale datore di lavoro non è propriamente relativa alla qualificazione del rapporto, bensì alla sua costituzione (cfr. ex multis Trib. Udine, 7 marzo 2014,Tribunale di Roma 30 maggio 2013) – di diverso avviso è il recente orientamento della Suprema Corte secondo cui negare l'accesso al procedimento speciale laddove si individui il datore di lavoro in un soggetto diverso da quello che ne abbia la veste solo formale costituirebbe una preclusione priva di ragionevolezza, oltre che non inferibile dal dato normativo (Cass., 8 settembre 2016, n. 17775).

Le domande fondate su fatti costitutivi non identici

Una riflessione specifica merita l'art. 1 comma 48, l. n. 92/2012 il quale, prevedendo espressamente che «non possono essere proposte domande diverse da quelle ex art. 18 L. n. 300/70, salvo che siano fondate su identici fatti costitutivi», ha invero ingenerato un duplice ordine di questioni: da un lato, identificare le domande fondate su fatti costitutivi non identici rispetto a quelle proposte ai sensi dell'art. 18 Stat. Lav., dall'altro stabilire quale sia la loro sorte processuale.

Sotto il primo profilo, giurisprudenza consolidata considera fatti costitutivi dell'azione di impugnazione del licenziamento esclusivamente l'esistenza del rapporto di lavoro subordinato e l'illegittimità dell'atto espulsivo (cfr. ex multis Cass. 10 gennaio 2006 n.141).

Applicando tale principio di diritto, la Suprema Corte ha concluso allora in favore dell'ammissibilità della proposizione in via subordinata della domanda di accertamento dell'illegittimità del licenziamento perché privo di giusta causa, laddove in via principale era stato dedotto il suo carattere discriminatorio (Cass. 16 agosto 2016 n. 17107).

In altra occasione, ha addirittura sostenuto che non sarebbe necessaria una assoluta identità di tutti i fatti costitutivi delle domande azionate, essendo sufficiente un loro sovrapposizione quanto meno parziale, ritenendo pertanto ammissibile anche la domanda di condanna al pagamento dell'indennità sostitutiva del preavviso proposta nell'ambito di un'impugnativa di licenziamento, in quanto fondata anch'essa sulla pregressa esistenza di un rapporto di lavoro e sull'ingiustificato recesso (Cass., 12 agosto 2016, n. 17091).

Ciò posto, non è comunque ritenuta sostenibile la proposizione nell'ambito del rito speciale di qualsiasi domanda che annoveri, tra i propri fatti costitutivi, anche uno soltanto di quelli su cui si fonda la domanda ex art. 18 Stat. Lav., in quanto per tale via l'oggetto del giudizio sarebbe suscettibile di ampliamenti pressoché incontrollabili, tali da coincidere, almeno in via potenziale, con l'intera gamma delle controversie ipotizzabili in relazione ad un rapporto di lavoro. In particolare, la giurisprudenza di merito ha escluso l'identità dei fatti costitutivi tra le domande ex art. 18 legge 300/1970 e quelle riguardanti le differenze retributive e contributive, nonché il diritto ad un determinato inquadramento, sia in ragione del rilievo che rispetto alle medesime il rapporto di lavoro subordinato è un mero presupposto di fatto, sia in ragione della necessità di accertare fatti costitutivi ulteriori e diversi rispetto alla qualificazione del rapporto e alle modalità della sua interruzione, con conseguente compromissione delle esigenze di celerità proprie del rito in esame (cfr. ex multis Tribunale di Palermo 15 ottobre 2012, Tribunale di Roma 8 novembre 2012, Tribunale di Genova 27 novembre 2012).

E' inoltre assai dibattuta la questione relativa all'identità o meno dei fatti costitutivi della domanda di tutela obbligatoria rispetto alla domanda fondata sull'applicazione delle tutele di cui all'art. 18 Stat. Lav..

Segnatamente, in favore dell'identità tra i fatti costitutivi delle domande di reintegra e quelle di tutela obbligatoria si argomenta nel senso che chi si rivolge al giudice ed impugna un licenziamento ex art. 18 Stat. Lav. chiede implicitamente anche la tutela economica debole, rientrando il requisito dimensionale tra i fatti impeditivi del diritto del lavoratore all'applicazione della tutela reale, e non tra i suoi fatti costitutivi (Tribunale di Napoli 12 settembre 2013).

Viceversa, in senso opposto è stato osservato che la domanda di tutela reale e quella di tutela obbligatoria sono strutturalmente diverse, in ragione della eterogeneità dei presupposti e dell'oggetto (Trib. Roma 5 novembre 2015).

Tale contrasto di opinioni sussiste anche nella giurisprudenza di legittimità, ed è ben sintetizzato nelle pronunce che seguono.

LE DOMANDE DI TUTELA OBBLIGATORIA: ORIENTAMENTI A CONFRONTO

In caso di domanda di reintegra nel posto di lavoro avanzata ai sensi dell'art. 1, comma 48, l. n. 92/2012, il cumulo di domande diverse è ammesso solo se siano basate su fatti costitutivi identici a quelli fondanti la richiesta di tutela reale, rispondendo la ratio della norma all'esigenza di assicurare una tutela reintegratoria sollecita e di evitare un ampliamento dell'ambito di applicazione del rito speciale, suscettibile di ricadute sulla qualità della risposta giudiziaria, sicché è improponibile la domanda di riassunzione ex art. 8, l. n. 604/ 1966, proposta dal lavoratore in via subordinata all'applicazione dell'art. 18 Stat. Lav., attesa la diversità (in particolare, quanto al numero dei dipendenti e alla natura delle imprese datrici) dei rispettivi fatti costitutivi.

Cass. 10 agosto 2015 n. 16662

La domanda di tutela avverso licenziamento nelle ipotesi regolate dall'art. 18 Stat. Lav. e quella avente ad oggetto l'impugnativa del medesimo recesso cui possa essere, in via subordinata, riconosciuta la tutela di cui all'art. 8, l. n. 604/1966, possono essere proposte in unico ricorso, con rito ex art. 1, comma 48, della l. n. 92/2012, in quanto fondate sugli stessi fatti costitutivi, poiché la dimensione dell'impresa non è un elemento costitutivo della domanda del lavoratore, e, la prospettata interpretazione estensiva della disciplina di cui alla l. n. 92/2012, consente di evitare la parcellizzazione dei giudizi in modo che da un'unica vicenda estintiva del rapporto di lavoro possa scaturire un unico processo.

Cass. 13 giugno 2016 n. 12094

Del pari – venendo ad affrontare l'altro snodo problematico connesso al tenore letterale del comma 48 e in precedenza segnalato - si registrano in giurisprudenza opinioni differenti in ordine alla sorte processuale da assegnarsi alle domande diverse da quelle fondate sui medesimi fatti costitutivi di quella ex art. 18 stat. Lav. proposte nell'ambito del rito Fornero. In estrema sintesi, può segnalarsi che si contendono il campo due tesi contrapposte: quella nel senso della inammissibilità di siffatte domande, e quella favorevole alla trattazione delle stesse a seguito di mutamento del rito.

INAMMISSIBILITA' O MUTAMENTO DEL RITO: ORIENTAMENTI A CONFRONTO

Nel procedimento disciplinato dal c.d. Rito Fornero non possono essere proposte domande fondate su fatti costitutivi diversi rispetto a quello rilevanti ai fini della decisione sulla legittimità del licenziamento ex art. 18 l. n. 300/1970; esse devono quindi essere dichiarate improponibili, senza che si possa provvedere alla separazioni dei procedimenti ed al mutamento del rito.

Trib. Roma 9 dicembre 2013

Laddove sia proposta la domanda con il c.d. Rito Fornero ma l'oggetto del contendere non sia in via immediata «l'impugnativa del licenziamento nelle ipotesi regolate dall'art. 18, l. n. 300/1970» come previsto dall'art. 1 comma 47 l. n. 92/2012, il Giudice propone il mutamento del rito assegnando alle parti dei termini per l'integrazione dei rispettivi atti.

Trib. Palermo 15 gennaio 2013

Con il ricorso ex art. 1, commi 47 ss., l n. 92/2012 non possono essere proposte domande diverse da quelle di impugnativa del licenziamento e di tutela ex art. 18 Stat. Lav. novellato (comma 48), salvo che siano fondate sugli identici fatti costitutivi. Nel caso di errore nella scelta del rito che emerga sin dall'atto introduttivo del giudizio deve, pertanto, emettersi un provvedimento con il quale si disponga la conversione del rito, assegnando un termine per la regolarizzazione degli atti, in aderenza al principio della conservazione degli atti. Devono viceversa essere dichiarate inammissibili le domande riconvenzionali, anche se fondate su fatti costitutivi identici, non essendo prevista nella fase sommaria la possibilità della loro proposizione, trattandosi di determinazione legislativa chiaramente connessa alle esigenze di celerità che la caratterizzano.

Trib. Taranto 30 novembre 2012

La fase sommaria

La prima fase del rito dei licenziamenti è disciplinata da poche succinte disposizioni e si caratterizza per essere scevra da formalismi e connotata dalla carenza di preclusioni.

La domanda per l'impugnazione del licenziamento si propone con ricorso al tribunale in funzione di giudice del lavoro competente ex art. 413 c.p.c. e deve essere presentata nel termine di decadenza di 180 giorni dall'impugnazione stragiudiziale del licenziamento stesso.

A tal proposito, la Corte di Cassazione ha precisato che il termine di decadenza entro cui deve essere eseguito il deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro decorre dalla trasmissione dell'atto scritto di impugnazione del licenziamento e non dalla data di perfezionamento della stessa impugnazione per effetto della sua ricezione da parte del datore di lavoro (Cass. 7 ottobre 2015 n. 20068). L'impugnazione, dunque, per essere efficace richiede il rispetto di un doppio termine di decadenza (60 giorni dalla ricezione della comunicazione del recesso e 180 dall'impugnativa stragiudiziale per attivare la fase giudiziaria), che è interamente rimesso al controllo dello stesso impugnante.

Quanto al contenuto dell'impugnativa giudiziaria, l'art. 1 comma 48 si limita a prevedere che l'atto introduttivo del giudizio deve avere la forma del ricorso ex art. 125 c.p.c., con la conseguenza che elementi necessari dello stesso saranno l'indicazione del tribunale competente, delle parti, nonché dell'oggetto e delle ragioni della domanda e delle conclusioni di cui si chiede l'accoglimento. L'estrema sintesi della disposizione in commento ha indotto gli operatori a ritenere non necessaria l'indicazione sin dal ricorso introduttivo dei mezzi di prova dei quali la parte intende avvalersi, non essendo previsto un rigido schema di preclusioni.

A seguito della proposizione del ricorso, il giudice fissa con decreto l'udienza per la comparizione delle parti non oltre i quaranta giorni successivi e assegna un termine non inferiore a venticinque giorni prima dell'udienza per la notifica di ricorso e decreto, ed un termine non inferiore a cinque giorni prima della medesima udienza per la costituzione del resistente.

A fronte della mancanza di una previsione analoga a quella contenuta nell'art. 416 c.p.c. sull'onere della parte convenuta di sollevare, a pena di decadenza, le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d'ufficio e di prendere posizione in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione dei fatti affermati dal ricorrente, è stata generalmente affermata l'inapplicabilità delle rigide barriere preclusive proprie del rito lavoro.

Il successivo comma 49 prevede che il giudice, sentite le parti e omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili richiesti dalla parti o disposti d'ufficio ai sensi dell'art. 421 c.p.c.

La fase sommaria si conclude con l'emissione di un'ordinanza di accoglimento o di rigetto immediatamente esecutiva, la cui efficacia non può essere sospesa o revocata fino alla pronuncia della sentenza che definisce il successivo giudizio di opposizione.

La natura non meramente facoltativa del nuovo rito e soprattutto la previsione di un termine perentorio per la proposizione dell'opposizione hanno indotto gli interpreti a ritenere che l'ordinanza non oggetto di tempestiva opposizione acquisisca la stabilità propria del giudicato. In questi termini si è ripetutamente espressa la Suprema Corte secondo cui sussiste anche nel caso di ricorso in opposizione nel rito Fornero la ragionevole aspettativa delle parti alla stabilità del provvedimento giudiziale entro termini prefissati, certi e ragionevolmente brevi, coerente con l'interesse generale dell'ordinamento alla certezza dei rapporti giuridici (cfr. da ultimo Cass. 25 agosto 2016 n. 17325).

La fase di opposizione

Avverso l'ordinanza conclusiva della fase sommaria può essere proposta opposizione entro il termine di trenta giorni dalla notificazione della stessa, o dalla sua comunicazione se anteriore (art. 1 comma 51).

Giurisprudenza di merito ha sostenuto, nell'ipotesi in cui l'ordinanza che ha definito la prima fase del giudizio sia stata pronunciata in udienza, l'operatività dell'art. 134 c.p.c., secondo cui è soggetta a comunicazione solo l'ordinanza pronunciata fuori udienza: conseguentemente, è stato affermato che in tal caso il termine di trenta giorni di cui al comma 51 decorre dal giorno dell'udienza, a prescindere dalla notifica o dalla comunicazione successiva (cfr. ex multis Trib. Roma 18 aprile 2013, App. Roma 21 novembre 2013). Con un recente pronunciamento, tuttavia, la Corte di Cassazione, valorizzando il chiaro tenore letterale della disposizione in parola e considerato che trattasi di un termine stabilito a pena di decadenza, ha sostenuto che l'interpretazione del comma 51 non può che essere restrittiva, derivandone per ciò solo l'impossibilità di far decorrere la decadenza da un momento diverso rispetto a quello stabilito dalla legge, e dunque in violazione del diritto di azione costituzionalmente tutelato (Cass. 20 settembre 2016 n. 18403).

Competente per la fase di opposizione è lo stesso tribunale che ha emesso l'ordinanza opposta. Tra gli operatori del diritto si dibatte poi sulla possibilità che a decidere sia la medesima persona fisica che ha pronunciato l'ordinanza in sede sommaria.

Sin dalle prime applicazioni della nuova disciplina sono stati invero sollevati dubbi in ordine alla legittimità della mancata previsione di norme che prevedessero l'incompatibilità del giudice che ha emanato l'ordinanza a trattare anche la fase a cognizione piena ed alla sussistenza dei presupposti dell'astensione (e della ricusazione), per la possibile compromissione del principio di terzietà ed imparzialità del giudice.

Questi dubbi sono stati ritenuti privi di consistenza dalla Corte Costituzionale che, con sentenza n. 78 del 20 maggio 2015, ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale delle norme (della l. n. 92/2012 e del codice di procedura civile), che, in riferimento alla disciplina dell'impugnativa dei licenziamenti individuali, non prevedono l'obbligo di astensione per il giudice investito dell'opposizione all'ordinanza emanata nella fase sommaria, qualora abbia egli abbia pronunciato tale provvedimento. La conclusioni della Consulta si fondano sul principio di diritto vivente in virtù del quale il procedimento in esame è caratterizzato da una fase sommaria, destinata ad accertare il mero fumus di fondatezza della domanda sulla base di un'istruttoria ridotta, ed una fase a cognizione piena, di carattere non impugnatorio, che costituisce prosecuzione del giudizio di primo grado.

Da tale ricostruzione consegue allora l'inesistenza dell'obbligo di astensione previsto dall'art. 51, comma 1, n. 4 c.p.c., applicabile soltanto in riferimento al magistrato che abbia conosciuto della controversia in altro grado del processo, non già nello stesso.

Il giudizio si introduce a mezzo ricorso in opposizione contenente gli elementi di cui all'art. 414 c.p.c. (vale a dire quelli con cui si delimita il tema della decisione nell'ordinario giudizio soggetto al rito lavoro); il giudice fissa l'udienza per la discussione non oltre sessanta giorni dal deposito del ricorso, assegnando all'opposto un termine di dieci giorni prima dell'udienza per costituirsi. Il ricorso e il pedissequo decreto di fissazione vanno poi notificati all'opposto almeno trenta giorni prima della data fissata per l'udienza.

A tale ultimo proposito, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che la mancata notifica del ricorso in opposizione nei termini di legge determina l'improcedibilità del ricorso medesimo, pur se tempestivamente proposto (Cass. 25 agosto 2016 n. 17325).

L'opposto deve costituirsi depositando in cancelleria una memoria difensiva a norma dell'art. 416 c.p.c.: in tale atto deve, dunque, fare richiesta di autorizzazione alla chiamata in causa del terzo, proporre eccezioni e domande riconvenzionali, e contestare puntualmente i fatti dedotti dall'attore, oltre che proporre tutte le sue difese in fatto e diritto e le relative istanze istruttorie.

Da ciò si desume che oggetto del giudizio è la situazione sostanziale dedotta in causa e non l'ordinanza emessa in fase sommaria, con possibilità di modifica tanto dell'ambito soggettivo che di quello oggettivo della lite.

Oltre alla rinuncia ad alcune delle originarie domande il cui cumulo era stato ammesso nella prima fase, possono infatti essere dedotte per la prima volta in detta sede, sia dall'opponente che dall'opposto, domande nuove purché, secondo quanto stabilito dall'art. 1, comma 51, l. n. 92/2012, fondate sui medesimi fatti costitutivi della domanda azionata in fase sommaria.

Il principio di diritto per cui fase sommaria e fase di opposizione si pongono in rapporto di prosecuzione, quali momenti consecutivi di un unico grado di giudizio, ha indotto la giurisprudenza a ritenere possibile la formulazione nel ricorso in opposizione di nuove richieste istruttorie, ulteriori rispetto a quelle avanzate nella prima fase, nonché di sollevare per la prima volta in tale sede eccezioni in senso stretto, come quella di decadenza dal potere di impugnazione del licenziamento (Cass. 1 dicembre 2015 n. 25046).

L'istruttoria della fase di opposizione si caratterizza per essere piena ed esauriente; a norma dell'art. 1 comma 57, infatti, il giudice procede agli atti di istruzione ammissibili e rilevanti (non già ai soli atti indispensabili) richiesti dalle parti nonché disposti d'ufficio ex art. 421 c.p.c.

A conclusione dell'istruttoria viene emessa una sentenza preceduta, laddove le parti siano state all'uopo autorizzate, dal deposito di note difensive almeno dieci giorni prima dell'udienza di discussione. La sentenza, completa di motivazione, viene depositata in cancelleria entro dieci giorni dall'udienza di discussione.

E' evidente la differenza con il modulo decisorio dell'ordinario rito lavoro di cui all'art. 429 c.p.c., non essendo prevista né la lettura del dispositivo in udienza né la motivazione contestuale.

Tale sentenza è suscettibile di reclamo innanzi alla Corte di Appello.

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