Giudici e arbitri: sempre meno lontani

Mauro Di Marzio
13 Giugno 2017

La definizione dei rapporti tra giudice e arbitro si intreccia con importanti implicazioni «politiche», giacché rimanda alla concezione stessa della giurisdizione, la quale, se intesa come riservata in esclusiva allo Stato, impone di negare che gli arbitri svolgano una funzione in qualche modo giurisdizionale, con tutta quanto ne consegue sul piano della regolazione di quei rapporti. Dopo la riforma del 2006, e dopo alcuni decisivi interventi della Corte costituzionale, è però ormai chiaro che gli arbitri sono parte della giurisdizione.
Eccezione di compromesso e natura dell'arbitrato

Il giurista che, non avendo una conoscenza approfondita del giudizio arbitrale facesse una ricerca di giurisprudenza sull'eccezione di arbitrato negli ultimi vent'anni, in una qualunque banca dati, rimarrebbe spiazzato, imbattendosi in un blocco di sentenze della SC, anche abbastanza recenti, secondo cui l'eccezione di arbitrato è un'eccezione di merito, e la decisione sull'eccezione va impugnata con l'appello, ed un blocco di sentenze secondo cui l'eccezione di arbitrato è un'eccezione di incompetenza, sicché la decisione sul punto, se riguarda la sola competenza, va impugnata col regolamento necessario, altrimenti col regolamento facoltativo o con l'appello: e la sensazione di spaesamento aumenterebbe probabilmente dopo la lettura dell'art. 819 ter c.p.c., che sembra invece porre la questione senza esitazioni in termini di competenza.

Per chiarire le ragioni di un contrasto così marcato occorre soffermarsi brevemente su un tema della natura dell'arbitrato.

Partiamo da una notazione di carattere, per così dire, topografico. Il codice di procedura civile del 1865 si apriva con la disciplina dell'arbitrato: il Titolo preliminare del codice, dall'art. 1 all'art. 34, era difatti dedicato alla conciliazione e al compromesso. Nel 1942 il legislatore colloca l'arbitrato in coda al codice e manifesta nei suoi riguardi un atteggiamento di evidente diffidenza, tant'è che la decisione degli arbitri — che il codice del 1865 chiamava sentenza e quello del 1942 definisce lodo — deve essere depositata presso il pretore, che, accertata la tempestività del deposito e la regolarità formale del lodo, lo dichiara esecutivo con decreto, conferendo così ad esso efficacia di sentenza.

Secondo l'originaria ricostruzione della Suprema Corte, in aderenza alla disciplina inizialmente dettata dal codice di rito, solo con il deposito e la dichiarazione di esecutività si determina ex post una sorta di giurisdizionalizzazione del lodo (Cass. 31 luglio 1944, n. 454; Cass., Sez. Un., 9 maggio 1956, n. 1505; Cass. 10 dicembre 1981, n. 6532). Soluzione che si accorda con la tesi chiovendiana secondo cui gli arbitri operano come collaboratori del giudice, dando luogo ad una attività meramente preparatoria del comando giudiziale, cioè dell'atto mediante cui viene espressa la volontà della legge, ossia il decreto di esecutorietà del lodo.

In dottrina, viceversa, si misurano già in questa fase, e continueranno a misurarsi in seguito, opinioni eterogenee, le quali spaziano da una tesi «giurisdizionalista» pura ad una tesi «privatista» pura, con una pluralità di soluzioni intermedie e di sfumature che non è il caso di esaminare. In breve, volendo sintetizzare in modo rudimentale un dibattito spesso astratto e faticoso, si può dire che:

  • per la prima il lodo emesso dagli arbitri ha immediatamente natura di sentenza di mero accertamento, e con l'exequatur del pretore è destinato a trasformarsi in sentenza di condanna;
  • per la seconda il patto compromissorio è espressione della volontà delle parti di sottrarsi alla giurisdizione, optando per la decisione arbitrale, la quale non può essere assimilata a quella statuale, giacché gli arbitri sono privi dell'imperium che caratterizza l'esercizio della giurisdizione, con l'ulteriore conseguenza che il lodo possiede esclusivamente natura ed efficacia di contratto, al quale l'omologazione attribuisce taluni effetti propri della sentenza, in particolare l'esecutorietà, ma non la medesima natura, e con essa l'attitudine al giudicato.

Il quadro normativo inizia a modificarsi nel 1983. Con la l. 9 febbraio 1983, n. 28, il legislatore aggiunge all'art. 823 c.p.c. un ultimo comma ai sensi del quale il lodo ha «efficacia vincolante tra le parti» sin dalla data di ultima sottoscrizione. Formula che realizza un piccolo capolavoro di ambiguità, giacché offre argomenti tali da rafforzare sia la tesi «giurisdizionalista» pura che la tesi «privatista» pura, oltre a rinvigorire e far proliferare le soluzioni intermedie o eccentriche.

Per parte sua, la SC si schiera in questa fase, abbastanza compatta, su una posizione pragmatica, affermando che il lodo rituale possiede la stessa efficacia della sentenza, salva la necessità dell'omologa per attribuirgli effetti esecutivi (p. es. Cass. 4 ottobre 1994, n. 8075; Cass. 18 novembre 1992, n. 12346; Cass., Sez. Un., 2 giugno 1988, n. 3767; Cass., Sez. Un., 9 giugno 1987, n. 5037; Cass., Sez. Un., 29 novembre 1986, n. 7087).

Con la l. 5 gennaio 1994, n. 25, la disciplina dell'arbitrato è ulteriormente modificata. Viene da un lato abrogato il termine annuale per il deposito del lodo, dall'altro lato viene soppressa la previsione in forza della quale il lodo acquista efficacia di sentenza solo a seguito dell'omologazione. Si tratta di novità che depongono per la tendenziale equiparazione della giustizia arbitrale a quella ordinaria: l'efficacia di sentenza del lodo, infatti, non è più subordinata all'omologazione del giudice, che è necessaria solo per la concessione dell'esecutorietà.

Sebbene la novella non sopisca il contrasto tra i fautori delle due tesi di cui si è detto, l'orientamento della giurisprudenza, con particolare riguardo alle ricadute della configurazione del giudizio arbitrale sull'eccezione di compromesso, è ormai univoco. Si equipara cioè l'eccezione di compromesso ad una eccezione di incompetenza (più precisamente ad un'eccezione di incompetenza semplice) e si afferma pertanto che essa va proposta in limine litis (Cass. 26 gennaio 2000, n.870; Cass. 24 marzo 1999, n.2775; Cass., Sez. Un., 28 novembre 1996, n.10617).

Nel 2000, tuttavia, le cose cambiano repentinamente. La SC, mutando radicalmente di indirizzo, fa propria la tesi «privatista» (Cass., Sez. Un., 3 agosto 2000, n. 527).

Il lodo rituale viene considerato come un negozio di diritto privato stipulato fra le parti e, per questo, inidoneo ad ottenere l'autorità di giudicato sostanziale (Cass., Sez. Un., 15 dicembre 2000, n. 1262; Cass. 8 novembre 2001, n. 13840; Cass. 27 novembre 2001, n. 15023; Cass., Sez. Un., 25 giugno 2002, n. 9289; Cass. 8 agosto 2002, n. 11976; Cass. 30 agosto 2002, n. 12714; Cass. 3 ottobre 2002, n. 14182; Cass. 26 marzo 2003, n. 4462; Cass. 14 novembre 2003, n. 17205; Cass. 27 maggio 2005, n. 11315; Cass. 1 marzo 2006, n. 4542).

L'eccezione di compromesso, a questo punto, non è più considerata come eccezione di incompetenza, ma di merito. Il compromesso si configura, nella prospettiva accolta, quale deroga alla giurisdizione. Pertanto, lo stabilire se una controversia appartenga alla cognizione del giudice ordinario o sia deferibile agli arbitri — i quali, anche nell'arbitrato rituale, non svolgono una forma sostitutiva della giurisdizione né sono qualificabili come organi giurisdizionali dello Stato — costituisce appunto una questione, non già di competenza in senso tecnico, ma di merito, in quanto direttamente inerente alla validità o all'interpretazione del compromesso o della clausola compromissoria. Ne consegue — ecco la conseguenza applicativa desunta dalla ricostruzione operata in apicibus — che è inammissibile l'istanza di regolamento (necessario o facoltativo) di competenza proposta avverso la decisione con cui il giudice adito pronunci (accogliendola o respingendola) su eccezione relativa all'esistenza di compromesso o di clausola compromissoria per arbitrato rituale (Cass., Sez. Un., 25 giugno 2002, n. 9289).

Questo indirizzo rimane per un certo tempo fermo anche dopo la riforma dell'arbitrato del 2006 (d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40). Il che è in certo qual modo sorprendente, dal momento che la novella introduce nella disciplina dell'arbitrato l'art. 819 ter c.p.c., dedicato ai rapporti tra arbitri e autorità giudiziaria, nel quale si afferma espressamente che:

a) la competenza degli arbitri non è esclusa dalla pendenza della stessa causa davanti al giudice;

b) la sentenza, con la quale il giudice afferma o nega la propria competenza in relazione a una convenzione d'arbitrato, è impugnabile con regolamento necessario o facoltativo;

c) l'eccezione di incompetenza del giudice in ragione della convenzione di arbitrato deve essere proposta, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta.

E tuttavia, per quanto consta, la qualificazione dell'eccezione di arbitrato quale eccezione di merito rimane ferma nella giurisprudenza della SC almeno fino al 2011 (Cass. 14 luglio 2001, n.15474).

Nondimeno, una pluralità di elementi convergono, man mano, a far superare l'adesione alla tesi «privatista», in favore di un meditato ritorno a quella «giurisdizionalista». Ed infatti:

  • già nel 2001 la Consulta ammette gli arbitri a sollevare la questione di legittimità costituzionale, qualificando l'arbitrato come «procedimento previsto e disciplinato dal codice di procedura civile per l'applicazione obiettiva del diritto nel caso concreto, ai fini della risoluzione di una controversia, con le garanzie di contraddittorio e di imparzialità tipiche della giurisdizione civile ordinaria» (Corte cost. 28 novembre 2001, n. 376);
  • la riforma del 2006 attribuisce espressamente al lodo arbitrale fin dall'ultima sottoscrizione l'efficacia della sentenza pronunciata dall'autorità giudiziaria (art. 824 bis), indipendentemente dal deposito disciplinato dal successivo art. 825 c.p.c.;
  • la Corte costituzionale interviene nuovamente sulla materia dichiarando l'incostituzionalità dell'art. 819 ter, comma 2, nella parte in cui escludeva l'applicazione all'arbitrato della translatio iudicii prevista dall'art. 50 c.p.c. (Corte cost. 19 luglio 2013, n. 223).

Dopodiché le Sezioni Unite tornano sui propri passi e riconoscono la natura giurisdizionale all'arbitrato, osservando, in breve: i) che la proponibilità dell'impugnazione non è più subordinata al decreto di esecutorietà del lodo; ii) che la domanda arbitrale è assimilabile a quella giudiziale quanto ad effetti sulla prescrizione e sulla trascrizione; iii) che all'arbitrato si applica l'art. 111 concernente la successione a titolo particolare nel diritto controverso; iv) che l'art. 819-bis consente agli arbitri di sollevare questione di legittimità costituzionale; v) che l'art. 824-bis equipara gli effetti del lodo a quelli della sentenza (Cass., Sez. Un., 25 ottobre 2013, n.24153).

A questo punto si apre la strada per il ritorno alla qualificazione dell'eccezione di arbitrato quale eccezione di incompetenza: soluzione, senza alternative, tenuto conto della formulazione dell'art. 819ter c.p.c.. Si afferma quindi che, in considerazione della natura giurisdizionale dell'arbitrato e della sua funzione sostitutiva della giurisdizione ordinaria, come desumibile dalla disciplina introdotta dalla legge n. 5 del 1994 e dalle modificazioni di cui al d.lgs. n. 40 del 2006, l'eccezione di compromesso ha carattere processuale ed integra una questione di competenza, che deve essere eccepita dalla parte interessata, a pena di decadenza e conseguente radicamento presso il giudice adito del potere di decidere in ordine alla domanda proposta, nella comparsa di risposta e nel termine fissato dall'art. 166 c.p.c. (Cass. 6 novembre 2015, n.22748).

Forma e termini dell'eccezione di arbitrato

L'art. 819 ter c.p.c. qualifica espressamente l'exceptio compromissi come eccezione «di incompetenza del giudice in ragione della convenzione di arbitrato», dettando per il suo rilievo e la sua impugnazione una disciplina che è modellata su quella dell'eccezione di incompetenza prevista dall'art. 38 c.p.c., pur non espressamente richiamato.

La disciplina delle forme e dei termini per eccepire l'incompetenza del giudice in ragione della sussistenza di convenzione d'arbitrato è sufficientemente piana. Il comma 1, terzo periodo, dell'art. 819 terc.p.c., infatti, dispone che l'eccezione di patto compromissorio deve essere proposta dalla parte, a pena di decadenza, con la comparsa di risposta. La Suprema Corte ha chiarito, quantunque la norma non lo dica espressamente, che si tratta della comparsa di risposta tempestivamente depositata. È stato difatti osservato che «la mancanza di una specifica indicazione in ordine al termine entro il quale l'eccezione dev'essere sollevata impone di fare riferimento alla disciplina generale dettata dall'art. 38 c.p.c. … il quale dispone che l'incompetenza, tanto per materia quanto per valore o per territorio, dev'essere eccepita, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta tempestivamente depositata», mentre «sarebbe del tutto contraddittorio continuare a leggere il riferimento al mero deposito della comparsa di risposta nell'art. 819 ter c.p.c., come non allusivo ad un deposito tempestivo», dal momento che «la sussistenza della competenza arbitrale è questione rilevabile solo dalla parte e non dal giudice» (Cass. 24 settembre 2015, n. 18978; Cass. 6 novembre 2015, n. 22748).

È certamente escluso dunque il rilievo officioso. In particolare l'eccezione di incompetenza trova fondamento unicamente sulla volontà delle parti, le quali sono libere di scegliere se affidare la controversia agli arbitri e, quindi, anche di adottare condotte processuali tacitamente convergenti verso l'esclusione della competenza di questi ultimi, con l'introduzione di un giudizio ordinario, da un lato, e la mancata proposizione dell'eccezione di arbitrato, dall'altro (Cass. 6 novembre 2015, n. 22748).

Nel caso di procedimento monitorio, l'eccezione va formulata con l'atto di citazione o col ricorso in opposizione a decreto ingiuntivo. In dottrina, peraltro, si è dubitato che il difetto di competenza non possa essere sollevato d'ufficio nella fase monitoria del procedimento ingiuntivo, in applicazione analogica dei principi posti da Corte cost. 3 novembre 2005, n. 410, la quale ha affermato che l'art. 640 c.p.c., per essere conforme a Costituzione, deve essere interpretato nel senso di consentire al giudice della fase monitoria di rilevare d'ufficio la propria incompetenza territoriale semplice.

Mancata proposizione dell'eccezione

Secondo l'art. 819 ter, comma 1, quarto periodo, c.p.c. «la mancata proposizione dell'eccezione esclude la competenza arbitrale limitatamente alla controversia decisa in quel giudizio».

Alcuni ritengono che la previsione debba essere intesa nel senso che la mancata proposizione dell'eccezione comporta lo scioglimento del patto compromissorio relativamente alla controversia dedotta in giudizio poiché implicherebbe, da parte del convenuto, l'adesione alla volontà di risolvere la convenzione arbitrale manifestata dall'attore con la proposizione della domanda davanti al giudice statale anziché agli arbitri.

Altri replicano che l'omesso rilievo dell'incompetenza del giudice non può determinare lo scioglimento del patto compromissorio, giacché l'omissione dell'eccezione è una scelta del difensore che non produce effetti dispositivi a carico della parte, tanto più che il patto compromissorio (e quindi anche il suo scioglimento) richiede la forma scritta ad substantiam.

In definitiva, secondo l'opinione dottrinale prevalente, la mancata formulazione dell'eccezione di arbitrato preclude soltanto l'avvio o la prosecuzione di un giudizio arbitrale sul medesimo oggetto.

Eccezione di arbitrato e domanda riconvenzionale

Una questione pratica sovente presentatasi in giurisprudenza è se la proposizione di domanda riconvenzionale comporti rinuncia a far valere l'eccezione di arbitrato pure espressamente proposta.

Secondo un primo indirizzo l'eccezione di compromesso deve intendersi come implicitamente rinunciata a fronte della ulteriore proposizione di domanda riconvenzionale, sussistendo un'incompatibilità tra eccezione di incompetenza del giudice ordinario e proposizione davanti allo stesso giudice – ritenuto incompetente – di un'autonoma domanda giudiziale (Cass. 5 dicembre 2003; Cass. 16 dicembre 1992, n. 13317).

Secondo un altro orientamento, in tale situazione la domanda riconvenzionale deve considerarsi naturalmente subordinata al rigetto dell'eccezione di compromesso (Cass. 30 maggio 2007, n. 12684; Cass. 7 luglio 2005, n. 12475; Cass. 19 dicembre 2000, n. 15941).

Il contrasto è in effetti però solo apparente. Le sentenze da ultimo citate a favore della compatibilità tra domanda riconvenzionale ed eccezione di compromesso hanno deciso fattispecie concrete nelle quali le due attività erano state compiute dal convenuto contestualmente, mediante il medesimo atto introduttivo. La SC reputa cioè che l'atto unitariamente costruito non permetta di considerare rinunciata l'eccezione di arbitrato in esso formulata ogni volta che possa agevolmente desumersi la subordinazione della domanda riconvenzionale al rigetto dell'eccezione (Cass. 19 dicembre 2000, n. 15941). Tali pronunce non sono, quindi, in effettivo contrasto con quelle che hanno dichiarato implicitamente rinunciata l'eccezione di arbitrato a causa della successiva proposizione di domanda riconvenzionale (Cass. 16 dicembre 1992, n. 13117; Cass. 30 maggio 2007, n. 12736). In tal caso, cioè, a fronte della proposizione della riconvenzionale in un momento successivo alla formulazione dell'eccezione di arbitrato, occorre verificare se la riconvenzionale non importi l'abbandono dell'eccezione.

Sicché appare in definitiva isolata la decisione che ravvisa un'implicita rinuncia all'eccezione in caso di contestuale proposizione della domanda riconvenzionale (Cass. 15 dicembre 2003, n. 18643).

La forma della decisione

L'art. 819 ter c.p.c. stabilisce che la decisione sull'exceptio compromissi va adottata con sentenza. Sorge così il problema del coordinamento di tale previsione con l'indirizzo successivamente adottato dalla l. 18 giugno 2009, n. 69 nel novellare l'art. 38 c.p.c., indirizzo secondo cui le questioni di competenza si decidono con ordinanza.

Secondo alcuni la mancata modifica dell'art. 819 ter c.p.c. sarebbe dovuto ad un mero difetto nel coordinamento, sicché il giudice dovrebbe pronunciarsi con ordinanza anche sull'exceptio compromissi.

Secondo altri, invece, il legislatore avrebbe deliberatamente mantenuto la forma della sentenza per la decisione sulla competenza arbitrale.

Questa seconda soluzione è preferibile. Se è pur vero che il rapporto tra giudice e arbitro involge una questione di competenza, è altrettanto vero che si tratta di una questione sui generis, che ben può essere disciplinata da regole sue proprie. Come si è accennato, l'art. 819 ter c.p.c. non richiama espressamente l'art. 38 c.p.c., ma è piuttosto costruito a somiglianza dell'art. 38, e ciò testimonia che il giudice e l'arbitro non appartengono allo stesso ordine (il che del resto è chiaro), ma, se così si può dire, vengono considerati come facenti parte del medesimo ordine al solo scopo di regolare i rapporti tra loro. In ogni caso, il dato normativo è quello che è, e se anche il legislatore fosse incorso in un errore di coordinamento, ciò non autorizzerebbe a leggere nella norma un precetto diverso da quello che essa pone (la conservazione della sentenza nella norma in commento sarebbe una precisa scelta del legislatore della riforma secondo Trib. Lamezia Terme 22 giugno 2010, in Giur. It., 2012, 2, 394).

L'impugnazione della sentenza

La sentenza che pronuncia sull'eccezione di arbitrato è assoggettata al regolamento di competenza necessario o facoltativo, secondo che il giudice si sia pronunciato solo sull'eccezione o anche sul merito (Cass. 8 marzo 2011, n. 5510). È ovviamente scontato che il regolamento di competenza può essere impiegato contro la sentenza del giudice, non contro il lodo che ai sensi dell'art. 817 c.p.c. abbia deciso sulla competenza, il quale è eventualmente sottoposto all'impugnazione per nullità ai sensi dell'art. 829 c.p.c..

Si è sostenuto che la pronuncia dovrebbe considerarsi resa anche sul merito ogni qual volta il giudice, ai fini del decidere, abbia scrutinato validità od efficacia della convenzione arbitrale in contestazione. Secondo altri, e sarei di questa opinione, la pronuncia sull'eccezione di arbitrato è comunque una decisione sulla sola competenza.

Altro quesito in tema di impugnazione per regolamento di competenza, che è però marginale dal punto di vista dell'impatto pratico, è quello concernente la sua applicazione alle decisioni sull'eccezione di arbitrato pronunciate dal giudice di pace, giacché per regola generale il regolamento, sia necessario che facoltativo, non si applica nei giudizi davanti al giudice di pace ai sensi dell'art. 46 c.p.c..

Per un verso si potrebbe porre l'accento sul rilievo che l'art. 819-ter c.p.c. assoggetta al regolamento tutte le sentenze con cui il giudice afferma o nega la propria competenza in relazione ad una convenzione di arbitrato. Per altro verso, ed è l'opinione senz'altro preferibile, il richiamo dell'art. 819-ter c.p.c. agli artt. 42 e 43 c.p.c. sembra involgere l'intera disciplina dettata per il regolamento di competenza, con conseguente inapplicabilità alle sentenze del giudice di pace, tanto più che la norma, nell'elencare espressamente le disposizioni inapplicabili nei rapporti tra arbitrato il processo, non richiama l'art. 46 c.p.c..

Si pone poi in argomento un quesito che ha tutt'ora un qualche rilievo in tema di diritto intertemporale: il quesito se l'impugnazione per regolamento di competenza sia applicabile o no alle sentenze pronunciate dopo l'entrata in vigore l'art. 819-ter c.p.c., introdotto dall'art. 22, d.lgs. n. 40/2006 (2 marzo 2006), anche se il processo ha avuto inizio anteriormente a quella data.

In proposito le Sezioni Unite hanno in generale stabilito che: «In tema di arbitrato, la disciplina sull'impugnabilità con regolamento di competenza, necessario o facoltativo (artt. 42 e 43 c.p.c.), della sentenza del giudice di merito affermativa o negatoria della propria competenza sulla convenzione di arbitrato, recata dal nuovo testo dell'art. 819-ter c.p.c. (introdotto dall'art. 22, d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40), trova applicazione soltanto in relazione a sentenze pronunciate con riferimento a procedimenti arbitrali iniziati successivamente alla data del 2 marzo 2006, disponendo in tal senso, con formulazione letterale inequivoca, la norma transitoria dettata dall'art. 27, comma 4, dell'anzidetto d.lgs. n. 40, dovendosi, pertanto, escludere che l'operatività della nuova disciplina possa ancorarsi a momenti diversi, quale quello dell'inizio del giudizio dinanzi al giudice ordinario nel quale si pone la questione di deferibilità agli arbitri della controversia ovvero quello della data di pubblicazione della sentenza del medesimo giudice che risolve la questione di competenza» (Cass., Sez. Un., 6 settembre 2010, n. 19047). Nell'affermare che il momento determinante, ai fini dell'impugnabilità della sentenza con il regolamento di competenza, è non già quello di inizio del procedimento dinanzi al giudice ordinario o quello in cui è stata depositata la sentenza, ma solo il momento in cui è stata proposta la domanda di arbitrato, la menzionata pronuncia ha altresì precisato che il tenore letterale dell'art. 27, comma 4, citato, ne esclude l'applicabilità all'ipotesi in cui nessun procedimento arbitrale sia stato iniziato, né prima né dopo il 2 marzo 2006, dovendosi fare riferimento in tal caso ai principi generali della perpetuatio iurisdictionis e tempus regit actum.

La decisione delle Sezioni Unite ora menzionata, dunque, non si sofferma ad individuare quale dei due richiamati principi debba essere applicato. Ma, evidentemente, il principio della perpetuatio iurisdictionis e quello tempus regit actum non sono equiordinati e tantomeno fungibili, ed anzi il primo — in forza del quale giurisdizione e competenza si determinano dalla ed al momento della domanda, avuto riguardo alla «legge vigente» ed allo «stato di fatto» del momento medesimo, senza, cioè, che le successive modificazioni tanto della legge vigente, quanto dello stato di fatto possano dispiegare in proposito alcun effetto — si pone in deroga della regola tempus regit actum, regola che, pur non espressamente sancita, si desume a contrario proprio dall'art. 5 c.p.c..

L'applicazione dell'uno o dell'altro principio discenda dalla soluzione della questione di fondo che si è già esaminata e, in definitiva, dalla natura dell'arbitrato:

  • se, cioè, si accede alla premessa da cui ancora muoveva Cass., Sez. Un., 6 settembre 2010, n. 19047, ossia che l'arbitrato rituale abbia natura strettamente privata, e che la decisione arbitrale costituisca «atto riconducibile, in ogni caso, all'autonomia negoziale e alla sua legittimazione a derogare alla giurisdizione, per ottenere una privata decisione della lite, basata non sullo ius imperii, ma solo sul consenso delle parti» (il passo è tratto ovviamente da Cass., Sez. Un., 3 agosto 2000, n. 527), con conseguente qualificazione della questione di arbitrato quale questione non di giurisdizione bensì di merito, pare doversi ritenere che la novella costituita dall'art. 819-ter c.p.c., ponendo il rapporto tra giudici e arbitri in termini di competenza (così da presupporre che l'arbitrato costituisca fenomeno semplicemente sostitutivo della giurisdizione statale, dunque anch'esso partecipe della giurisdizione), abbia inciso sulla «legge vigente» in ordine alla competenza e che, conseguentemente, detto ius superveniens sia sottoposto alla disciplina prevista dall'art. 5 c.p.c., con l'ulteriore conseguenza dell'applicabilità della norma sopravvenuta, ivi compresa la previsione della soggezione della sentenza al regolamento necessario, alle sole controversie introdotte dopo l'entrata in vigore della citata disposizione;
  • se, viceversa, si ricostruisce il fenomeno arbitrale come sostitutivo della giurisdizione, i termini della questione appaiono radicalmente diversi, giacché l'art. 819 ter c.p.c. non ha allora innovato in materia di competenza, ma — per così dire prendendo atto della reale natura dell'arbitrato — ha semplicemente introdotto un nuovo regime di rilevazione e di impugnazione della relativa questione, il che mette fuori causa l'art. 5 c.p.c. ed impone, in applicazione del principio tempus regit actum, l'impiego della regola, scontata sul piano giurisprudenziale, secondo cui, in mancanza di diversa disposizione transitoria, il regime di impugnabilità dei provvedimenti va desunto dalla disciplina vigente «quando essi sono venuti a giuridica esistenza» (così Corte cost., sent. n. 53/2008; Cass. n. 20414/2006; Cass. n. 5342/2009; Cass. n. 9940/2009; Cass. n. 20324/2010, concernenti l'art. 616 c.p.c.), sicché le sentenze pronunciate dopo l'entrata in vigore della legge vanno impugnate esclusivamente con il regolamento necessario o facoltativo secondo i casi.

La soluzione al quesito è allora scontata, dopo che Cass., Sez. Un., 25 ottobre 2013, n. 24153, come si è detto, ha nuovamente riconosciuto natura giurisdizionale all'arbitrato. Allo stato attuale, il giudizio arbitrale ha funzione sostitutiva della giurisdizione ordinaria e dunque partecipa della giurisdizione: per conseguenza l'art. 819 ter c.p.c. non ha introdotto un'innovazione in materia di competenza, innovazione tale da condurre a limitare l'applicazione del regime di impugnabilità delle sentenze mediante regolamento necessario o facoltativo, ivi previsto, alle sole controversie introdotte dopo l'entrata in vigore della norma, ai sensi dell'art. 5 c.p.c., ma si applica in parte qua a tutte le sentenze pronunciate dopo l'entrata in vigore della norma ossia alle decisioni intervenute dopo il 2 marzo 2006, a prescindere dalla data di instaurazione del relativo processo (in questi termini Cass. 25 ottobre 2016, n. 21523).

Un'ulteriore questione in tema di impugnazione. Il succedersi dei diversi orientamenti di cui si è detto ha creato com'è ovvio una certa confusione nei giudici di merito, in particolare nell'adozione della formula da impiegare nell'accogliere l'eccezione di arbitrato, formula che, quando l'eccezione veniva considerata eccezione di merito, era (più o meno) «dichiara improponibile la domanda», e, da quando l'eccezione è tornata ad essere eccezione di incompetenza, è appunto «dichiara la propria incompetenza, competenti essendo gli arbitri». Ora, la Suprema Corte ha precisato che per i fini dell'impugnabilità mediante regolamento di competenza nulla rileva la qualificazione data dal giudice alla propria pronuncia: perciò, la sentenza con la quale il tribunale adito, ignorando la qualificazione dei rapporti di competenza tra arbitri e autorità giudiziaria, data dall'art. 819-ter c.p.c., dichiari improponibile la domanda, dev'essere intesa come pronuncia declinatoria della competenza a favore degli arbitri ed è pertanto impugnabile con il regolamento necessario di competenza (Cass. 4 agosto 2011, n. 17019).

Le norme inapplicabili

Il comma 2 dell'art. 819-ter c.p.c. stabilisce che «nei rapporti tra arbitrato e processo non si applicano regole corrispondenti agli artt. 44, 45, 48, 50 e 295».

Si è però già accennato che la Corte costituzionale ha dichiarato l'incostituzionalità della disposizione nella parte in cui escludeva l'applicazione all'arbitrato della translatio iudicii di cui all'art. 50

Per il resto l'art. 44 c.p.c. stabilisce che il provvedimento con cui il primo giudice declina la propria competenza per territorio derogabile a favore di altro giudice diviene incontestabile se non è tempestivamente impugnato e la causa viene riassunta davanti al giudice indicato come territorialmente competente entro i termini previsti dall'art. 50 c.p.c.. Sembra che la dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 819 ter c.p.c. in relazione all'art. 50 c.p.c. non produca ricadute sull'inapplicabilità dell'art. 44 c.p.c., in forza del quale la sentenza con cui sia stata decisa la questione di competenza non possiede valore vincolante nei confronti degli arbitri: soluzione che è coerente espressione del principio del «doppio binario».

L'art. 45 c.p.c. stabilisce che qualora il giudice adito ai sensi della norma precedente, si ritenga a propria volta incompetente, questi possa richiedere d'ufficio il regolamento di competenza. In proposito la SC ha chiarito che, nell'ipotesi in cui la pronuncia che rigetta l'eccezione di patto compromissorio al contempo dichiari la competenza territoriale di altro giudice, quest'ultimo potrà contestare con il regolamento di ufficio il criterio attributivo della competenza per territorio ma non anche porre nuovamente in discussione la questione della competenza arbitrale (Cass. 26 novembre 2010, n. 24082). Anche in questo caso non vedo interferenze tra la dichiarazione di incostituzionalità di cui ho detto e l'inapplicabilità del citato art. 45.

L'art. 48 c.p.c. impone la sospensione dei procedimenti per i quali sia stato chiesto il regolamento di competenza. Il richiamo, tra le norme escluse, all'art. 48 è stato criticato. Immaginiamo che il giudice abbia rigettato l'eccezione di incompetenza e abbia anche deciso sul merito. In questo caso, se non opera la sospensione, il soccombente non può di fatto proporre il regolamento facoltativo, che gli consumerebbe ineluttabilmente il termine per l'appello. D'altro canto non ha senso costringere l'interessato a proporre simultaneamente sia il regolamento che l'appello.

È parimenti esclusa la sospensione necessaria prevista dall'art. 295 c.p.c..

La translatio iudicii

La SC ha preso atto, com'è ovvio, della dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 819 ter c.p.c., ed anzi ha ritenuto l'applicabilità della translatio iudicii anche nel caso di controversie non soggette ratione temporis alla norma. È stato cioè affermato che lo stabilire se una controversia spetti, o meno, alla cognizione degli arbitri integra - a seguito di overruling giurisprudenziale dovuto alla pronuncia delle Sezioni Unite n. 24153 del 2013 - una questione di competenza, sicché, nell'ipotesi di declinatoria della competenza da parte del giudice statale, trova applicazione anche l'art. 50 c.p.c., attesa la necessità di conservazione degli effetti, sostanziali e processuali, della domanda originariamente proposta davanti a quest'ultimo (Cass. 21 gennaio 2016, n.1101).

La dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 819 ter c.p.c. pone naturalmente problemi applicativi che l'art. 50 c.p.c. non si pone il problema di disciplinare. D'altronde, all'esito della dichiarazione di incostituzionalità, la norma secondo cui «nei rapporti tra arbitrato e processo non si applicano regole corrispondenti agli artt. … 50 …» ha da essere letta come se stabilisse che in tali rapporti «si applicano regole corrispondenti», ma congruamente adattate, a quelle previste dall'art. 50 c.p.c.. Ora, la norma stabilisce che a seguito della tempestiva riassunzione della causa, il processo «continua» dinanzi al nuovo giudice, o in questo caso eventualmente all'arbitro, altrimenti si estingue.

Nel caso di declinatoria di competenza dell'arbitro, ex art. 817 c.p.c., sorge anzitutto il problema del termine per effettuare la «riassunzione». Qui non si può applicare direttamente l'art. 50 c.p.c., che non si riferisce alla dichiarazione di incompetenza mediante il lodo, ma si tratta di individuare una regola «corrispondente» a quella prevista dall'art. 50 c.p.c.. Sembra che in questo caso il termine debba essere fatto decorrere dalla comunicazione del lodo di cui all'art. 824 c.p.c.. Un ragionamento diverso si potrebbe fare a partire dal già citato art. 59 della legge n. 69 del 2009, il quale prevede per la riassunzione «il termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della pronuncia» che ha deciso sulla giurisdizione. Tuttavia non sembra che questo precetto possa essere importato nel campo dei rapporti tra giudice e arbitro. Quando si discorre di giurisdizione, ha senso che la translatio iudici si attui soltanto quando il plesso giurisdizionale adito ha definitivamente stabilito di non avere giurisdizione. In caso di rapporti tra giudice e arbitro, che si pongono più o meno in termini di competenza semplice, il riferimento al passaggio in giudicato non sarebbe appropriato. In ogni caso non si può consigliare ad un avvocato di avvalersi del termine più lungo, ma per ovvie ragioni precauzionali di avvalersi di quello più breve. Certo, la soluzione non è indolore: ed infatti una volta che gli arbitri abbiano dichiarato l'incompetenza, se si accede alla soluzione secondo cui la «riassunzione» va fatta nel termine computato a partire dalla comunicazione del lodo, la parte non ha la possibilità di impugnare il lodo per far accertare l'erroneità della declaratoria di incompetenza, ma deve in buona sostanza sottomettersi ad essa. Ma questo in definitiva dipende dallo stesso carattere del lodo, che naturalmente non è suscettibile di impugnazione per regolamento di competenza. Non sembra potersi dubitare l'applicabilità della sospensione feriale.

Quanto alle caratteristiche dell'atto con cui si realizza la translatio iudicii, la denominazione dell'atto come riassunzione o altro non avrà alcun rilievo decisivo. Piuttosto, tale atto deve possedere tutti i requisiti dell'atto introduttivo del giudizio dinanzi al giudice: insomma dovrà trattarsi (se parliamo di una declaratoria in favore del giudice ordinario) di un atto che ha il contenuto, a seconda dei casi, della citazione ovvero del ricorso (poniamo p. es. in materia di locazione), anche ai sensi dell'art. 702 bis c.p.c.: se è vero che il procedimento sommario di cognizione è un procedimento ordinario semplificato, non vi sono infatti ostacoli all'impiego del sommario in fase di riassunzione. In questo caso dunque la tempestività della «riassunzione» andrà verificata in base alla data di deposito del ricorso.

È da credere che non possa farsi riferimento alla translatio iudicii che si attua in caso di dichiarazione del difetto di giurisdizione ai sensi dell'art. 59 della legge n. 69 del 2009, laddove stabilisce che in caso di tempestiva riassunzione restano ferme restando le preclusioni e le decadenze intervenute. Nel caso previsto da questa norma abbiamo il passaggio dal giudice di una giurisdizione al giudice di un'altra giurisdizione, nel nostro caso il passaggio dall'arbitro al giudice: ora, visto che nel procedimento arbitrale non è previsto un sistema di preclusioni e decadenze, tali da potersi stabilizzare, nulla osta ad un ampio dispiegamento di nova e ad una complessiva reimpostazione della lite, fermi personae, causa petendi e petitum. Anzi, non sembra potersi negare l'ammissibilità dinanzi al giudice di domande ed eccezioni nuove, ossia non proposte dinanzi agli arbitri: un simile divieto richiederebbe un espresso fondamento normativo, che non sembra si possa individuare nella semplice previsione contenuta nell'art. 50 c.p.c. secondo cui a seguito della riassunzione il processo «continua davanti al nuovo giudice».

Può darsi il caso che la controversia, nel passaggio dall'arbitro al giudice, richieda la realizzazione di una condizione di procedibilità quali l'espletamento della mediazione oppure nella negoziazione assistita. Ma qui non dovrebbero esservi difficoltà, dal momento che si può provvedere alla «riassunzione» e poi ottenere dal giudice l'assegnazione del termine necessario.

Nel caso opposto di declinatoria di competenza da parte del giudice, quanto al termine non sorgono problemi: occorre cioè far riferimento al termine fissato nella sentenza che dichiara l'incompetenza ovvero al termine di tre mesi dalla comunicazione della stessa sentenza ai sensi dell'art. 133, comma 2, c.p.c.. Non avrei dubbi anche qui che un simile termine sia sottoposto alla sospensione dei termini feriali.

Non si tratterà di un atto di riassunzione in senso tecnico, che non è previsto, ma, previa effettuazione degli adempimenti necessari alla costituzione del collegio arbitrale, anche qui del normale atto introduttivo del giudizio arbitrale, ossia la domanda di arbitrato, contenente eventualmente i necessari riferimenti ai precedenti atti di causa, atto da notificare, previo rilascio di una nuova procura alle liti, se necessaria, entro il termine di cui ho già detto ai fini della conservazione degli effetti sostanziali e processuali dell'originaria domanda. Analoghe regole si applicheranno nell'ipotesi in cui la riassunzione venga effettuata ad opera del convenuto nel giudizio conclusosi con la declinatoria di competenza.

Nella direzione giudice-arbitro la difficoltà maggiore, al momento della translatio iudicii, è quella derivante dalla necessità di costituire il collegio arbitrale. Ormai il termine massimo previsto dall'art. 50 c.p.c. è di tre mesi, ed è chiaro che se una delle parti fa resistenza passiva, con la conseguente necessità di rivolgersi al presidente del tribunale ai sensi dell'art. 810 c.p.c. per la nomina degli arbitri, i tre mesi potrebbero non bastare. Qui non sembra esservi altra strada che avvalersi della rimessione in termini di cui all'art. 153, comma 2, c.p.c..

L'esigenza della translatio iudicii giudice-arbitro può prospettarsi in caso di opposizione a decreto ingiuntivo. L'indirizzo della Suprema Corte, in proposito, si compendia in ciò, che l'esistenza di una clausola compromissoria non esclude la competenza del giudice ordinario ad emettere un decreto ingiuntivo (atteso che la disciplina del procedimento arbitrale non contempla l'emissione di provvedimenti inaudita altera parte), ma impone a quest'ultimo, in caso di successiva opposizione fondata sull'esistenza della detta clausola, la declaratoria di nullità del decreto opposto (Cass. 28 luglio 1999, n.8166). Si tratta di un indirizzo conforme ad un'ampia giurisprudenza di legittimità, secondo cui la dichiarazione di incompetenza da parte del giudice dell'opposizione a decreto ingiuntivo segue automaticamente la revoca del provvedimento monitorio. In altre parole, la sentenza con cui il giudice, in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, dichiara l'incompetenza territoriale non comporta anche la declinatoria della competenza funzionale a decidere sull'opposizione ma contiene necessariamente, ancorché implicita, la declaratoria di invalidità e di revoca del decreto stesso, sicché quello che trasmigra innanzi al giudice ad quem deve considerarsi non più, propriamente, una causa di opposizione a decreto ingiuntivo (che più non esiste), bensì un ordinario giudizio di cognizione concernente l'accertamento del credito dedotto nel ricorso monitorio. Tale pronuncia, peraltro, decidendo solo in ordine alla competenza ed alle spese, deve essere impugnata esclusivamente con il regolamento di competenza di cui all'art. 42 c.p.c., anche se emessa in grado di appello (Cass. 26 gennaio 2016, n. 1372).

Dopo la dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 819-ter c.p.c., il giudice dell'opposizione a decreto ingiuntivo, dichiarata la propria incompetenza e revocato il decreto ingiuntivo, dovrà assegnare il termine per la riassunzione dinanzi agli arbitri sul modello dell'art. 50 c.p.c., ed in caso contrario la riassunzione potrà effettuarsi nel termine massimo previsto dalla norma, secondo le regole ordinarie.

Di recente in dottrina si è sostenuto che la dichiarazione di incompetenza del giudice non travolgerebbe in questo caso il decreto ingiuntivo, che rimarrebbe in piedi per tutto il corso del giudizio arbitrale e che, comunque, non potrebbe com'è ovvio essere reso esecutivo dagli arbitri, ma potrebbe esserlo dal giudice all'esito del giudizio arbitrale. Sembra essere una soluzione creativa che allo stato non ha nessuna base normativa. Pare cioè che, ferma la translatio iudicii, il decreto ingiuntivo rimane travolto dalla dichiarazione di incompetenza in favore degli arbitri.

Cognizione in via principale dell'accordo compromissorio

Ai sensi del comma 3 dell'art. 819 ter c.p.c. nel corso del giudizio arbitrale le parti non possono proporre domande giudiziali dirette a far valere l'invalidità della convenzione arbitrale.

La disposizione ha il fine di impedire l'impiego strumentale di simili iniziative allo scopo di paralizzare il giudizio arbitrale. La norma mira cioè a proteggere dalle ingerenze del giudice statale la potestà arbitrale di decidere su validità ed efficacia della convenzione d'arbitrato prevista dall'art. 817, comma 1, c.p.c..

La questione posta dalla norma non sta tanto nel suo significato positivo, che è chiaro, ma nella fondatezza di una lettura a contrario della norma, la quale consenta di ritenere che essa, prima dell'inizio dell'arbitrato, consenta la proponibilità di una domanda giudiziale diretta a far valere invalidità od inefficacia della convenzione arbitrale.

Si tratta di un problema discusso in dottrina, e che è risolto in prevalenza in senso positivo, ossia per l'ammissibilità di un'azione, introdotta prima del giudizio arbitrale, volta alla verifica della validità ed efficacia della convenzione d'arbitrato.

In contrario si osserva che tale soluzione attribuirebbe al giudice proprio quel potere di sindacato della convenzione di arbitrato che l'art. 817, comma 3, intende contrastare, in conflitto altresì con il principio del «doppio binario» sancito dal comma 1 dell'art. 819 terc.p.c..

D'altro canto è in se stesso legittimo, a prescindere dall'art. 819 ter, comma 3, c.p.c., il dubbio che si possa proporre una domanda giudiziale su validità ed efficacia di un patto compromissorio. Alla luce della qualificazione dei rapporti fra arbitro e giudice come questione di competenza, l'azione mirerebbe infatti ad ottenere nient'altro che una pronuncia sulla sussistenza della competenza del giudice o dell'arbitro, ma risulterebbe inammissibile per difetto di interesse ad agire.

In questo senso si è pronunciata la SC in un precedente risalente però a 60 anni fa, secondo cui: «L'indagine sulla validità e sulla portata di una clausola compromissoria si risolve sempre nella ricerca di quell'effetto di diritto processuale, che le è connaturale ed esclusivo, di sottrarre al giudice ordinario la cognizione di una o più controversie di diritto sostanziale, con la conseguente attribuzione delle controversie medesime al giudice privato. Trattandosi, quindi, di una indagine che si risolve sempre in una questione di competenza, ne deriva che, come sarebbe improponibile davanti a qualsiasi giudice una questione generica ed astratta di competenza, senza la deduzione contemporanea di una controversia di diritto sostanziale, in relazione alla quale occorra risolvere il dubbio sulla scelta del giudice che dovrà provvedere sulla controversia stessa, così non può ammettersi né un giudizio di mero accertamento sulla validità e sulla portata della clausola compromissoria, né, per conseguenza, che la decisione su tale punto costituisca un capo autonomo della sentenza, munito di un'autorità propria di giudicato, indipendentemente dalla pronunzia sulla competenza a provvedere sulla domanda di diritto sostanziale» (Cass. 27 luglio 1957, n. 3167). Anche in tempi meno remoti si è ribadito che: «Un'azione di mero accertamento sulla validità e sulla portata della clausola compromissoria, senza la contemporanea deduzione di una controversia relativa ad un diritto sostanziale, è improponibile per difetto di interesse, in quanto condurrebbe ad una generica affermazione di competenza, sfornita di efficacia preclusiva per il giudice che fosse chiamato successivamente a provvedere su una domanda determinata» (Cass. 28 marzo 1991, n. 3361).

In tempi più recenti si è invece affermato il contrario: «Ai sensi dell'art. 819-ter, ultimo comma, c.p.c., così come novellato dall'art. 22 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, in pendenza del procedimento arbitrale non possono proporsi all'autorità giudiziaria domande aventi ad oggetto l'invalidità o inefficacia della convenzione d'arbitrato, dovendosi ritenere, per converso, che possa essere proposta una domanda giudiziale intesa ad ottenere la declaratoria della invalidità o dell'inefficacia della convenzione, quando non sia stata introdotta una controversia davanti agli arbitri sulla base della convenzione stessa. L'invalidità o l'inefficacia della convenzione d'arbitrato può essere invocata davanti all'autorità giudiziaria con autonoma domanda di accertamento, o unitamente alla domanda relativa al rapporto cui la clausola compromissoria troverebbe applicazione, ovvero, ancora, in via di controeccezione proposta dalla parte attrice, allorché la parte convenuta abbia eccepito l'esistenza della clausola compromissoria invocando la competenza arbitrale. Ove avverso la decisione del giudice di merito, affermativa o negativa della competenza arbitrale, venga proposto regolamento di competenza, detto giudizio compete alla Corte di cassazione, nell'ambito dei poteri di statuizione sulla competenza» (Cass. 4 agosto 2011, n.17019).

Guida all'approfondimento
  • Boccagna, Appunti sulla nuova disciplina dei rapporti tra arbitrato e giurisdizione, in AA. VV., Studi in onore di Carmine Punzi, II, Torino, 2008, 324;
  • Boccagna, L'arbitrato irrituale dopo la «svolta» negoziale della Cassazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2004, 759;
  • Boccagna, Art. 819 ter c.p.c., in AA. VV., Codice di procedura civile commentato, diretto da Consolo, Milano, 2010, III, 1924;
  • Bove, Ancora sui rapporti tra arbitro e giudice statale, in Riv. arb., 2007, 357;
  • Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, Napoli, 1923; Consolo-Godio, Arbitrato e decreto ingiuntivo - tralatizi orientamenti sulla sorte del d.i. opposto per clausola arbitrale (rituale), in Giur. It., 2016, 10, 2216;
  • Luiso, Rapporti fra arbitro e giudice, in AA. VV., La riforma della disciplina dell'arbitrato (L. n. 80/2005 e D. Lgs. n. 40/2006), a cura di Fazzalari, Milano, 2006, 111;
  • Nela, Art. 819 ter c.p.c., in AA. VV., Le recenti riforme del processo civile, a cura di Chiarloni, Bologna, 2007, II, 1809; Ricci, Art. 819 ter c.p.c., in AA. VV., Arbitrato, a cura di Carpi, Bologna, 2007, 500;
  • Ruffini, Art. 819 ter c.p.c., in AA. VV., La nuova disciplina dell'arbitrato, a cura di Menchini, Padova, 2010, 364; Verde, Lineamenti di diritto dell'arbitrato, Torino, 2010.

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