Il novellato art. 591 c.p.c.: il meccanismo di ribasso del prezzo

19 Luglio 2016

L'ennesima riforma del processo esecutivo, adottata con procedura d'urgenza (d.l. 3 maggio 2016, n. 59, convertito con modificazioni dalla l. 30 giugno 2016, n. 119), ha tra l'altro modificato la disciplina sul ribasso del prezzo di vendita nell'espropriazione immobiliare, attraverso l'interpolazione dell'art. 591, comma 2, c.p.c.. Sul piano generale, la riforma del 2016 ha introdotto modifiche al Libro III del codice di procedura civile che spesso recano serie difficoltà di coordinamento sistematico: la caotica produzione normativa vede - con cadenza oramai annuale, specie dal 2014 - interventi del legislatore ora su norme di sistema, ora su norme di dettaglio, non sempre in una prospettiva unitaria ed omogenea e, soprattutto, adeguatamente ragionata. Nella nota, viene esaminata la novità legislativa sul meccanismo di ribasso del prezzo in una prospettiva di sistema, evidenziandone i punti fermi e i nodi critici, avuto riguardo alla precisa opzione legislativa di fondo, emergente negli ultimi anni, di privilegiare il fattore “tempo” rispetto alla massimizzazione del “valore” del bene staggito.
La determinazione del prezzo di vendita

A livello generale, il sistema di determinazione del prezzo di vendita, nell'espropriazione immobiliare, ha tradizionalmente ed essenzialmente fatto perno su tre disposizioni del codice di rito: gli artt. 568, 586 e 591.

  • L'art. 568, rubricato «Determinazione del valore dell'immobile», concernente appunto l'individuazione del valore da attribuire al bene pignorato «agli effetti dell'espropriazione» (così, significativamente, l'ìncipit del comma 1);
  • L'art. 586, concernente i poteri di sospensione della vendita (trattasi, in realtà, di potere di revoca dell'aggiudicazione) attribuiti al giudice dell'esecuzione nel caso in cui il prezzo offerto e versato dall'aggiudicatario sia notevolmente inferiore a quello “giusto”;
  • L'art. 591, infine, relativo alle opzioni offerte al giudice dell'esecuzione nel caso in cui la disposta vendita non abbia avuto esito positivo.

Solo l'art. 586 c.p.c. è uscito indenne dalla tornata normativa degli ultimi anni; l'art. 568 c.p.c. è stato infatti totalmente riscritto dalla riforma del 2015 (art. 13 del d.l. 27 giugno 2015, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla l. 6 agosto 2015 n. 132), mentre l'art. 591 c.p.c. è stato oggetto delle “attenzioni” del legislatore sia nel 2015 che nel 2016 (da ultimo, art. 4 del d.l. 3 maggio 2016, n. 59, convertito con modificazioni dalla l. 30 giugno 2016, n. 119).

Si tratta, com'è comprensibile, di interventi spesso mal coordinati tra loro, che costringono l'interprete a difficili ricostruzioni di tenuta sistematica; e che vedono, sullo sfondo, l'irrisolto equivoco derivante dalla sostanziale inutilità (se non dannosità) dell'istituto della vendita con incanto, e dalla conseguente presa d'atto dell'opportunità della sua formale eliminazione dal sistema.

È un problema rimasto sul tappeto sin dal 2005, epoca della prima importante riforma in materia esecutiva (d.l. 14 marzo 2005, n. 35, conv. con modif., dalla l. 14 maggio 2005, n. 80, nonché l. 28 dicembre 2005, n. 263), che ha meritoriamente recepito quanto emergente dalle cc.dd. “prassi virtuose”, sperimentate in molti Tribunali, specie mediante la valorizzazione della vendita senza incanto; questa – che non è certo una vendita a trattativa privata – è una forma di vendita rimasta tendenzialmente disapplicata nell'esperienza pratica fino alla fine degli anni '90, ma riscoperta principalmente per merito di alcuni Tribunali (Bologna e Monza, in particolare), in quanto recante due vantaggi essenziali, che la lasciavano ampiamente preferire rispetto al modello della v.c.i. e che ne determinarono il successo (con effetti moltiplicativi giunti in alcuni Uffici, in termini comparativi e in aggiunta ad altri accorgimenti, quali la nomina sistematica del custode, un sistema di pubblicità più efficace, ecc., ad incrementi fino al 1200% su base annua rispetto al sistema tradizionale): l'irrevocabilità dell'offerta (art. 571 comma 3, c.p.c.) e la definitività dell'aggiudicazione, non essendo compatibile con la v.s.i. il meccanismo dell'offerta in aumento ex art. 584 c.p.c..

Già nel 2005 il legislatore non ebbe il coraggio di accompagnare al “meritato” oblio un istituto, quello della v.c.i., che per oltre sessant'anni era stato il principale strumento a disposizione degli speculatori di professione e causa principale dell'inefficienza delle vendite giudiziarie; si previde così, con la riscrittura dell'art. 569 c.p.c., il curioso sistema della “doppia vendita”, dovendo il giudice fissare dapprima la v.s.i. e, per il caso in cui questa non si fosse tenuta per le più svariate ragioni, la v.c.i., ma alle stesse condizioni! Bizantinismo foriero soltanto di spreco di tempo e di denaro, quest'ultimo pur sempre gravante sul debitore. Solo con la riforma del 2014 (d.l. 12 settembre 2014, n. 132, convertito dalla l. 10 novembre 2014, n. 162) si è eliminata tale stortura, ma anziché seguire la via maestra dell'abrogazione della v.c.i., si è preferito introdurre una norma “a contenuto impossibile”, come pure è stata definita in dottrina, mediante la riscrittura del secondo periodo dell'art. 569, comma 3, c.p.c., prevedendosi che il giudice debba disporre l'incanto «solo quando ritiene probabile che la vendita con tale modalità possa aver luogo ad un prezzo superiore della metà rispetto al valore del bene, determinato a norma dell'articolo 568», norma anticipata sul piano sistematico, in via generale, dall'introduzione, nell'art. 503 c.p.c., del comma 2, di analogo contenuto (la stortura del riferimento al solo art. 568 c.p.c. ivi contenuta, a proposito dell'approssimazione del metodo, è stata corretta solo col d.l. n. 59/2016, mediante l'introduzione del riferimento agli artt. 518 e 540-bis c.p.c., per il caso di espropriazione mobiliare).

In questo quadro, quindi, si innestano sul piano generale i già citati artt. 568, 586 e 591 c.p.c. ai fini della determinazione del prezzo di vendita. L'art. 568 c.p.c., come detto, è stato radicalmente modificato dalla riforma del 2015, che ha abbandonato la linea oramai anacronistica della determinazione meccanicistica del valore (mediante il rinvio ai criteri di cui all'art. 15 c.p.c.) e della mera eventualità dell'apporto dell'esperto stimatore, sostanzialmente rendendone la nomina obbligatoria. Ciò che peraltro è del tutto in linea con la centralità della perizia di stima sancita dall'art. 173-bis disp. att. c.p.c., disciplinante il contenuto come elaborato dalle cc.dd. “prassi virtuose” e mutuato dal legislatore del 2005: la perizia, avuto riguardo al suo contenuto come prescritto, costituisce il vero architrave delle fasi espropriativa e liquidatoria del processo esecutivo, tanto che l'espressione valoriale del bene - presupponendo molteplici indagini e accertamenti, tutti ormai elencati dal citato art. 173-bis - costituisce sì un momento centrale della valutazione dell'esperto, ma non certo l'unico (come, invece, era prassi sistematica fino ad allora, assistendosi non di rado a stime prive di ogni approfondimento e significato e spesso effettuate “sulla carta”, ossia senza neanche accedere all'immobile).

La novità introdotta nel 2015 consiste, principalmente, nella esplicitazione del fatto (cui comunque era sostanzialmente giunta la giurisprudenza di legittimità sull'interpretazione dell'art. 586 c.p.c. circa il “giusto” prezzo – v. ad es. Cass. civ., 6 agosto 1999, n. 8464) che il valore determinato ai fini dell'espropriazione ha come punto di partenza il valore di mercato del bene, ma non si identifica con esso. Occorre infatti che l'esperto, dopo aver individuato il valore di mercato, proceda ad una serie di correttivi, «compresa la riduzione del valore di mercato praticata per l'assenza della garanzia per vizi del bene venduto», e tenga comunque conto di quanto occorrente per l'eventuale regolarizzazione urbanistica dell'immobile, del suo stato d'uso e di manutenzione, dello stato di possesso, nonché dei vincoli e oneri giuridici non eliminabili nel corso della procedura o delle eventuali spese condominiali insolute.

Anche la tecnica dei “correttivi” alla stima è stata mutuata dalle cc.dd. “prassi virtuose”, nel cui ambito essa trovava giustificazione, oltre che per l'assenza di garanzia per vizi occulti nelle vendite forzate, ex art. 2922 c.c., anche per la differenza tra oneri tributari calcolati sul prezzo pieno anziché sui valori catastali (come di prassi avveniva per le vendite commerciali): era cioè un modo per attrarre il pubblico dei potenziali interessati ed avvicinarlo al sistema della vendita forzata, mediante un ribasso forfetario, senza che ciò comportasse però rinuncia alla massimizzazione del realizzo (demandata al rafforzamento delle informazioni pubblicitarie e al meccanismo salvifico della gara). Nella prassi, tale abbattimento forfetario si attestava tra il 10 e il 20% del valore-base individuato dall'esperto.

Tutto quanto precede, ovviamente, concerne la determinazione del prezzo da fissarsi nella prima ordinanza di vendita ex art. 569 c.p.c. e ora, a seguito della sostanziale obbligatorietà delle delega delle operazioni di vendita ex art. 591-bis c.p.c., introdotta dalla riforma del 2015, nel primo avviso di vendita emesso dal professionista delegato.

La compatibilità del sistema dei ribassi col “giusto” prezzo

Com'è ovvio, poiché il processo esecutivo per espropriazione interagisce con l'economia reale, tendendo ad intercettare l'interesse di terzi estranei potenziali acquirenti del bene pignorato, l'esito positivo della prima vendita è eventualità possibile ma non univoca, se non anche rara. Ciò può dipendere da molteplici fattori, quali ad es. l'inattendibilità o eccessività della stima e quindi del prezzo, le condizioni di occupazione del bene, la chiarezza e completezza delle informazioni (contenute nella perizia), la possibilità di visitare l'immobile, le condizioni generali dell'economia (questione particolarmente avvertita in questi anni) o anche l'oggettiva invendibilità del bene stesso, per le sue intrinseche condizioni che lo rendono del tutto inappetibile. Tranne quest'ultima ipotesi, per la quale l'esito naturale del processo è la pronuncia di improseguibilità ex art. 164-bis disp. att. c.p.c. per antieconomicità, in tutte le altre ipotesi si tratta di fattori sia endogeni che esogeni alla procedura, dinanzi ai quali il giudice dell'esecuzione deve attivare tutti i poteri per ovviarvi, anche in via preventiva: nominare esperti dotati della necessaria professionalità (che non è certo garantita dalla mera iscrizione all'Albo dei CTU), nominare il custode giudiziario (che nelle migliori prassi è una sorta di curator minor, insomma un “piccolo curatore fallimentare”), disporre la liberazione dell'immobile ex art. 560 c.p.c., e così via. Si tratta di condizioni minimali (ma essenziali) di buona amministrazione del processo esecutivo, la cui osservanza mira ad attenuare quanto più possibile le inevitabili discrasie tra il mercato immobiliare commerciale e quello delle vendite forzate.

Ciononostante, tuttavia (e a maggior ragione ove – colpevolmente – il giudice dell'esecuzione non adotti tali accorgimenti, peraltro adesso espressamente previsti dalla legge), nel caso in cui la disposta vendita abbia esito negativo, non v'è altra strada che agire sulla principale leva idonea ad intercettare l'interesse di potenziali acquirenti: il prezzo.

La relativa disciplina è dettata, appunto, dall'art. 591 c.p.c., ma prima di analizzarla, vale la pena sottolineare (riscontrandosi nella prassi giudiziaria, assai spesso, una certa confusione sul punto) che l'adozione di plurimi ribassi del prezzo di vendita a seguito di altrettante diserzioni dei singoli esperimenti, in condizioni di regolarità procedurale, giammai può incidere sul parametro della “giustezza” del prezzo dettato dall'art. 586 c.p.c..

Il principio si trova expressis verbis affermato nella recente Cass. civ., 21 settembre 2015, n. 18451, con cui la S.C., alle prese con un caso in cui erano stati effettuati ben sette esperimenti di vendita consecutivi, ha appunto evidenziato (in motivazione) che «il prezzo corrispondente all'offerta deve risultare ‘ingiusto' perché vi è stata un'anomalia che non lo ha reso o può non averlo reso ‘giusto' nella sequenza procedimentale. Ciò può essere dipeso solo dalla circostanza che tale sequenza non ha avuto luogo secondo le modalità fissate dalla legge».

In definitiva, secondo tale importante pronuncia, che ha il merito di aver effettuato un'ampia ricognizione dello stato dell'arte sul punto, il potere di sospensione di cui all'art. 586 c.p.c. «può essere esercitato allorquando: a) si verifichino fatti nuovi successivi all'aggiudicazione; b) emerga che nel procedimento di vendita si siano verificate interferenze illecite di natura criminale che abbiano influenzato il procedimento, ivi compresa la stima stessa; c) il prezzo fissato nella stima posta a base della vendita sia stato frutto di dolo scoperto dopo l'aggiudicazione; d) vengano prospettati, da una parte del processo esecutivo, fatti o elementi che essa sola conosceva anteriormente all'aggiudicazione, non conosciuti né conoscibili dalle altre parti prima di essa, purché costoro li facciano propri, adducendo tale tardiva acquisizione di conoscenza come sola ragione giustificativa per l'esercizio del potere del giudice dell'esecuzione».

Al di fuori di tali ipotesi, quindi, e salvo che non intervengano modificazioni oggettive del bene (da intendersi in senso materiale o giuridico – ad es., rispettivamente, parziale rovina del bene, ovvero modifica della sua destinazione urbanistica), la determinazione del prezzo operata dal giudice dell'esecuzione a seguito di esito negativo dell'esperimento di vendita, secondo quanto disposto dall'art. 591 c.p.c., non può mai comportare la “ingiustizia” del prezzo, ai sensi dell'art. 586 c.p.c..

Il meccanismo di ribasso del prezzo ai sensi del novellato art. 591 c.p.c.

Le norme di chiusura del procedimento di vendita, in caso di suo esito negativo, sono dettate dall'art. 591, commi 1 e 2, c.p.c., che nell'assetto delineato dalla riforma del 2015 attribuiscono al giudice, in tale ipotesi, una triplice possibilità d'intervento:

1) disporre l'amministrazione giudiziaria, disciplinata dagli artt. 592-595 c.p.c.;

2) disporre la vendita con incanto ai sensi dell'art. 576 c.p.c., qualora ritenga che essa possa aver luogo per un valore che superi della metà quello determinato ai sensi dell'art. 568 c.p.c.; 3) infine, disporre una nuova vendita senza incanto a diverse condizioni, operando la riduzione del prezzo, rispetto a quello rifiutato dal mercato, fino al limite di un quarto (dapprima, dopo la riforma del 2005, si faceva riferimento al limite “secco” di un quarto, ma non era dubbio che il giudice potesse modulare il ribasso anche in misura inferiore al 25%).

L'art. 4 del d.l. 3 maggio 2016, n. 59, convertito con modificazioni dalla l. 30 giugno 2016, n. 119, ha infine interpolato l'art. 591, comma 2, c.p.c., prevedendo che nel caso in cui il giudice dell'esecuzione fissi nuova vendita senza incanto (ossia, nell'ipotesi sub 3), dopo il quarto tentativo di vendita andato deserto, egli possa ribassare fino al limite della metà rispetto al prezzo base dell'ultimo esperimento.

Ora, è evidente che la possibilità di far ricorso alla vendita con incanto (sub 2) si pone esattamente nei termini sopra descritti in linea generale circa il contenuto impossibile di una norma che subordini l'utilizzo di tale modalità a meri poteri divinatori del giudice, tanto più che, a differenza che nell'art. 503, comma 2, e nell'art. 569, comma 3, c.p.c., in questo caso manca perfino il riferimento alla mera “probabilità” che possa ottenersi, addirittura, un prezzo pari ad una volta e mezzo quello di stima.

In definitiva, a parte il ricorso all'amministrazione giudiziaria, al giudice non resta che decidere se modificare le condizioni di vendita o le forme di pubblicità, ribassando il prezzo (fino ad un quarto per i primi tre esperimenti di vendita, e fino alla metà dal quarto in poi) e avviando, quindi, un nuovo procedimento di vendita senza incanto, secondo quanto disposto dall'art. 569 c.p.c.. Con la precisazione che i ribassi del prezzo disposti secondo lo schema descritto – non potendo porsi in tal caso, per quanto prima detto, alcun problema di “ingiustizia” del prezzo ex art. 586 c.p.c. – dovranno susseguirsi fino a che non possa ritenersi che la esecuzione sia divenuta antieconomica ai sensi dell'art. 164-bis disp. att. c.p.c..

Peraltro, come già anticipato, il “nuovo” art. 591 c.p.c. sconta la stratificazione normativa di cui è frutto, nonché il mancato coordinamento con le assai significative novità apportate nel triennio 2014-2016 all'istituto della vendita senza incanto nonché a quello dell'assegnazione.

Vi sono, in particolare, almeno due indici che ciò denotano:

  • il primo, derivante dall'ìncipit del primo comma, laddove si fa riferimento al potere del giudice dell'esecuzione di non accogliere le istanze di assegnazione presentate a norma dell'art. 588 c.p.c., che pare stridere con la funzione di salvaguardia attribuita all'istituto dell'assegnazione dai novellati artt. 572, comma 3, e 573, commi 2 e 4, c.p.c., essendo il giudice tenuto, nelle ipotesi ivi previste, a procedere all'assegnazione, senza alcuna discrezionalità;
  • il secondo indice può individuarsi nell'ultimo comma dello stesso art. 591 c.p.c., introdotto dalla riforma del 2015, che così recita: «Se al secondo tentativo la vendita non ha luogo per mancanza di offerte e vi sono domande di assegnazione, il giudice assegna il bene al creditore o ai creditori richiedenti, fissando il termine entro il quale l'assegnatario deve versare l'eventuale conguaglio. Si applica il secondo comma dell'articolo 590».

La norma, nel suo tenore letterale, sembra disporre in modo antitetico rispetto a quanto oggi dettato per l'assegnazione nell'espropriazione immobiliare dagli artt. 588-590 c.p.c., specie in rapporto con la disciplina della v.s.i. di cui agli artt. 572-573 c.p.c., giacchè il potere di presentare la relativa istanza non è minimamente subordinato al fatto che debba previamente essere stato espletato almeno un esperimento di vendita, ben potendo anzi essa addirittura impedire l'aggiudicazione in sede di primo tentativo: la norma, valutata nell'ambito del sistema, è quindi di contenuto obiettivamente oscuro. Del resto, anche dal punto di vista meramente grafico, sarebbe ben strano che tale pregnante limitazione fosse disciplinata da un articolo, il 591 c.p.c., che non costituisce la sedes materiae dell'istituto dell'assegnazione.

Il vero è, come è stato osservato in dottrina, che l'ultimo comma dell'art. 591 c.p.c. è frutto di una innovazione apportata dal d.l. n. 83/2015, che non è stata coordinata con le successive modifiche all'art. 573 c.p.c. (introdotte, all'esito del passaggio parlamentare, dalla legge di conversione) che vincolano il giudice ad accogliere – sin dal primo tentativo di vendita - l'istanza di assegnazione se la singola offerta presentata, ovvero, in caso di più offerte, se il prezzo risultante dall'esito della gara, siano inferiori al prezzo base. Come prima osservato, infatti, l'istanza di assegnazione, che deve sempre procedere per un valore non inferiore al prezzo base, ha oggi una funzione di salvaguardia, impedendo l'aggiudicazione in favore dell'offerente “minimo” e imponendo al giudice di procedere all'accoglimento dell'istanza stessa, senza alcuna discrezionalità.

Insomma, in relazione ad entrambe le aporie segnalate, in sede di conversione del d.l. n. 83/2015 il legislatore avrebbe dovuto riscrivere i commi 1 e 3 dell'art. 591 c.p.c., proprio perché nel passaggio parlamentare si rovesciò il rapporto tra offerta minima e istanza di assegnazione, come originariamente previsto dal Governo. Ma ciò il legislatore non ha fatto, sicchè non resta che prenderne atto e interpretare dette norme nella giusta prospettiva.

In conclusione

È evidente che lo scopo della riforma del 2016, nella parte relativa all'art. 591, comma 2, c.p.c., è quello di promuovere un più rapido abbattimento del prezzo riguardo a beni che, pur dopo tre ribassi, non hanno ancora incontrato il favore del mercato. Trattasi però di un potere da esercitare con estrema cautela, dal momento che, per effetto delle modifiche apportate agli artt. 572 e 573 c.p.c. dalla riforma del 2015, l'offerta minima per la partecipazione alla vendita senza incanto può essere inferiore al valore del bene determinato ai sensi dell'art. 568 c.p.c. e fissato nell'ordinanza di vendita, ma non oltre un quarto (ossia, dev'essere pari ad almeno il 75% del detto valore): il che comporta che, già al secondo esperimento di vendita, ove il giudice (o il p.d.) abbia ribassato di un quarto ai sensi dell'art. 591 c.p.c., senza graduare nell'ambito del massimo consentito (“fino a”), l'offerta minima per la partecipazione alla gara potrà essere pari a poco più della metà del valore-base (ossia, il 56,25% del valore di stima); al terzo esperimento, l'offerta minima potrà essere pari al 42,2% del valore di stima. E così via.

Si tratta di una precisa scelta politica del legislatore che, come abbiamo evidenziato nell'introduzione di queste brevi note, ha deciso da ultimo di “premiare” la celerità della vendita forzata rispetto all'obiettivo della massimizzazione del ricavato; ciò in quanto il fattore “tempo” di realizzo ha un indubbio valore, tenuto anche conto del fatto che la maggiore lentezza della procedura derivante dal previgente sistema, di per sé, non garantiva comunque livelli di ricavo elevati (secondo un recente studio della Banca d'Italia, “La gestione dei crediti deteriorati: un'indagine presso le maggiori banche italiane”, del Febbraio 2016, disponibile sul sito www.bancaditalia.it, la media degli esperimenti di vendita in una procedura esecutiva è pari a quattro, mentre il valore di realizzo delle garanzie reali vantate dal creditore bancario è pari al 55% circa).

E allora, così stando le cose, pare assai opportuno che i singoli Uffici giudiziari valutino l'adozione di linee-guida che servano da faro non soltanto per i professionisti delegati (se del caso, mediante l'indicazione di criteri assai puntuali nell'ordinanza di delega circa le complesse decisioni da adottare), ma anche ed in primo luogo agli esperti stimatori, onde contenere già in prima battuta il correttivo da applicare al valore di mercato del bene. Del resto, s'è già detto che nell'esperienza delle “prassi virtuose”, tale abbattimento del valore trovava giustificazione sia nell'assenza di garanzia per vizi occulti, ex art. 2922 c.c., sia anche per colmare il gap esistente, dal punto di vista dell'imposizione fiscale, tra vendita forzata e vendita commerciale. Al riguardo, almeno tale ultimo aspetto può dirsi oggi ampiamente superato, a seguito di C. cost., sent., 23 gennaio 2014, n. 6, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell'art. 3 Cost., l'art. 1, comma 497, l. 23 dicembre 2005, n. 266, nella parte in cui non prevede la facoltà, per gli acquirenti di immobili ad uso abitativo e relative pertinenze acquisiti in sede di espropriazione forzata o a seguito di pubblico incanto, che non agiscono nell'esercizio di attività commerciali, artistiche o professionali, di chiedere che la base imponibile ai fini delle imposte di registro, ipotecarie e catastali sia costituita dal valore
catastale dell'immobile, in base al criterio c.d. tabellare.

Anche alla luce di ciò, può quindi suggerirsi di limitare l'abbattimento iniziale del valore di mercato, onde determinare il valore ai fini dell'espropriazione, ai sensi dell'art. 568 c.p.c., ad un range compreso tra il 5 e il 10%: misure superiori, infatti, specie ove non vi sia una attenta “presenza” dell'Ufficio (ove cioè non siano attivate quelle condizioni di buona amministrazione del processo esecutivo di cui prima s'è detto) rischiano di determinare un abbattimento troppo repentino del prezzo e di esporre il debitore a indebite speculazioni.

Guida all'approfondimento

BERTI ARNOALDI VELI, Prassi e giurisprudenza del Tribunale di Bologna nelle espropriazioni immobiliari; in particolare il custode giudiziario e le azioni del custode finalizzate alla liberazione del compendio, in Riv. esec. forz., 2003, 59 ss.;

FARINA, L'espropriazione immobiliare efficiente. Dal portale delle vendite pubbliche alla cameralizzazione dell'opposizione agli atti esecutivi, Relazione tenuta per la Scuola Superiore della Magistratura, a Scandicci, il 24 novembre 2015, nell'ambito del corso P15083, disponibile sul sito www.scuolamagistratura.it;

FONTANA, La gestione attiva del compendio immobiliare pignorato, in Riv. esec. forz., 2005, 571 ss.;

LICCARDO, La ragionevole durata del processo esecutivo: l'esperienza del Tribunale di Bologna negli anni 1996-2001 e ipotesi di intervento, in Riv. esec. forz., 2001, 566 ss.;

SAIJA, Vendita ed assegnazione (artt. 501-508 c.p.c.), in La nuova esecuzione forzata dopo la l. 18 giugno 2009, n. 69, a cura di Demarchi, Bologna, 2009, 223 ss.;

SALETTI, La prassi di fronte alle norme e al sistema, in Riv. esec. forz., 2001, 487 ss.;

VACCARELLA, La vendita forzata immobiliare tra delega al notaio e prassi giudiziarie “virtuose”, in Riv. esec. forz., 2001, 289.

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