Filtro in appello e impugnazione in Cassazione della sentenza di primo grado: attenzione alle insidie e ai trabocchetti!

Mauro Di Marzio
01 Giugno 2017

Tutti i lettori sanno dell'ormai non recentissima novella del giudizio di appello, con cui è stato introdotto e regolato, agli artt. 348-bis e 348-ter c.p.c. il c.d. «filtro», ossia la dichiarazione di inammissibilità con ordinanza dell'impugnazione, quando essa non abbia «una ragionevole probabilità di essere accolta». È in proposito previsto un congegno del tutto eccezionale, che comporta una pluralità di questioni, le quali discendono dall'interazione dei precetti dettati dai citati articoli con la complessiva e speciale disciplina del ricorso per cassazione.
Premessa

Tutti i lettori sanno dell'ormai non recentissima novella del giudizio di appello, con cui è stato introdotto e regolato, agli artt. 348-bis e 348-ter c.p.c. il c.d. «filtro», ossia la dichiarazione di inammissibilità con ordinanza dell'impugnazione, quando essa non abbia «una ragionevole probabilità di essere accolta». È in proposito previsto un congegno del tutto eccezionale, che non ha cioè riscontro o somiglianza in analoghe disposizioni del codice di rito: una volta dichiarato inammissibile l'appello, con l'ordinanza prevista dalla prima delle due citate disposizioni, scatta per la parte rimasta soccombente, ai sensi dell'altra norma, la facoltà di ricorrere per cassazione — non già contro l'ordinanza pronunciata dal giudice d'appello, ma — contro la sentenza di primo grado.

Si presentano, in tale frangente, una pluralità di questioni, le quali discendono perlopiù dall'interazione dei precetti dettati dai citati artt. 348-bis e 348-ter c.p.c. con la complessiva e speciale disciplina del ricorso per cassazione, quesiti che hanno dato luogo a responsi giurisprudenziali spesso contrastanti, e che involgono seri pericoli per il professionista, esposto al rischio della sanzione di improcedibilità-inammissibilità dell'impugnazione per cassazione proposta.

Negli ultimi mesi la Suprema Corte ha avuto modo di pronunciarsi più volte sull'argomento, anche a Sezioni Unite, sicché è senz'altro opportuna una complessiva ricostruzione degli approdi giurisprudenziali, i quali hanno consentito di dare risposte precise ai molti quesiti che seguono.

Che cosa si impugna, in generale? La sentenza o l'ordinanza?

Ho già detto che il dato normativo è apparentemente chiaro.

Una volta dichiarato con ordinanza inammissibile l'appello perché mancante di una ragionevole probabilità di accoglimento, l'appellante rimasto soccombente può impugnare la sentenza di primo grado. La regola è sancita dal terzo comma dell'art. 348 terc.p.c., secondo cui, quando è pronunciata l'inammissibilità, «contro il provvedimento di primo grado può essere proposto, a norma dell'art. 360, ricorso per cassazione». Mi sembra superfluo dire che l'espressione «contro il provvedimento di primo grado può essere proposto … ricorso per cassazione» non ha da essere intesa nel senso che il soccombente in appello può a sua scelta impugnare o l'ordinanza, oppure la sentenza. «Può essere proposto» significa invece, ovviamente, che, se il soccombente non impugna, la sentenza di primo grado passa in giudicato.

Se non decide di arrendersi, in breve, il soccombente deve impugnare la sentenza di primo grado. Ma è sempre così? Il dato normativo è effettivamente così chiaro e inoppugnabile? Non c'è mai nessuno spazio per l'impugnazione dell'ordinanza?

Si sa che il punto è stato oggetto di un contrasto giurisprudenziale, che può in breve riassumersi così. Secondo alcune decisioni l'ordinanza pronunciata ai sensi degli artt. 348 bis-ter c.p.c. non sarebbe mai e in nessun caso ricorribile per cassazione, neppure con il ricorso straordinario previsto dal settimo comma dell'art. 111 Cost., giacché l'ordinanza non potrebbe mai essere considerata alla stregua di un provvedimento al tempo stesso decisorio e definitivo, e cioè quale sentenza in senso sostanziale. Secondo altre decisioni, non sono impugnabili per cassazione sono le ordinanze rese nel rispetto del paradigma normativo, non quelle pronunciate fuori dei casi previsti dalla legge, vedremo tra breve quali.

Questo primo contrasto è stato risolto dalle Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 2 febbraio 2016, n. 1914) con l'affermazione dei principi secondo cui:

  • l'ordinanza di inammissibilità dell'appello resa ex art. 348-ter c.p.c. è ricorribile per cassazione, ai sensi dell'art. 111, comma 7, Cost. qualora affetta da vizi processuali suoi propri; le Sezioni Unite fanno gli esempi dell'ordinanza ex artt. 348 bis-ter c.p.c.: i) pronunciata su appello in causa che prevede l'intervento necessario del Pubblico Ministero ai sensi dell'art. 70 c.p.c.; ii) pronunciata su appello contro ordinanza resa all'esito del rito sommario di cognizione di cui agli artt. 702-bis ss. c.p.c.; iii) pronunciata non già alla prima udienza, bensì successivamente; iv) pronunciata nei riguardi dell'appello principale ma non di quello incidentale, o viceversa;
  • la decisione che pronunci l'inammissibilità dell'appello per ragioni processuali (le Sezioni Unite intendono qui riferirsi all'esordio dell'art. 348-bis c.p.c. che recita: «Fuori dei casi in cui deve essere dichiarata con sentenza l'inammissibilità o l'improcedibilità dell'appello…»), ancorché adottata con ordinanza richiamante l'art. 348-ter c.p.c. ed eventualmente nel rispetto della relativa procedura, è impugnabile con ricorso ordinario per cassazione, trattandosi, nella sostanza, di una sentenza di carattere processuale che, come tale, non contiene alcun giudizio prognostico negativo circa la fondatezza nel merito dell'impugnazione, differendo, così, dalle ipotesi in cui tale giudizio prognostico venga espresso, anche se, eventualmente, fuori dei casi normativamente previsti;
  • l'ordinanza di inammissibilità dell'appello resa ex art. 348 ter c.p.c. non è ricorribile per cassazione, nemmeno ai sensi dell'art. 111, comma 7, Cost., ove si denunci l'omessa pronuncia su un motivo di gravame, attesa la natura complessiva del giudizio «prognostico» che la caratterizza, necessariamente esteso a tutte le impugnazioni relative alla medesima sentenza ed a tutti i motivi di ciascuna di queste, ponendosi, eventualmente, in tale ipotesi, solo un problema di motivazione.

In breve saranno impugnabili per cassazione:

  1. le ordinanze che dichiarino inammissibile l'appello perché mancante di ragionevole probabilità di accoglimento, ma lo facciano in quei casi in cui l'ordinamento non consente l'impiego dell'ordinanza; il ricorso per cassazione è quello straordinario;
  2. le ordinanze che dichiarino inammissibile l'appello non all'esito di tale giudizio prognostico, ma per ragioni diverse; il ricorso per cassazione è quello ordinario.
È impugnabile per cassazione l'ordinanza di inammissibilità che, esclusa la ragionevole probabilità di accoglimento, dichiari l'inammissibilità di istanze istruttorie formulate in primo grado?

L'ordinanza di inammissibilità resa ex art. 348-bis c.p.c. che contenga, accanto alla valutazione complessiva, in chiave prognostica, dei motivi di gravame, anche una ulteriore statuizione di inammissibilità delle istanze istruttorie formulate in primo grado, assume il carattere sostanziale di sentenza, impugnabile con l'ordinario ricorso per cassazione, solo quando le ragioni rilevate ex novo dal giudice di appello si sovrappongano a quelle della decisione di primo grado, in applicazione della efficacia sostitutiva propria della sentenza di appello, sicché quando la pronuncia «aggiuntiva» non integri una autonoma ratio decidendi, tale da esaurire o elidere la valutazione di «manifesta infondatezza», il motivo di ricorso per cassazione proposto avverso tale ulteriore statuizione va dichiarato inammissibile, per difetto di interesse, restando invece ricorribili avanti la Suprema Corte, ai sensi dell'art. 348-ter, terzo comma, c.p.c., gli accertamenti già compiuti in primo grado (Cass. 29 luglio 2016, n. 15776).

È impugnabile per cassazione l'ordinanza dichiarativa dell'inammissibilità pronunciata dopo il rinvio per trattazione? E prima ancora di tale udienza?

L'articolo 348-ter c.p.c. prevede la pronuncia sull'inammissibilità dell'appello «all'udienza di cui all'art. 350… prima di procedere alla trattazione, sentite le parti».

La facoltà per il giudice d'appello di rendere l'ordinanza ex art. 348-bis c.p.c. deve dunque essere esercitata all'udienza di cui all'art. 350 c.p.c. prima di procedere alla trattazione, sicché tale facoltà è preclusa ove, una volta effettuati gli adempimenti di cui al secondo comma del medesimo art. 350, quali l'aver dato atto della presenza delle parti, della costituzione della parte appellata e dell'avvenuto scambio della relativa comparsa, venga disposto un rinvio «per la trattazione» ad un'udienza successiva. E il conseguente vizio dell'ordinanza può essere fatto valere con ricorso per cassazione, trattandosi di violazione della legge processuale (Cass. 19 luglio 2016, n. 14696, la quale ha fatto applicazione del principio poc'anzi rammentato, formulato da Cass., Sez. Un., 2 febbraio 2016, n. 1914).

La Cassazione ha anche affermato che il giudice d'appello, se ha sentito le parti, può pronunciare l'ordinanza ex art. 348-bis c.p.c. in un'udienza anteriore a quella ex art. 350 c.p.c. o fissata ex art. 351, terzo comma, c.p.c. a fini inibitori, atteso che l'effetto semplificatorio e acceleratorio di tale anticipazione della dichiarazione di inammissibilità dell'appello non comporta alcuna lesione del diritto di difesa dell'appellante (Cass. 15 giugno 2016, n. 12293). In quest'ultimo caso, dunque, l'ordinanza è pronunciata nel rispetto del paradigma legale e, per conseguenza, non è impugnabile con il ricorso straordinario (e ovviamente neppure con quello ordinario) per cassazione.

Dichiarazione di inammissibilità dell'appello con ordinanza per ragioni processuali. È necessario impugnare l'ordinanza? Si può impugnare la sentenza?

Abbiamo visto che le Sezioni Unite hanno individuato due ipotesi di ricorribilità per cassazione dell'ordinanza ex artt. 348 bis-ter c.p.c.:

a) il caso dell'ordinanza che ha dichiarato inammissibile l'appello per mancanza di ragionevole probabilità di accoglimento, ma che è affetta da vizi suoi propri perché pronunciata al di fuori dei casi previsti dalla legge, nel qual caso è esperibile il ricorso straordinario per cassazione;

b) il caso dell'ordinanza che ha dichiarato inammissibile l'appello per ragioni processuali diverse, nel qual caso è esperibile il ricorso ordinario per cassazione.

A quest'ultimo riguardo immaginiamo l'esempio che segue.

Alla prima udienza il giudice d'appello dichiara inammissibile l'appello con ordinanza pronunciata ai sensi degli artt. 348 bis-ter c.p.c. perché i motivi non rispondono ai requisiti previsti dall'art. 342 c.p.c., e cioè — approssimativamente — perché, secondo il giudice investito dell'impugnazione, sono generici. Si tratta di una ipotesi riconducibile alla lett. b) sopra indicata, alla stregua dei principi affermati da Cass., Sez. Un., 2 febbraio 2016, n. 1914. Ed infatti, l'art. 348-bis c.p.c., come si è già accennato, prevede la dichiarazione di inammissibilità in caso di mancanza di ragionevole probabilità di accoglimento dell'impugnazione e, comunque, fuori dei casi in cui l'inammissibilità o l'improcedibilità deve essere dichiarata con sentenza: casi tra i quali rientra senz'altro l'inammissibilità per genericità dei motivi.

In questo caso siamo di fronte, per dirla in modo rudimentale, ad un provvedimento che è intestato «ordinanza», ma lo è per errore, ed è a tutti gli effetti una «sentenza». Non è, cioè, un provvedimento decisorio e definitivo, diverso dalla sentenza, come tale suscettibile di ricorso straordinario per cassazione ai sensi del settimo comma dell'art. 111 Cost.. È una sentenza vera e propria, sottoposta, come chiarisce la pronuncia delle Sezioni Unite già ricordata, al regime del normale ricorso per cassazione.

Se, in tale frangente, il soccombente, ossia colui che ha subito la dichiarazione di inammissibilità dell'appello per genericità dei motivi, erroneamente pronunciata con ordinanza ai sensi degli artt. 348 bis-ter c.p.c., impugna per cassazione la sentenza di primo grado, va incontro, da un lato, alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso per cassazione, e dall'altro lato al passaggio in giudicato della sentenza, sia pure chiamata per errore ordinanza dal giudice d'appello, che ha dichiarato inammissibile l'appello per genericità dei motivi.

Ecco, a me pare, che in un caso del genere il soccombente deve necessariamente ricorrere per cassazione contro la decisione di inammissibilità dell'appello, la quale altrimenti passa in giudicato, ma non può ricorrere per cassazione contro la sentenza di primo grado: esattamente come accadrebbe a fronte di una dichiarazione di inammissibilità chiamata dal giudice d'appello col suo giusto nome, e cioè sentenza e non ordinanza.

La stessa regola si applicherà in caso di erronea dichiarazione con ordinanza ex artt. 348 bis-ter c.p.c. di inammissibilità dell'appello perché, ad esempio, proposto fuori termine, ovvero da soggetto non legittimato, ovvero a mezzo di difensore mancante di procura, e così via. Altrettanto accadrà nei casi in cui deve essere dichiarata l'improcedibilità dell'appello per la costituzione tardiva o la mancata comparizione dell'appellante alla prima udienza ed a quella successiva, secondo la previsione degli art. 347 e 348 c.p.c..

Dichiarazione di inammissibilità dell'appello con ordinanza al di fuori dei casi previsti dalla legge. Che cosa occorre impugnare?

Soffermiamoci ora sulla ricorribilità per cassazione dell'ordinanza pronunciata al di fuori dei casi previsti dalla legge.

Immaginiamo questo caso.

Viene impugnata in appello un'ordinanza pronunciata ai sensi dell'art. 702-bis c.p.c., secondo la previsione del successivo art. 702-quater c.p.c.. In questa ipotesi, come abbiamo già detto, la disciplina degli art. 348 bis-ter c.p.c. non si applica, e ciò per comprensibili (anche se non necessariamente condivisibili) ragioni: il legislatore, cioè, non vuole che in una stessa causa vengono pronunciati provvedimenti in qualche modo sommari (lasciando da parte ogni riflessione sulla nozione di sommarietà ed il quesito se il cosiddetto procedimento sommario di cognizione sia effettivamente tale) sia in primo che in secondo grado.

Il giudice d'appello, nondimeno, dichiara inammissibile l'appello per mancanza di ragionevole probabilità di accoglimento. È cioè pronuncia l'ordinanza in un caso in cui non avrebbe potuto farlo.

Che cosa deve impugnare il soccombente?

A me sembra che in questo caso si possa scegliere tra l'impugnazione dell'ordinanza con ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost. e l'impugnazione della sentenza di primo grado secondo la previsione del terzo comma dell'art. 348-ter c.p.c.. In questa seconda ipotesi, in sostanza, il soccombente presta acquiescenza all'ordinanza, limitatamente all'aspetto dell'applicabilità degli artt. 348 bis-ter c.p.c..

Nell'un caso (impugnazione dell'ordinanza) la Corte di cassazione casserà l'ordinanza con rinvio al giudice d'appello, il quale dovrà decidere con sentenza sull'impugnazione, che non avrebbe potuto dichiarare inammissibile per mancanza di ragionevole probabilità di accoglimento. Soluzione tecnicamente possibile, ma la cui utilità pratica dovrà essere di volta in volta scrutinata in ragione delle peculiarità del caso: evidente essendo che lo stesso giudice il quale ha ritenuto l'appello campato in aria, pronunciando in proposito per errore con ordinanza, lo rigetterà nuovamente con sentenza.

Nell'altro caso (impugnazione della sentenza) la Corte di cassazione sottoporrà la sentenza di primo grado al vaglio previsto dal citato terzo comma dell'art. 348-ter c.p.c., cassando eventualmente con rinvio al giudice d'appello, il quale rimarrà vincolato alla pronuncia di legittimità nei termini previsti dall'art. 384 c.p.c..

È inoltre da ritenere che il soccombente possa impugnare sia l'ordinanza pronunciata fuori dei casi previsti dalla legge che la sentenza (è una fattispecie esaminata ad esempio da Cass. 19 luglio 2016, n. 14696), anche se non è facile rappresentarsi, in generale, l'utilità di una simile scelta, la quale sembra più che altro dettata da ragioni cautelative.

Mi pare di poter dire che, se il ricorrente per cassazione impugna sia l'ordinanza che la sentenza, l'esame dei motivi concernenti l'ordinanza è logicamente preliminare rispetto a quelli riguardanti la sentenza: lo dice espressamente Cass. 12 dicembre 2016, n. 25456. Se è così, la Corte di cassazione, una volta accolto il ricorso contro l'ordinanza, casserà e rinvierà al giudice d'appello, con automatico assorbimento dei motivi proposti contro la sentenza di primo grado. E che cosa farà — mi chiedevo già poc'anzi — il giudice d'appello trovandosi a riesaminare la medesima impugnazione che aveva già dichiarato inammissibile perché mancante di ragionevole probabilità di accoglimento? È possibile che la accolga, certo. Del resto è anche possibile che la Solbiatese vinca la Champions.

In caso di proposizione del ricorso per cassazione sia contro la sentenza che contro l'ordinanza pronunciata fuori dei casi previsti dalla legge si pongono poi questioni in ordine al termine applicabile, di cui parlerò qui di seguito.

Si possono impugnare con distinti atti, ed entro quale termine, l'ordinanza dichiarativa dell'inammissibilità e la sentenza di primo grado?

L'art. 348 ter c.p.c. si sofferma solo sul termine per l'impugnazione della sentenza di primo grado:

  • 60 giorni, previsti dall'art. 325 c.p.c., dalla comunicazione-notificazione dell'ordinanza;
  • sei mesi, previsti dall'art. 327 c.p.c., dal deposito dell'ordinanza. Nulla la norma dice con riguardo al termine per l'impugnazione con il ricorso straordinario per cassazione dell'ordinanza di inammissibilità pronunciata fuori dei casi previsti dalla legge. In tale situazione si potrebbe essere indotti a credere che il termine breve per l'impugnazione dell'ordinanza decorra secondo le regole generali dalla sola notificazione (non dalla comunicazione) di essa, applicandosi altrimenti il termine lungo.

Sicché si potrebbe immaginare questa (assurda) combinazione. Il soccombente, in presenza di comunicazione (e non di notificazione) dell'ordinanza di inammissibilità, impugna nei 60 giorni successivi la sentenza di primo grado. La cassazione rigetta il ricorso prima ancora (questa naturalmente è fantascienza, ma l'ipotesi serve a rispondere al quesito) dello spirare del termine lungo per l'impugnazione dell'ordinanza. A questo punto il soccombente impugna l'ordinanza perché pronunciata fuori dei casi stabiliti dalla legge.

Una cosa del genere non è pensabile.

Qualora risulti ricorribile per cassazione, l'ordinanza ex art. 348-bis c.p.c., dichiarativa dell'inammissibilità dell'appello, va impugnata con lo stesso ricorso proposto avverso la sentenza di primo grado e nei termini prescritti dall'art. 348-ter, terzo comma, c.p.c. e, dunque, ove l'ordinanza sia stata comunicata, nel termine di sessanta giorni dalla comunicazione, sia perché è logicamente prioritario l'esame dell'impugnazione dell'ordinanza rispetto alla sentenza, sia perché, applicando all'ordinanza il termine lungo dalla comunicazione ex art. 327 c.p.c., il decorso di distinti termini per impugnare i due provvedimenti comporterebbe il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, rendendo incomprensibile la ricorribilità avverso l'ordinanza (Cass. 12 dicembre 2016, n. 25456).

Quando si impugna per cassazione la sentenza, bisogna dire quali erano i motivi d'appello e qual è il contenuto dell'ordinanza di inammissibilità?

Provo ancora una volta a rendere agevolmente comprensibile il problema con un esempio:

  • Tizio agisce in giudizio nei confronti di Caio allegando di aver stipulato con il convenuto per scrittura privata, quale acquirente, un contratto di compravendita di un immobile; chiede perciò in via principale una sentenza dichiarativa dell'avvenuto trasferimento della proprietà del bene;
  • Tizio, tuttavia, prospetta anche una diversa lettura della scrittura privata, intesa non già quale contratto definitivo di compravendita, bensì quale contratto preliminare di compravendita; per l'ipotesi che il giudice adito ritenga corretta questa seconda qualificazione, l'attore chiede in via subordinata ai sensi dell'art. 2932 c.c. la pronuncia della sentenza costitutiva del trasferimento della proprietà del bene;
  • il giudice rigetta la domanda principale, ritenendo che il contratto abbia natura non di definitivo, bensì di preliminare; e rigetta anche la domanda subordinata, fondata sul preliminare, perché l'attore non ha pagato il prezzo e non ha neppure offerto di pagarlo ai sensi del secondo comma dell'art. 2932 c.c.;
  • Tizio propone appello con un solo motivo con il quale lamenta che il giudice di primo grado non abbia considerato la prodotta quietanza di pagamento del prezzo, la quale avrebbe dovuto condurre all'accoglimento della domanda ex art. 2932 c.c.;
  • il giudice di appello dichiara l'appello inammissibile per mancanza di ragionevole probabilità di accoglimento perché la sottoscrizione apposta in calce alla quietanza è stata disconosciuta dal convenuto promittente venditore, e quindi la quietanza è priva di valore probatorio;
  • Tizio propone ricorso per cassazione contro la sentenza di primo grado deducendo un solo motivo con cui denuncia violazione delle regole di ermeneutica contrattuale e sostiene, cioè, che il giudice di primo grado ha sbagliato nel qualificare il contratto come preliminare e non come definitivo.

Siamo cioè di fronte ad una brusca virata di rotta della strategia difensiva.

È chiaro, in questo caso, che la pronuncia di rigetto, da parte del primo giudice, della domanda fondata sull'intervenuta stipulazione del contratto definitivo di compravendita è ormai passata in giudicato, perché contro di essa non è stato proposto appello, sicché è scattata l'applicazione del principio sancito dall'art. 329 c.p.c. secondo cui l'impugnazione parziale importa acquiescenza alle parti della sentenza impugnata.

Ora, mi sembra che l'esempio fatto renda palese più di qualsiasi astratto ragionamento che la Corte di cassazione, quando esamina il ricorso contro la sentenza di primo grado ai sensi del terzo comma dell'art. 348 ter c.p.c., deve sapere che cos'è successo dinanzi al giudice d'appello: e, cioè, quali erano i motivi, ed anche quale è stato il contenuto del provvedimento adottato.

Ecco il perché del principio affermato dalla SC secondo cui: «Nel ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado, proponibile ai sensi dell'art. 348-ter, terzo comma, c.p.c., l'atto d'appello, dichiarato inammissibile, e la relativa ordinanza, pronunciata ai sensi dell'art. 348-bis c.p.c., costituiscono requisiti processuali speciali di ammissibilità, con la conseguenza che, ai sensi dell'art. 366, n. 3, c.p.c., è necessario che nel suddetto ricorso per cassazione sia fatta espressa analitica menzione almeno dei motivi di appello, se non pure della motivazione dell'ordinanza ex art. 348-bis c.p.c., al fine di evidenziare l'insussistenza di un giudicato interno sulle questioni sottoposte al vaglio del giudice di legittimità e già prospettate al giudice del gravame» (Cass. 23 dicembre 2016, n. 26936; e già Cass. 15 maggio 2014, n. 10722; Cass. 9 giugno 2014, n. 12936; Cass. 18 marzo 2015, n. 5341; Cass. 7 maggio 2015, n. 9241; Cass., Sez. Un., 27 maggio 2015, n. 10876; Cass. 10 luglio 2015, n. 14496; Cass. 21 luglio 2015, nn. 15240 e 15241; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21322; Cass. 10 dicembre 2015, n. 24926; Cass. 23 febbraio 2016, n. 3532; Cass. 24 febbraio 2016, nn. 3560 e 3678; Cass. 18 marzo 2016, n. 5365; Cass. 10 maggio 2016, nn. 9441 e 9443; Cass. 12 maggio 2016, nn. 9799 e 9800).

E cioè, poiché il ricorso per cassazione deve contenere l'esposizione sommaria dei fatti della causa, i quali vanno esposti in quanto rilevanti per la decisione di legittimità, esso non può mancare di indicare quale sia stato il contenuto dell'atto d'appello seguito dalla ordinanza di inammissibilità per mancanza di ragionevole probabilità di accoglimento.

A dir la verità il principio che ho appena trascritto richiede la «analitica menzione almeno dei motivi di appello, se non pure della motivazione dell'ordinanza ex art. 348-bis c.p.c.». Che cosa vuol dire «se non pure»? La motivazione dell'ordinanza bisogna inserirla o no nell'espositiva del ricorso per cassazione? Io credo di no (basta cioè dire che il giudice d'appello ha dichiarato inammissibile l'impugnazione con ordinanza ex artt. 348 bis-ter c.p.c.), perché, se non vado errando, la motivazione del giudice d'appello è per così dire posta del nulla dall'impugnazione della sentenza di primo grado. E tuttavia al lettore avvocato consiglierò senz'altro di esporre, in sintesi, anche il contenuto dell'ordinanza di inammissibilità. Perché? Perché non si sa mai…

Ci sono ulteriori adempimenti formali da rispettare in caso di impugnazione della sentenza di primo grado? Va in particolare prodotta la copia comunicata-notificata dell'ordinanza?

Stabilisce l'art. 369 c.p.c. che con il ricorso per cassazione deve essere depositata copia autentica della sentenza impugnata con la relazione di notificazione, se questa è avvenuta. Ora, una volta intervenuta la dichiarazione di inammissibilità dell'appello per mancanza di ragionevole probabilità di accoglimento, e proposto ricorso per cassazione contro la sentenza di primo grado, secondo la previsione del terzo comma dell'art. 348 ter c.p.c., non c'è dubbio che il ricorrente debba produrre la copia autentica della sentenza di primo grado. Questo è intuitivo e mi pare non abbia bisogno di spiegazioni.

Ma perché l'art. 369 c.p.c. richiede che venga depositata la copia autentica della sentenza con la relazione di notificazione, sempre che questa sia avvenuta? È ovvio: perché, nel caso ordinario cui si riferisce la norma, se la sentenza impugnata è stata notificata, ciò ha fatto scattare il termine breve per l'impugnazione previsto dall'articolo 325 c.p.c., ossia il termine breve per il ricorso per cassazione, che è di 60 giorni, appunto dalla notificazione della sentenza, secondo l'art. 326 c.p.c.. E la Corte di cassazione deve verificare d'ufficio se il ricorso e tempestivo oppure no. Se non è prodotta la sentenza con la relazione di notificazione, ai sensi dell'art. 369 c.p.c., il ricorso per cassazione è improcedibile.

Ma l'art. 348 ter c.p.c. stabilisce che, in caso di ricorso per cassazione contro la sentenza di primo grado, a seguito della dichiarazione di inammissibilità con ordinanza dell'appello, «il termine per il ricorso per cassazione avverso il provvedimento di primo grado decorre dalla comunicazione o notificazione, se anteriore, dell'ordinanza che dichiara l'inammissibilità. Si applica l'art. 327, in quanto compatibile». Il termine per il ricorso per cassazione, quindi, non si calcola dalla sentenza di primo grado, ma dall'ordinanza che ha dichiarato l'inammissibilità.

È una previsione peculiare sotto diversi aspetti. In generale ricorderò che, secondo un'opinione ampiamente accolta in dottrina, ciò che fa decorrere il termine breve per l'impugnazione è un'espressa manifestazione di volontà in tal senso da parte del controinteressato, il quale manifesta tale volontà attraverso la notificazione della sentenza. Il termine breve, invece, non è da porre in collegamento con la conoscenza effettiva che il soccombente abbia del provvedimento da impugnare, sicché, sul piano dei principi, l'equiparazione di comunicazione e notificazione per i fini del decorso del termine breve suscita qualche perplessità. Diremo che si tratta di una previsione speciale rispetto a quella generale.

Ma, a parte questo, la peculiarità sta anche nel fatto che, come dicevo, in questo caso il decorso del termine breve è provocato non dalla notificazione del provvedimento che occorre impugnare, bensì dalla comunicazione o notificazione di un provvedimento diverso, ossia l'ordinanza dichiarativa dell'inammissibilità per mancanza di ragionevole probabilità di accoglimento.

Ed allora è evidente, nel caso che stiamo esaminando, che della relazione di notificazione della sentenza di primo grado la Corte di cassazione non ha che cosa farsene. Anzi, visti i tempi della giustizia civile italiana, è ragionevolissimo credere che il ricorso per cassazione contro la sentenza di primo grado, per effetto dell'ordinanza ex art. 348 bis-ter c.p.c., sia destinato ad intervenire quando il termine lungo dell'articolo 327 c.p.c. (oggi sei mesi più l'eventuale sospensione feriale), riferito alla sentenza, è ampiamente decorso. Ciò che serve alla Corte di cassazione per lo scopo della verifica della tempestività del ricorso contro la sentenza di primo grado è, dunque, l'ordinanza di inammissibilità, non la sentenza di primo grado.

Ecco in definitiva il quesito: colui che ricorre contro la sentenza di primo grado ai sensi del terzo comma dell'art. 348 ter c.p.c. è onerato della produzione della copia comunicata-notificata (sempre che la comunicazione o notificazione ci siano state, naturalmente) dell'ordinanza dichiarativa di inammissibilità? È possibile una lettura ortopedica dell'art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c., che imponga al ricorrente per cassazione a pena di improcedibilità il deposito dell'ordinanza dichiarativa di inammissibilità comunicata-notificata? O, altrimenti, è possibile ricomprendere la copia comunicata-notificata della ordinanza di inammissibilità nel numero degli «atti processuali sui quali si fonda il ricorso» ai sensi dell'art. 369, secondo comma, n. 4, c.p.c.? E chi ricorre per cassazione contro la sentenza di primo grado deve a pena di improcedibilità indicare nel ricorso la data di comunicazione-notificazione dell'ordinanza di inammissibilità?

La risposta è: sì e no. Cercherò subito di spiegarmi.

La questione, su cui si era formato un contrasto di giurisprudenza, è stato recentemente risolto dalle Sezioni Unite (Cass., Sez.Un., 13 dicembre 2016, n. 25513) con una sentenza della bellezza di 29 pagine: estensione che, vista la modestia del tema, e considerata anche la prosa a volte faticosa del giudice di legittimità («L'argomento, tuttavia, non si presta a produrre effetti decontestualizzanti, chè diversamente proverebbe troppo», né «sembra che la doppia polarità del discorso possa esprimersi in termini di conflitto tra il dato formale … e le esigenze funzionali sottese», ed altro dello stesso tenore) conferma che per la procedura civile può impiegarsi lo stesso motto che Claudio Gentile, il grande terzino della Nazionale campione del 1982, riferiva al calcio: non è un gioco per signorine…

Hanno affermato le Sezioni Unite che:

  • nell'ipotesi di ordinanza d'inammissibilità dell'appello emessa ai sensi dell'art. 348-bis c.p.c., per non avere l'impugnazione una ragionevole probabilità di essere accolta, il conseguente ricorso per cassazione proponibile in base all'art. 348-ter, terzo comma, c.p.c., contro la sentenza di primo grado nel termine di 60 gg. dalla comunicazione dell'ordinanza stessa o dalla sua notificazione, se avvenuta prima, è soggetto, ai fini del requisito di procedibilità ex art. 369 c.p.c., secondo comma, n. 2, ad un duplice onere, quello di deposito della copia autentica della sentenza di primo grado e quello, inerente alla tempestività del ricorso, di provare la data di comunicazione o di notifica dell'ordinanza d'inammissibilità;
  • tale secondo onere è assolto dal ricorrente mediante il deposito della copia autentica dell'ordinanza con la relativa comunicazione o notificazione; in difetto, il ricorso è improcedibile ai sensi dell'art. 369 c.p.c., secondo comma, n. 2, salvo in esito alla trasmissione del fascicolo d'ufficio da parte della cancelleria del giudice a quo, che il ricorrente ha l'onere di richiedere ai sensi del terzo comma del predetto articolo, la Corte, nell'esercitare il proprio potere officioso di verificare la tempestività dell'impugnazione, rilevi che quest'ultima sia stata proposta nei 60 gg. dalla comunicazione o notificazione ovvero, in mancanza dell'una e dell'altra, entro il termine c.d. lungo di cui all'art. 327 c.p.c.;
  • il ricorso per cassazione proposto in base all'art. 348-ter c.p.c., terzo comma, contro la sentenza di primo grado, non è soggetto, a pena d'inammissibilità, alla specifica indicazione della data di comunicazione o di notificazione, se avvenuta prima, dell'ordinanza che ha dichiarato inammissibile l'appello, in quanto l'art. 366, primo comma, n. 6, c.p.c., si riferisce unicamente agli atti processuali e ai documenti da cui i motivi d'impugnazione traggono il proprio sostegno giuridico quali mezzi diretti all'annullamento del provvedimento impugnato.

La monumentale sentenza ha in realtà un contenuto meno arcigno di quello che può apparire dalla lettura delle massime, in particolare della seconda. Questo spiega la risposta «sì e no» che ho dato poc'anzi.

Posto che la Corte di cassazione deve verificare se il ricorso proposto contro la sentenza di primo grado é tempestivo o no, una lettura, come dicevo ortopedica, dell'art. 369 c.p.c., interpretato nel senso che esso impone senza scampo la produzione dell'ordinanza comunicata-notificata, unitamente al ricorso, nel termine di 20 giorni dall'ultima notificazione, comporterebbe come conseguenza la sanzione di improcedibilità ogni qual volta il ricorrente per cassazione non abbia prodotto detta copia, anche nel caso in cui per avventura la copia fosse rinvenibile nel fascicolo d'ufficio del giudizio svoltosi dinanzi al giudice a quo (come accade per l'omesso deposito della sentenza: Cass., Sez. Un., 16 aprile 2009, n. 9005-9006).

Viceversa, secondo la Corte di cassazione, a Sezioni Unite, considerato che il ricorrente per cassazione contro la sentenza di primo grado non è onerato dell'indicazione della data in cui l'ordinanza di inammissibilità gli è stata comunicata-notificata, egli è tenuto a pena di improcedibilità a provare la data di comunicazione o di notificazione dell'ordinanza di inammissibilità, ma se non lo prova è la stessa cosa: sarà il giudice di Cassazione a compulsare il fascicolo d'ufficio e a verificare se il ricorso per cassazione è tempestivo oppure no.

Ora, sul piano della logica, il ragionamento delle Sezioni Unite suscita eufemisticamente qualche perplessità. Si tratta di nozioni elementari. Una cosa è l'inammissibilità, cosa diversa l'improcedibilità. Il ricorso per cassazione deve essere proposto entro il termine di 60 giorni oppure di sei mesi a seconda che si applichi l'art. 325 oppure l'art. 327 c.p.c., altrimenti è inammissibile perché tardivo: e cioè indipendentemente dalla circostanza che il ricorrente per cassazione abbia depositato o non abbia depositato il provvedimento impugnato con la relazione di notificazione, eccetera, eccetera. Tutt'altra cosa è la norma che, a pena di improcedibilità, e cioè quale sanzione per l'inosservanza dello specifico onere processuale posto a carico dell'impugnante, impone al ricorrente per cassazione di depositare copia autentica della sentenza impugnata con la relazione di notificazione. Qui l'improcedibilità non dipende dal fatto che non è stato osservato il termine per l'impugnazione, ovviamente, ma dal fatto che non è stato prodotto l'atto richiesto dalla legge. E quindi, in mancanza del deposito della copia autentica della sentenza impugnata con la relazione di notificazione, il ricorso per cassazione è improcedibile indipendentemente dallo scrutinio della sua tempestività. Dire che, in mancanza del deposito dell'ordinanza di inammissibilità comunicata-notificata, il ricorso per cassazione è improcedibile se, una volta verificato il contenuto del fascicolo d'ufficio, l'impugnazione risulta proposta oltre il termine, breve o lungo che sia, significa schiacciare la nozione di improcedibilità su quella di inammissibilità, e cioè significa fare confusione.

E questa non è mai una buona cosa.

Tuttavia, ciò che ci interessa in questa sede è chiarire che, secondo le Sezioni Unite, il ricorrente per cassazione contro la sentenza di primo grado:

a) deve depositare la copia comunicata-notificata dell'ordinanza dichiarativa dell'inammissibilità, ma se non l'ha depositata si salva se il ricorso è effettivamente tempestivo secondo quanto emerge dal fascicolo d'ufficio;

b) non ha l'onere di dedurre in quale data l'ordinanza dichiarativa dell'inammissibilità gli sia stata comunicata-notificata.

Questo è il responso delle Sezioni Unite. Il suggerimento, di impostazione prudenziale, al professionista è di indicare la data di comunicazione-notificazione dell'ordinanza e di depositare la copia: in tal modo sarà sicuro di non sbagliare e soprattutto di non incocciare in un qualche sempre possibile cambiamento giurisprudenziale.

Si segnala infine che Cass. 14 giugno 2016, n. 12169 aveva reputata che nel procedimento camerale, la produzione della comunicazione dell'ordinanza ex art. 348-ter c.p.c., al fine di far constare che essa fosse stata fatta in un momento utile per l'esercizio del termine da essa decorrente, così come quella dell'attestazione di cancelleria relativa ad una eventuale mancanza della comunicazione, fossero possibili ai sensi dell'art. 372, secondo comma, c.p.c..

Qual è il termine a quo per l'impugnazione della sentenza di primo grado a seguito della dichiarazione di inammissibilità?

Chi esercita il diritto di ricorrere in cassazione, se è avvenuta la comunicazione dell'ordinanza deve rispettare il termine di sessanta giorni da essa, posto che l'art. 348-ter, terzo comma, secondo inciso, c.p.c., quando allude al termine per proporre ricorso per cassazione, allude a quello di cui al secondo comma dell'art. 325 c.p.c..

Solo per il caso che la controparte abbia notificato la sentenza prima della comunicazione (che l'art. 133 c.p.c. assoggetta ad un termine di cinque giorni), il termine decorre dalla notificazione. Lo stesso decorso si verifica se la cancelleria ometta del tutto la comunicazione.

Infine, solo qualora risulti omessa la comunicazione e manchi anche la notificazione, opera il termine lungo di cui all'art. 327 c.p.c. (Cass. 15 dicembre 2016, n. 25968).

Qual è il termine a quo per impugnare la sentenza di primo grado se l'ordinanza di inammissibilità è stata pronunciata in udienza?

Nel caso in cui l'ordinanza dichiarativa dell'inammissibilità ai sensi degli artt. 348 bis-ter c.p.c. sia stata pronunciata in udienza, nel qual caso il termine per proporre il ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado, da identificare in quello c.d. breve di cui all'art. 325 c.p.c., comma 2, decorre dall'udienza stessa per le parti presenti, o che avrebbero dovuto esserlo, secondo la previsione di cui all'art. 176 c.p.c. (Cass. 14 dicembre 2015, n. 25119).

Quando la comunicazione dell'ordinanza dichiarativa dell'inammissibilità fa decorrere il termine breve per l'imugnazione della sentenza di primo grado?

Orientativamente sembrerebbe potersi dire che, nella pratica, il termine per l'impugnazione della sentenza di primo grado decorrerà sempre dalla comunicazione a cura della cancelleria. Questo dovrebbe essere il naturale effetto del processo civile telematico: il giudice procede al deposito telematico dell'ordinanza, il cancelliere con un clic gira immediatamente l'atto, nella sua interezza (lo prescrive l'art. 45 disp. att. c.p.c., secondo comma, nel testo oggi vigente modificato nel 2012), agli avvocati delle parti. Tuttavia occorre anche dire che l'ordinanza prevista dagli artt. 348 bis-ter c.p.c. è ovviamente pronunciata, per lo più, dalle corti di appello, presso le quali il deposito telematico non è ancora obbligatorio, sicché possono presentarsi ancora comunicazioni effettuate con foglietti svolazzanti, firme per presa visione e quant'altro.

È del resto, anche nel caso di impiego del mezzo telematico, può darsi che l'ordinanza d'inammissibilità dell'appello non venga seguita dalla comunicazione della cancelleria, per errore od omissione. E allo stesso modo è possibile che la comunicazione dell'ordinanza venga effettuata in modo incompleto, o addirittura tale da non lasciar comprendere neppure (lo ipotizza Cass., Sez. Un., 13 dicembre 2016, n. 25513, richiamando Cass. 11 settembre 2015, n. 18024) che si tratti d'un provvedimento emesso ai sensi degli artt. 348-bis e 348-ter c.p.c. (si trattava, nel caso esaminato dall'ultima pronuncia citata, di una tacitiana comunicazione nella quale si diceva esclusivamente che l'appello era stato «dichiarato inammissibile»). In tale ultimo caso la comunicazione non fa decorrere il termine per l'impugnazione della sentenza di primo grado.

Insomma, la comunicazione deve (almeno) permettere di comprendere la natura del provvedimento. Ma, al di là di questo aspetto, deve trattarsi o no della comunicazione integrale del provvedimento?

Questo punto è oggetto di incertezza. L'art. 348-bis c.p.c., come abbiamo visto più volte, fa decorrere il termine per l'impugnazione della sentenza di primo grado (anche) dalla comunicazione dell'ordinanza con cui è dichiarata l'inammissibilità dell'appello per mancanza di ragionevole probabilità di accoglimento. All'epoca dell'introduzione della norma la comunicazione doveva essere effettuata in forma abbreviata. Pochi mesi dopo, quantunque sia rimasta immutata la previsione dell'articolo 136 c.p.c., che parla di comunicazione per l'appunto «in forma abbreviata», è stato modificato l'art. 45 disp. att. c.p.c., il quale prevede la comunicazione integrale del provvedimento.

D'altro canto, si ripropone qui la peculiarità del caso, in cui la pronuncia dell'ordinanza fa scattare l'impugnazione di un provvedimento diverso, ossia la sentenza di primo grado. Sentenza il cui contenuto è perfettamente noto all'appellante rimasto soccombente, visto che egli ha redatto l'atto d'appello. Mentre, per i fini dell'impugnazione della sentenza di primo grado, gli basta sapere che l'appello è stato dichiarato inammissibile ai sensi della norma in discorso.

In tale contesto più di una decisione della Cassazione ha affermato che il termine per l'impugnazione della sentenza di primo grado inizia il suo corso dalla comunicazione dell'ordinanza «restando irrilevante che la comunicazione sia integrale o meno». Questo il principio: «La novella dell'art. 133, comma 2, c.p.c., secondo cui la comunicazione, da parte della cancelleria, del testo integrale del provvedimento depositato non è idonea a far decorrere i termini per le impugnazioni di cui all'art. 325 c.p.c., è finalizzata a neutralizzare gli effetti della generalizzazione della modalità telematica della comunicazione, se integrale, di qualsiasi tipo di provvedimento, ai fini della normale decorrenza del termine breve per le impugnazioni solo in caso di atto di impulso di controparte. Tale novella, però, non incide, lasciandole in vigore, sulle norme processuali, derogatorie e speciali che ancorino la decorrenza del termine breve alla mera comunicazione di un provvedimento da parte della cancelleria, restando irrilevante che la comunicazione sia integrale o meno, salvo che in concreto risulti del tutto impossibile ricavare dalla comunicazione del dispositivo o dal tenore del biglietto di cancelleria che si tratti effettivamente di ordinanza resa ai sensi del predetto art. 348-ter c.p.c., in quanto tale, idonea a far decorrere il termine ordinario suddetto avverso il provvedimento di primo grado (Cass. 5 novembre 2014, n. 23526; Cass. 14 marzo 2016, n. 5003).

È una soluzione che mi lascia perplesso. Non starò a dilungarmi sul perché: oggi il codice di rito quando parla di comunicazione, ivi compreso all'art. 348-ter c.p.c., parla di comunicazione integrale. Ciò senza considerare che l'opposta soluzione creerebbe dei problemi sul piano della decorrenza dei termini in caso di impugnazione sia della sentenza di primo grado che dell'ordinanza, giacché il termine per l'impugnazione della prima decorrerebbe dalla comunicazione anche per estratto, mentre il termine per l'impugnazione della seconda non potrebbe che decorrere, mi pare, da una comunicazione integrale, ovvero dalla notificazione dell'atto, che è integrale per definizione.

Che cosa deve fare il ricorrente per cassazione contro la sentenza di primo grado per fruire del termine lungo per l'impugnazione?

Il difetto sia della comunicazione che della notificazione dell'ordinanza dichiarativa dell'inammissibilità grava il ricorrente della relativa allegazione (non della prova: sarà il controricorrente a dover provare che, invece, l'ordinanza è stata comunicata-notificata) per poter fruire del termine dell'art. 327 c.p.c. (si veda per tutte Cass., Sez. Un., 13 dicembre 2016, n. 25513).

Sulla scorta della disciplina dettata dal legislatore, dunque, chi esercita il diritto di ricorrere per cassazione a norma dell'art. 348 ter, terzo comma, c.p.c., per dimostrare la sua tempestività, qualora proponga il ricorso oltre i sessanta giorni dalla pubblicazione dell'ordinanza, potendo detta comunicazione avvenire fino dallo stesso giorno della pubblicazione, è tenuto ad allegare, se la comunicazione sia mancata al momento in cui notifica il ricorso, che essa non è avvenuta e, gradatamente, che non è avvenuta la notificazione e che, pertanto, propone il ricorso fruendo del c.d. termine lungo (Cass. 14 giugno 2016, n. 12169).

In mancanza dell'allegazione, secondo questa pronuncia, il ricorso per cassazione è inammissibile.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario