Termini processuali in generaleFonte: art. 152
29 Luglio 2016
Inquadramento
Il processo si svolge nel tempo ed il compimento degli atti processuali, durante il suo corso, è scandito dai termini processuali, comunemente definiti come intervalli cronologici entro i quali «deve, può o non può compiersi una determinata attività processuale» (Grossi, Termini (dir. proc. civ.), in Enc. dir., 235): una distantia temporis, in sintesi, tra un atto e l'altro. Classificazioni dei termini
I termini vengono fatti oggetto, anzitutto, di una duplice classificazione: da un lato vengono considerati staticamente nel loro rapporto con l'atto processuale da compiersi e, sotto tale angolo visuale, si suddividono in dilatori, ordinatori (V. TERMINE ORDINATORIO) e perentori (V. TERMINE PERENTORIO); dall'altro lato vengono riguardati nel loro rapporto dinamico con lo svolgersi del processo e, in tal senso, si suddividono in acceleratori e dilatori. Solo la prima delle classificazioni è accolta dal legislatore, che si riferisce ai termini ordinatori e perentori nell'art. 152, comma 2, c.p.c., ed al termine dilatorio nell'art. 501 c.p.c., ove è qualificato tale l'arco temporale che deve decorrere, una volta effettuato il pignoramento, prima che possa chiedersi la vendita o l'assegnazione: è dunque dilatorio il termine prima del quale un determinato atto non può essere validamente compiuto. Le due classificazioni, poi, si intersecano, poiché i termini acceleratori possono essere ordinatori o perentori: ordinatori quando si limitano a delineare il normale svolgimento del processo, ma non ricollegano al loro spirare, considerato in se stesso, alcuna sanzione; perentori quando impongono il compimento di un'attività processuale entro e non oltre una determinata scadenza, facendo discendere dalla loro violazione la sanzione della decadenza. V'è inoltre chi prospetta una distinzione, per così dire, di grado superiore: quella tra termini estrinseci ed intrinseci o naturali (Satta, Punzi, Diritto processuale cvile, Padova, 1981, 238). Estrinseci sarebbero, nel loro complesso, i termini commisurati in frazioni di tempo cui alludono gli artt. 152 ss. c.p.c.; intrinseci quelli correlati allo stesso svolgimento della sequenza processuale come, ad esempio, nel caso della nullità di un atto, che deve essere opposta nella prima istanza o difesa successiva all'atto o alla notizia di esso (art. 157 c.p.c.); dell'incompetenza, che può essere eccepita nei limiti posti dall'art. 38 c.p.c.; della impugnazione di una sentenza, che non può essere proposta se la si è precedentemente accettata; della revoca del giuramento, che non può essere effettuata se l'avversario ha dichiarato di essere pronto a prestarlo (art. 235 c.p.c.), ecc.. Tale distinzione, in definitiva, rinvia a quella tra termine, in senso proprio, e preclusione, intesa come perdita di una facoltà processuale. Occorre ancora distinguere tra termini legali e giudiziali, gli uni direttamente previsti dalla legge, gli altri fissati dal giudice quando, beninteso, la legge gliene riconosce il potere, ex art. 152, comma 1, c.p.c.. Per i termini a carico del giudice V. TERMINE ORDINATORIO. Computo dei termini
La disciplina del computo dei termini è dettata dall'art. 155 c.p.c.. Al computo dei termini è altresì dedicato l'art. 2963 c.c., posto in materia di prescrizione ma avente valore di principio generale. Vanno anzitutto tenuti distinti, in materia, i termini a giorni dai termini a mesi o ad anni.
Perciò, è possibile che il termine di un mese abbia secondo i casi durata di 28, 29, 30 o 31 giorni: così ad esempio, rispettivamente, per il termine di un mese decorrente dal 31 gennaio, avuto riguardo all'ultimo comma dell'art. 2963 c.c., oppure dal 28 febbraio; per il termine avente la stessa decorrenza nel corso di un anno bisestile; per il termine decorrente da un giorno del mese di aprile; per il termine decorrente da un giorno del mese di marzo. Parimenti, il decorso dei termini annuali ha luogo indipendentemente dall'effettivo numero dei giorni compresi nel periodo, allo spirare del giorno corrispondente a quello dell'anno iniziale. Dunque, ad esempio il termine «lungo» per l'impugnazione di cui all'art. 327, comma 1, c.p.c., andava scadere (prima che fosse dimezzato e portato a sei mesi), senza considerare la sospensione feriale, lo stesso giorno e mese della data di deposito della sentenza, l'anno successivo (Cass. civ., 12 novembre 2007, n. 23479): perciò, nulla rilevava, in linea di principio, che il detto termine avesse corso in un anno bisestile (Cass. civ., 27 agosto 1992, n. 9911; Cass. civ., sez. un., 29 marzo 1989, n. 1547: ma diversamente v. Cass. civ., 25 luglio 1977, n. 3298). È tuttavia il caso di precisare, accennando alla trattazione del tema della sospensione dei termini feriali (V. SOSPENSIONE FERIALE), che il carattere bisestile dell'anno non era insignificante ai fini del computo del termine annuale, prolungato di 45 giorni per effetto della menzionata sospensione, previsto dal citato art. 327: tale termine, infatti, si calcolava per un verso, quanto all'anno, ex nominatione dierum e, per altro verso, quanto ai 45 giorni, ex numerazione dierum. È appena il caso di aggiungere che la riduzione a sei mesi del termine per l'impugnazione di cui all'art. 327 c.p.c. non ha fatto venir meno il rilievo dei termini ad anno, come ad esempio ai fini del computo a ritroso del termine di proponibilità dell'azione revocatoria fallimentare, che si calcola ad anno completo e non a giorni. In tal caso il dies a quo coincide non già con la data della deliberazione della decisione, ma con quella del deposito in cancelleria (pubblicazione) della sentenza dichiarativa di fallimento, dovendosi escludere tale giorno, ai sensi dell'art. 155, comma 1, c.p.c., mentre deve essere conteggiato, quale dies ad quem, il giorno terminale del computo all'indietro (Cass. civ., sez. I, 20 ottobre 2015, n. 21273).
Il principio che precede non si applica però ai termini liberi, per il computo dei quali non vanno tenuti in considerazione né il dies a quo né il dies ad quem. Tali sono quei termini espressamente qualificati come liberi, come accade in genere per i termini a comparire (artt. 163-bis, 318, 342, 660 c.p.c.), ma non necessariamente solo per essi (si veda il vecchio testo dell'art. 190 c.p.c. che prevedeva, per la comunicazione delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, i termini di dieci e cinque giorni liberi prima dell'udienza di discussione). Una ulteriore peculiarità del computo dei termini liberi sta in ciò, che essi rimangono indifferenti alla circostanza che il dies ad quem vada a cadere in un giorno festivo: si pensi a tutte le citazione a comparire per un'udienza fissata di lunedì quando l'ultimo dei 90 giorni a disposizione del convenuto, ex art. 163-bis c.p.c., sia costituito dalla domenica appena precedente. Ebbene, ai termini liberi non si applica la proroga, della quale si parlerà qui di seguito, prevista dal terzo comma dell'art. 155 c.p.c.. Nel caso dei termini liberi, infatti, l'esigenza di assicurare al convenuto un congruo spatium deliberandi al fine di consentirgli l'apprestamento delle sue difese è pienamente assicurata allorché – dedotti il dies a quo ed il dies ad quem – il periodo concesso dalla legge sia stato per intero a disposizione della parte, come nel caso dell'udienza di comparizione che cada al di là del periodo così stabilito: e ciò ancorché la scadenza del termine in questione avvenga in un giorno festivo, sia perché l'apprestamento della difesa non comporta alcun compimento di atti presso uffici pubblici o con il concorso di pubblici ufficiali, nella quale situazione trova fondamento la proroga suddetta, sia perché l'ultimo giorno del periodo libero esula da quello di scadenza del termine, cui la proroga stessa è correlata (Cass. civ., 24 novembre 1981, n. 6242; Cass. civ., 6 novembre 1982, n. 5864; Cass. civ., 19 dicembre 1995, n. 12944). La regola alla quale si è appena accennato secondo cui se il giorno di scadenza è festivo, la scadenza è prorogata di diritto al primo giorno seguente non festivo (art. 155, comma 4, c.p.c.), si applica per il suo carattere generale a tutti i termini, dilatori, ordinatori e perentori, previsti dal codice di rito (Cass. civ., 11 giugno 1986, n. 3870): così, ad esempio, il termine per la notificazione del ricorso per cassazione che cada di domenica è prorogato di diritto al primo giorno seguente non festivo (Cass. civ., 30 luglio 2009, n. 17754; Cass. civ., 30 luglio 2009, n. 17754). Non influiscono in alcun modo nel calcolo, invece, le festività intermedie, che non coincidano, cioè, con il dies ad quem.
Cosa debba intendersi per «festività» è stabilito dalla l. 27 maggio 1949, n. 260, recante disposizioni in materia di ricorrenze festive. Esse sono, oltre a tutte le domeniche: il 1° e il 6 gennaio, il 25 aprile, il giorno di lunedì dopo Pasqua, il 1° maggio, il 2 giugno, il 15 agosto, il 1° novembre, l'8, 25 e 26 dicembre. La ricorrenza della festa del santo patrono della città non è invece considerata nell'elenco delle festività, né la circostanza che in tale ricorrenza l'ufficio postale non distribuisca la corrispondenza può determinare la eccezionale proroga accordata dall'art. 155 c.p.c., in quanto, l'orario dei pubblici uffici, che il privato ha l'onere di conoscere per una diligente cura dei propri interessi, non incide sul diritto di difesa (Cass. civ., 14 dicembre 1998, n. 12533, che richiama C. cost. n. 80 del 1967). Un caso particolare, però, è quello del 29 giugno: qualora il termine per il compimento dell'atto presso un ufficio giudiziario capitolino cada in tale data, la scadenza viene prorogata al giorno seguente non festivo, a norma dell'art. 155 c.p.c., giacché il carattere di festività viene determinato in base alla citata l. n. 260 del 1949 e successive modificazioni, le quali, pur ignorando le festività dei santi patroni delle città, includono espressamente il giorno dei santi apostoli Pietro e Paolo, patroni di Roma, nell'elenco di quelli festivi agli effetti civili (Cass. civ., 3 agosto 2007, n. 17079, riferita al ricorso per cassazione; da ult. Cass. civ., sez. II, 24 marzo 2015, n. 5895). Il codice di rito (art. 155, comma 5, c.p.c.) equipara inoltre la giornata del sabato alle festività per il compimento di tutti gli atti processuali svolti fuori dall'udienza (p. es. deposito di memorie, atti, comparse, ecc.), sicché la scadenza è prorogata al giorno successivo non festivo e dunque, di regola, al lunedì.
L'equiparazione trova applicazione, però, solo per i termini a decorrenza successiva e non anche per quelli che si computano a ritroso (Cass. civ., 22 luglio 2009, n. 17103: la scadenza del termine, cioè, rimane in tal caso fissata al sabato e non viene né anticipata al venerdì, né posticipata al lunedì). Ciò in quanto, altrimenti, si produrrebbe l'effetto contrario di una abbreviazione dell'intervallo, in pregiudizio con le esigenze garantite con previsione del termine medesimo (Cass. civ., 7 maggio 2008, n. 11163). Il rilievo della questione non ha bisogno di essere sottolineato: se ad esempio l'udienza di discussione nel rito del lavoro è fissata di martedì, il termine ultimo per la costituzione del convenuto rimane fermo al penultimo sabato (non posticipato al penultimo lunedì) precedente. Per le udienze e l'attività giudiziaria degli ausiliari del giudice il sabato è invece considerato lavorativo a tutti gli effetti. Di recente è stato però detto che in caso di termine a ritroso (quello previsto dall'art. 378 c.p.c.) la scadenza è anticipata al venerdì (Cass. civ., sez. III, 30 giugno 2014, n. 14767). Quanto alla disciplina transitoria concernente l'applicazione della norma di (limitata) equiparazione della giornata del sabato alle festività, occorre rammentare che l'art. 58, comma 3, l. 18 giugno 2009, n. 69, in vigore dal 4 luglio 2009, secondo cui i commi quinto e sesto dell'art. 155 c.p.c., aggiunti dall'art. 2, comma 1, lett. f, l. 28 dicembre 2005, n. 263 si applicano anche ai procedimenti pendenti alla data del 1° marzo 2006, deve essere interpretato in conformità al precetto di cui all'art. 11, comma 1, delle c.d. preleggi, ovvero nel senso che la novella dispone solo per l'avvenire, stante l'assenza di qualsiasi espressione che possa sottintendere una volontà di interpretazione autentica della norma di cui all'art. 2, comma 4, della citata l. 28 dicembre 2005, n. 263, e, quindi, un suo automatico effetto retroattivo: in definitiva, l'equiparazione in discorso si applica ai procedimenti pendenti al 1° marzo 2006, ma soltanto per il futuro e, cioè, in riferimento a termini in scadenza dopo la data suddetta (Cass. civ., 3 luglio 2009, n. 15636; Cass. civ., 15 marzo 2010, n. 6212; da ult. Cass. civ., sez. VI, 12 gennaio 2016, n. 310). Conserva ancora interesse rammentare che la S.C., ha ritenuto in precedenza irrilevante la circostanza che il giorno di scadenza sia il sabato, tenuto conto che questo giorno non è festivo, e che l'anticipazione per esso dell'orario di chiusura di pubblici uffici o portinerie non si traduce in una riduzione dei termini medesimi, restando anche tale giorno utile per il compimento di attività processuale, sia pure nel rispetto di detto orario che la parte ha l'onere di conoscere (Cass. civ., 27 luglio 1983, n. 648). Computo dei termini e sospensione feriale
Il computo dei termini deve misurarsi col tema già menzionato della sospensione dei termini nel periodo feriale (V. SOSPENSIONE FERIALE). L'art. 16 d.l. 12 settembre 2014, n. 132, coordinato con la l. di conversione 10 novembre 2014, n. 162, recante: «Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell'arretrato in materia di processo civile», ha modificato la durata della sospensione feriale dei termini processuali. A decorrere dal 2015 la sospensione dei termini è fissata dal 1° al 31 agosto di ogni anno (31 giorni), mentre in precedenza era prevista (a partire dal 1969) un'interruzione dal 1° agosto al 15 settembre (46 giorni). La norma si applica ai processi in corso. La sospensione feriale assume rilievo fondamentale soprattutto ai fini della verifica della tempestività dell'impugnazione, tanto in caso di applicazione del termine «breve» che di quello «lungo». Così, il termine per la proposizione dell'impugnazione stabilito a pena di decadenza dall'art. 327 c.p.c. si computa, in considerazione della sospensione dei termini processuali senza tener conto dei giorni compresi tra il 1° agosto ed il 15 settembre (oggi tra il 1° e il 31 agosto) del semestre (in passato dell'anno) dalla pubblicazione della sentenza impugnata, a meno che la data di deposito non cada durante lo stesso periodo feriale, nel qual caso, in base al principio secondo cui dies a quo non computatur in termino, esso decorre dallo spirare del periodo feriale (Cass. civ., sez. un., 5 ottobre 2009, n. 21197). Specifica attenzione è stata prestata, in passato, alla data del 16 settembre: con la precisazione che gli approdi giurisprudenziali qui di seguito menzionati suscitano tutt'ora interesse, dovendo essere applicati (per effetto della riduzione del periodo feriale) non più al 16 settembre ma al 31 agosto. Tanto per i termini che rimanevano sospesi iniziando il loro corso in una data antecedente al 1° agosto, quanto per quelli che iniziavano a decorrere in un qualunque giorno compreso tra il 1° agosto ed il 15 settembre, sorgeva la questione se il 16 settembre dovesse essere computato oppure no. A fronte di soluzioni contrastanti, le Sezioni Unite hanno interpretato la norma di riferimento (l'art. 1 della l. 7 ottobre 1969, n. 742) nel senso che il giorno 16 settembre dovesse essere sempre compreso nel numero dei giorni concessi dal termine, in quanto tale giorno segna non l'inizio del termine, ma l'inizio del suo decorso, il quale non include il dies a quo del termine stesso, in applicazione del principio fissato dall'art. 155, comma 1, c.p.c. (Cass. civ., sez. un., 28 marzo 1995, n. 3668 in Giust. civ., 1995, I, 2739, con nota di Moneta, Una questione di numeri, per la seconda volta al vaglio delle Sezioni Unite). La giurisprudenza successiva risulta aver condiviso senza eccezioni l'indirizzo (Cass. civ., 29 marzo 2007, n. 7757; Cass. civ., 6 aprile 2006, n. 8102; Cass. civ., 16 gennaio 2006, n. 688; Cass. civ., 4 marzo 2005, n. 4785; da ult. Cass. civ., sez. VI, 29 aprile 2016, n. 8518). Questa soluzione, vale ribadire, è stata applicata sia per i termini che iniziavano a decorrere prima della sospensione, sia per i termini che iniziavano a decorrere durante il periodo di sospensione: in tal caso, cioè, la previsione secondo cui l'inizio stesso dodeva intendersi differito alla fine di detto periodo, andava inteso nel senso che il giorno 16 settembre doveva essere compreso nel novero dei giorni concessi dal termine (Cass. civ., 22 maggio 2000, n. 6635; Cass. civ., 31 maggio 2006, n. 12993). Né la regola così riassunta subiva deroga nel caso in cui il detto giorno 16 settembre cadesse in giorno festivo, ad esempio di domenica, in quanto la proroga di diritto al primo giorno successivo non festivo costituisce eccezione al principio generale secondo cui i termini si calcolano secondo il calendario comune non computando il giorno iniziale ma quello finale, la cui previsione, riguardo al caso considerato, non risulta da norma alcuna, non soccorrendo al riguardo il terzo comma del medesimo art. 155, che concerne la scadenza, e non già l'inizio, del decorso del termine (Cass. civ., 30 marzo 2005, n. 6679). La sospensione dei termini, con riguardo al previgente termine di un anno dalla pubblicazione della sentenza, poteva operare due volte nell'ipotesi in cui, dopo una prima sospensione, il termine annuale non fosse decorso interamente al sopraggiungere del successivo periodo (Cass. civ., 29 settembre 2009, n. 20817; Cass. civ., 3 febbraio 2006, n. 2435; Cass. civ., 24 novembre 2005, n. 24816; Cass. civ., 22 giugno 2005, n. 13383). Perciò, qualora una sentenza di appello fosse stata depositata il 12 settembre 2006 (e non notificata) il termine annuale per la sua impugnazione iniziava a decorrere dal 16 settembre 2006: detto termine, inoltre, non era ancora scaduto all'inizio del periodo feriale dell'anno successivo, per cui risultava sospeso per altri 46 giorni venendo a scadere il 31 ottobre 2007, sicché era tempestivo il ricorso per cassazione notificato il 29 ottobre 2007 (Cass. civ., 2 aprile 2009, n. 8016; per una fattispecie simile v. Cass. civ., 16 aprile 2007, n. 8980). Ultimo, ma non meno importante argomento, da trattare in tema di computo dei termini è quello dei c.d. termini «a ritroso». In tal caso, il dies a quo è cronologicamente successivo al dies ad quem, come nel caso, tra gli altri, del termine per la costituzione del convenuto, da effettuarsi, nel giudizio di cognizione ordinaria, ex art. 166 c.p.c., almeno 20 giorni prima dell'udienza di comparizione fissata nell'atto di citazione, o almeno 10 giorni prima nel caso di abbreviazione dei termini a norma del secondo comma dell'art. 163-bis, ovvero almeno 20 giorni prima dell'udienza fissata a norma dell'art. 168-bis, comma 5, c.p.c.. Ebbene, la disciplina dettata per il computo dei termini da un determinato giorno in avanti trova applicazione anche per i termini da computarsi a ritroso, nei quali è da considerare come dies a quo il giorno di partenza del computo a ritroso, che, quindi, non deve essere calcolato, e da considerare come dies ad quem il giorno terminale del computo all'indietro, che, pertanto, deve essere conteggiato (p. es. Cass. civ., 12 novembre 2003, n. 17021). In proposito la giurisprudenza ha anzitutto escluso che termini a ritroso debbano essere come tali considerati alla stregua di termini liberi. Molte pronunce si rinvengono, in tal senso, con riguardo alla questione della verifica della tempestività della costituzione del convenuto, che nelle controversie soggette al rito al lavoro deve avvenire, ai sensi dell'art. 416, comma 1, c.p.c., almeno dieci giorni prima della udienza: in tal caso — ha osservato la S.C. — è da considerare come dies a quo il giorno dell'udienza, che perciò va escluso dal computo secondo il principio generale stabilito dal primo comma dell'art. 155 c.p.c., e come dies ad quem il decimo giorno precedente l'udienza stessa, che invece va computato, non essendo espressamente previsto, dalla norma, che si tratti di termine libero (Cass. civ., 21 marzo 2006, n. 6263; Cass. civ., 3 gennaio 1995, n. 26; Cass. civ., 2 aprile 1992, n. 4034; Cass. civ., 26 febbraio 1985, n. 1655; per la tempestività della costituzione del creditore in sede di opposizione allo stato passivo del fallimento v. Cass. civ., 28 marzo 1997, n. 2807; Cass. civ., 8 luglio 1994, n. 6451). È inoltre ritenuto che nel computo dei termini a ritroso debba tenersi conto del periodo di sospensione feriale: così, se l'udienza di discussione nel rito del lavoro è fissata al 5 settembre (dies a quo che non computatur), il termine per la costituzione del convenuto va a scadere non il 26 agosto, ma il 26 luglio (dies ad quem che computatur) (Cass. civ., 7 ottobre 2005, n. 19530, in epoca in cui la sospensione cessava il 15 settembre, ha così ritenuto tardiva una memoria depositata il giorno 15 settembre per l'udienza del giorno 20 successivo). La sospensione dei termini processuali durante il periodo feriale — è stato detto — comporta la sottrazione del medesimo dal relativo computo, sicché, ai fini della costituzione del convenuto in primo grado, il termine di venti giorni prima dell'udienza di comparizione fissata nell'atto di citazione va calcolato, ove sia indicata un'udienza per una data successiva al compimento del periodo feriale ma tale che il termine di venti giorni ricada in detto periodo, mediante un conteggio a ritroso che in detta frazione temporale incontra una parentesi oltre la quale il conteggio stesso deve proseguire fino ad esaurimento (Cass. civ., 17 maggio 2010, n. 12044). La soluzione, per la verità, suscita qualche perplessità: il senso della sospensione dei termini feriali sta in ciò, che il ceto forense può fare dal 1° settembre in poi quelle attività, non urgenti, che avrebbe dovuto fare nel precedente periodo feriale. Viceversa, la regola dell'applicabilità della sospensione feriale ai termini a ritroso produce un alquanto paradossale effetto opposto e, cioè, obbliga gli avvocati a fare prima ciò che, altrimenti, potrebbero fare dopo. Sempre in tema di termini a ritroso, si è già accennato, con riguardo all'equiparazione del sabato agli altri giorni festivi, al principio secondo cui l'art. 155, comma 4, c.p.c., diretto a prorogare al primo giorno non festivo il termine che scada in giorno festivo, opera con esclusivo riguardo ai termini cosiddetti a decorrenza successiva, e non anche per quelli che si computano a ritroso, con l'assegnazione di un intervallo di tempo minimo prima del quale deve essere compiuta una determinata attività, in quanto, altrimenti, si produrrebbe l'effetto contrario di un'abbreviazione di quell'intervallo, in pregiudizio delle esigenze garantite con la previsione del medesimo (Cass. civ., 12 dicembre 2003, n. 19041; Cass. civ., 20 maggio 2002, n. 7331; Cass. civ., 29 novembre 1977, n. 5187; Cass. civ., 26 ottobre 1976, n. 3877). Pertanto — volendo ricorrere ad un esempio proveniente dalla giurisprudenza — qualora il giorno fissato per la vendita all'incanto sia un lunedì e per la presentazione delle offerte sia stabilito quale termine il giorno precedente la vendita, detto termine scade nel dì del sabato precedente la vendita (Cass. civ., 20 novembre 2002, n. 16343). Riferimenti
BALENA, Comunicazioni, notificazioni e termini processuali, in BALENA-BOVE, Le riforme più recenti del processo civile, Bari, 2006, 42; COSTANTINO, Termini processuali in materia civile. Rimessione in termini, in Foro it., 2011, I, 1074; GROSSI, Termini (dir. proc. civ.), in Enc. dir., 235; MATTEINI CHIARI-DI MARZIO, Le notificazioni e termini nel processo civile, Milano, 2014. Potrebbe interessarti |