Appello (nelle controversie in materia di lavoro)

13 Giugno 2016

La legge introduttiva del processo del lavoro (l. 11 agosto 1973, n. 533), ha dedicato all'appello secondo il rito del lavoro le disposizioni da 433 a 441 c.p.c., le quali non disciplinano integralmente la materia, ma si limitano a porre talune disposizioni, ferma restando l'applicabilità, nei limiti della compatibilità, delle regole generali dettate in tema di impugnazioni dagli artt. 323 ss c.p.c.

Inquadramento

IN FASE DI AGGIORNAMENTO AUTORALE DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE 

La legge introduttiva del processo del lavoro (l. 11 agosto 1973, n. 533), ha dedicato all'appello secondo il rito del lavoro le disposizioni da 433 a 441 c.p.c., le quali non disciplinano integralmente la materia, ma si limitano a porre talune disposizioni, ferma restando l'applicabilità, nei limiti della compatibilità, delle regole generali dettate in tema di impugnazioni dagli artt. 323 ss c.p.c. (Montesano e Vaccarella, Manuale di diritto processuale del lavoro, 3a ed., Napoli, 1996, 293; Tesoriere, Diritto processuale del lavoro, 3a ed., Padova, 1999, 257 ss.; Casciaro, L'appello nel rito del lavoro, Roma, 1992, 21 ss.; Sandulli e Socci, Il processo del lavoro, 2a ed., Milano, 2010, 379).

Per effetto delle modifiche apportate al procedimento ordinario di cognizione, ivi compreso il giudizio di appello, le differenze tra appello ordinario e appello nel rito del lavoro si sono andate nel corso degli anni sempre più riducendo, in ragione dell'inserimento nel rito ordinario di congegni preclusivi e decadenziali che, in passato, erano estremamente ridotti, ed anche per la modificazione della fase decisoria, con l'introduzione dell'art. 281-sexies c.p.c.. Al di là della condivisione dei principi di fondo — in entrambi i casi l'appello si connota per un analogo effetto devolutivo, entro l'ambito del quantum appellatum, e sostitutivo —, sia l'appello ordinario che l'appello di lavoro si caratterizzano, almeno tendenzialmente, per la trattazione collegiale della causa in appello, mentre il regime dei nova è ormai notevolmente somigliante ed è parimenti applicabile lo strumento dell'inammissibilità delle impugnazioni mancanti di probabilità di accoglimento, ovvero manifestamente infondate, attraverso il rinvio dell'art. 436-bis agli artt. 348-bis e 348-ter c.p.c.

Rimangono in essere, tuttavia, differenze non trascurabili tra appello ordinario e appello speciale:

i) anzitutto la forma dell'atto introduttivo, che nel processo del lavoro è costituito dal ricorso, mentre l'appello ordinario si introduce con citazione;

ii) il sistema delle preclusioni permane in qualche misura maggiormente rigido nell'appello lavoro rispetto all'appello ordinario;

iii) l'appello secondo il rito del lavoro conosce un istituto — ormai peraltro ampiamente recessivo, come si vedrà — che all'appello ordinario è ignoto, ossia l'appello con riserva dei motivi, una sorta di appello in prevenzione, che consente all'appellante di agire, a determinate condizioni, al fine di ottenere la sospensione della provvisoria esecuzione della decisione adottata in primo grado, prima ancora del deposito della motivazione della sentenza;

iv) l'appello incidentale nel rito ordinario va proposto con la comparsa di risposta, che deve essere tempestivamente depositata nella cancelleria del giudice, mentre nel processo del lavoro, oltre al tempestivo deposito della memoria contenente l'appello incidentale, occorre altresì la notificazione della memoria all'appellante principale, nel termine, di cui all'art. 436, comma 3, c.p.c., di dieci giorni prima dell'udienza di discussione. Il mancato espletamento di tale attività determina secondo la dottrina l'inammissibilità dell'appello incidentale (Mandrioli, Diritto processuale civile, 21a ed., III, Torino, 2011, 270 ss.); di diversa opinione la giurisprudenza, secondo la quale la proposizione dell'appello incidentale si perfeziona, ai sensi dell'art. 436 c.p.c., con il deposito, nel termine previsto dalla legge, del ricorso nella cancelleria del giudice ad quem, che impedisce ogni decadenza; ne consegue che, qualora la parte non abbia provveduto alla notificazione della memoria che lo contiene almeno dieci giorni prima dell'udienza fissata per la discussione, non può derivarne la declaratoria di inammissibilità dell'impugnazione, dovendo il giudice di appello concedere all'appellante incidentale nuovo termine, da qualificarsi come perentorio, per la notificazione (Cass. civ., sez. III, 22 maggio 2007, n. 11888);

v) tutte le attività – compresa l'eventuale istruzione della causa – sono concentrate nell'udienza di discussione, tendenzialmente unica, dinanzi al collegio;

vi) la fase decisoria è parimenti differente nell'appello secondo il rito del lavoro, rispetto al rito ordinario, dal momento che il collegio, udita la relazione del giudice designato e la discussione dei difensori delle parti, pronuncia sentenza dando lettura del dispositivo, cui segue il deposito della sentenza completa in cancelleria.

Introduzione del giudizio

Competente in senso verticale a decidere sull'appello proposto contro la sentenza pronunciata dal tribunale, giudice del lavoro è, dopo l'entrata in vigore del d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, la corte di appello, e, in particolare, nelle corti suddivise in sezioni, la sezione lavoro. La competenza territoriale appartiene alla corte di appello nella cui circoscrizione ha sede il tribunale che ha pronunciato la sentenza di primo grado. Sono inappellabili ai sensi dell'art. 440 c.p.c. le sentenze che hanno deciso una controversia di valore non superiore a 25,82 euro.

L'appello proposto secondo il rito del lavoro si introduce con ricorso, così come il giudizio di primo grado.

La menzionata previsione di forma non impedisce che, seppur erroneamente proposto con citazione, l'appello sia ammissibile, sempre che sia stato depositato nei termini stabiliti. In tal caso occorre provvedere al mutamento del rito, ma, ove ciò non avvenga, si determina una mera irregolarità processuale che assume rilievo solo se abbia arrecato alla parte un pregiudizio processuale incidente sulla competenza, sul regime delle prove, o sui diritti di difesa (v. MUTAMENTO DEL RITO). Qualora il giudizio di primo grado si sia svolto in applicazione erronea del rito ordinario in luogo del rito del lavoro, trova applicazione il principio della ultrattività del rito, il quale comporta che l'appello debba essere proposto con citazione e non con ricorso (Cass. civ., sez. III, 21 ottobre 1998, n. 10425). Ove l'appellante incorra in errore, trovano applicazione le medesime regole poc'anzi indicate, con la precisazione che, ai fini della verifica della tempestività dell'impugnazione, occorrerà farsi riferimento alla data di notificazione del ricorso impiegato in luogo della citazione, e non del suo deposito (v. FORMA DELL'APPELLO).

L'art. 431, comma 1, conferisce al lavoratore vittorioso di porre in esecuzione la decisione del tribunale, con il solo dispositivo. La modifica apportata al comma 1 dell'art. 429, secondo cui il giudice pronuncia oggi sentenza mediante lettura non del solo dispositivo, ma anche della motivazione, ha di molto ridotto il rilievo dell'esecuzione intrapresa sulla base del solo dispositivo. In presenza di simile ipotesi, e qualora l'esecuzione in forza del dispositivo sia stata intrapresa prima ancora della notificazione della sentenza, il datore di lavoro rimasto soccombente può proporre l'impugnazione con riserva di motivi, investendo in tal modo il giudice d'appello della decisione sulla sospensione della provvisoria esecuzione della sentenza. Il potere di proporre appello con riserva dei motivi sussiste anche se, una volta che la parte abbia ricevuto la notificazione del dispositivo della sentenza e dell'atto di precetto, nelle more dell'inizio dell'esecuzione la sentenza sia stata depositata (Cass. civ., sez. III, 26 ottobre 2012, n. 18489).

Nel caso in cui i motivi non vengano successivamente presentati, l'appello diviene inammissibile, la sentenza di primo grado passa in giudicato e la sospensiva eventualmente concessa diviene inefficace. Se invece i motivi vengono presentati fuori termine, il presidente fissa l'udienza di discussione e, in quella sede l'appello va dichiarato, con sentenza, inammissibile. L'appello dichiarato inammissibile non consuma l'azione, nel senso che può essere riproposto nuovo atto di impugnazione (completo di motivi), nei termini di cui all'art. 434 (Cass. civ., sez. III, 31 maggio 2006, n. 13005).

Il contenuto del ricorso è regolato dall'art. 434 c.p.c. attraverso il rinvio all'art. 414 dettato per l'atto introduttivo del giudizio di primo grado. Il comma 1 della disposizione, poi, riproduce per il resto il testo del novellato art. 342 (v. SPECIFICITÀ DEI MOTIVI DI APPELLO).

Il ricorso va depositato presso la cancelleria della corte di appello. Al momento del deposito l'appellante deve allegare il proprio fascicolo di parte e copia della sentenza impugnata. La mancanza di quest'ultima non impedisce l'esame dell'impugnazione, purché il giudice possa supplire con gli atti presenti. Anche il mancato deposito del fascicolo non esime il giudice dal valutare il merito dell'appello che, eventualmente, dovrà essere rigettato nel caso in cui dette carenze abbiano rilievo ai fini della fondatezza dell'impugnazione (Cass. civ., sez. lav., 9 novembre 2010, n. 22749).

Il deposito dell'atto di appello, secondo l'art. 434 c.p.c., deve avvenire entro trenta giorni dalla notificazione della sentenza oppure entro quaranta giorni, nel caso in cui la notificazione debba essere effettuata all'estero. I termini in questione sono rispettati con il solo deposito, non essendo invece necessario che la notifica dell'appello avvenga nei medesimi. La norma si riferisce in tal modo al cosiddetto termine breve, sicché, nel caso di sentenza non notificata, il termine da osservare per proporre l'impugnazione è quello «lungo» previsto dall'art. 327.

Una volta depositato il ricorso, il presidente della corte d'appello nomina il giudice relatore e fissa l'udienza, potere delegabile al presidente della sezione lavoro, ove presente.

Va rammentato, quanto alla nomina del relatore, che non trova in seguito applicazione il principio della immutabilità del giudice istruttore sancito dall'art. 174, sicché è possibile sostituire un relatore ad un altro senza particolari formalità fino all'udienza di discussione: dall'inizio della discussione opera al contrario il principio che vieta la deliberazione della sentenza da parte di un collegio diversamente composto rispetto a quello dinanzi al quale la discussione si è svolta. Tuttavia, ove si siano tenute più udienze di discussione, anche nel giudizio di appello soggetto al rito del lavoro, non vi è ostacolo alla sostituzione del relatore, sicché la modifica dell'originaria composizione dell'organo giudicante non comporta nullità (Cass. civ., sez. lav., 30 novembre 2009, n.25229).

I termini dettati per la nomina del relatore (cinque giorni dal deposito) e per la udienza di discussione (sessanta giorni), hanno natura «sollecitatoria» (Cass. civ., sez. un., 28 ottobre 1998, n. 10728), con la conseguenza che, come in generale accade per i termini posti a carico del giudice, la loro violazione non produce conseguenze se non, eventualmente, di ordine disciplinare.

In evidenza

Il ricorso ed il decreto presidenziale vanno notificati alla controparte entro 10 giorni, termine che decorre dalla comunicazione del provvedimento (C. cost. n. 15/1977). Tra la notifica e l'udienza di discussione debbano intercorrere almeno venticinque giorni. È quest'ultimo, tra i termini contenuti nella norma, quello che deve essere rispettato, perché posto a garanzia della difesa dell'appellato. Il termine di 10 giorni è invece considerato ordinatorio, e la sua inosservanza non produce effetti sul processo (Cass. civ., sez. VI-L, 15 ottobre 2010, n. 21358; Cass. civ., sez. VI-III, 14 luglio 2011, n. 15590; Cass. civ., sez. VI-III, 10 luglio 2013, n. 17076; Cass. civ., sez. VI-L, 29 febbraio 2016, n. 3959). L'omessa notifica dell'appello e del decreto di fissazione dell'udienza (e cioè la radicale mancanza della notificazione, non già la sua tardività rispetto al termine di 10 giorni appena menzionato) determina la improcedibilità dell'appello, ed è rilevabile d'ufficio, non essendo consentito al giudice di assegnare all'appellante un termine perentorio per provvedere ad una nuova notifica, ai sensi dell'art. 291 (Cass. civ., sez. VI-L, 13 aprile 2010, n. 8752).

Costituzione dell'appellato e appello incidentale

L'appellato è sottoposto all'onere di costituzione mediante il deposito di una memoria difensiva, prevista dall'art. 436 c.p.c., contenente la dettagliata esposizione delle sue difese, ossia delle ragioni dedotte in contrapposizione ai motivi di appello, in vista della conferma della sentenza impugnata.

La memoria di costituzione ed il fascicolo di parte devono essere depositati almeno dieci giorni prima della udienza di discussione. In caso contrario l'appellato incorre nelle decadenze previste dalla norma ed in particolare quella concernente la proposizione dell'appello incidentale. Il termine si calcola in applicazione delle regole concernenti i termini a ritroso (v. TERMINI PROCESSUALI IN GENERE), con esclusione del giorno dell'udienza di discussione (Cass. civ., sez. VI-L, 23 marzo 2005, n. 6225). La costituzione tardiva, non preclude dunque lo svolgimento dell'attività difensiva.

L'appello incidentale deve essere contenuto nella memoria di costituzione tempestivamente depositata. Si è accennato in precedenza al rilievo dell'adempimento della notificazione.

Udienza di discussione

L'udienza di discussione in appello secondo il rito del lavoro è disciplinata dall'art. 437 c.p.c.. Essa ha inizio con la relazione della causa, che, tuttavia, non è prescritta a pena di nullità e la sua omissione non pregiudica, quindi, la validità della successiva sentenza (Cass. civ., sez. VI-L, 19 novembre 2010, n.23495). Neppure è indispensabile, prima della pronuncia della sentenza, la discussione orale della causa. Il principio della immodificabilità del collegio determina nullità della sentenza solo se il mutamento della composizione collegiale si sia verificata tra la discussione orale e la decisione della causa; non opera invece rispetto ad un cambiamento avvenuto in sede di assunzione della prova, ovvero di rinvio per trattazione (Cass. civ., sez. VI-L, 10 agosto 2006, n. 18156).

Nel corso dell'udienza di discussione deve svolgersi preliminarmente alla decisione la riunione degli appelli pendenti avverso la medesima sentenza, nonché la riunione di appelli che riguardino anche sentenze differenti, ma che, connesse anche solo per identità di questioni, fanno ritenere opportuna una trattazione congiunta.

L'udienza di discussione si conclude con la pronuncia della sentenza e la lettura del dispositivo nella stessa udienza.

L'incipit del comma 2 dell'art. 437 c.p.c., nel fare divieto di nuove domande ed eccezioni, ricalca nella sostanza il testo vigente dell'art. 345, nella parte in cui stabilisce che nel giudizio d'appello non sono ammesse domande nuove, né nuove eccezioni non rilevabili d'ufficio, le quali se proposte, vanno dichiarate inammissibili (v. DOMANDE NUOVE IN APPELLO).

Mezzi di prova

Quanto ai mezzi di prova, l'art. 437 c.p.c. fa divieto di nuovi mezzi di prova, salvo non siano «indispensabili», ma consente in ogni caso l'ammissione del giuramento decisorio.

Quanto a quest'ultimo la SC ha chiarito che il giuramento decisorio può essere deferito, in grado d'appello, in qualsiasi momento della causa, secondo la testuale previsione dell'art. 437, comma 2, e quindi anche nel corso della discussione orale e fino al compimento di questa, restando pertanto escluso che l'appellante, il quale intenda deferire il giuramento, abbia l'onere di individuare la relativa formula sin dall'atto introduttivo del gravame (Cass. civ., sez. VI-L, 30 maggio 2002, n. 7923).

Prima di chiedersi cosa debba intendersi per prove indispensabili, va anzitutto precisato che, fino a poco più di un decennio addietro, la questione dell'individuazione della nozione di indispensabilità si poneva esclusivamente con riguardo alle prove «costituende» e non per quelle «precostituite». In buona sostanza si sosteneva che le produzioni documentali — da effettuarsi, in grado d'appello, secondo alcuni con il ricorso e secondo altri fino all'udienza di discussione — non avrebbero comportato un rallentamento del processo. L'atteggiamento della giurisprudenza è radicalmente cambiato, e la SC, Sezioni Unite, ha stabilito che la sanzione di inammissibilità dei nuovi mezzi di prova in appello si riferisce anche di documenti (Cass. civ., sez. Un., 20 aprile 2005, n. 8202; Cass. civ., sez. VI-L, 19 gennaio 2007, n. 21967; Cass. civ., sez. III, 10 luglio 2008, n. 18884; Cass. civ., sez. VI-L, 2 febbraio 2009, n. 2577; Cass. civ., sez. VI-L, 26 maggio 2010, n. 12847; Cass. civ., sez. VI-L, 28 agosto 2013, n. 19810; Cass. civ., sez. VI-L, 18 maggio 2015, n. 10102; Cass. civ., sez. VI-L, 15 luglio 2015, n. 14820).

In evidenza

Sicché, nel rito del lavoro, in base al combinato disposto degli artt. 416, comma 3, che stabilisce che il convenuto deve indicare a pena di decadenza i mezzi di prova dei quali intende avvalersi, ed in particolar modo i documenti, che deve contestualmente depositare, e 437, comma 2, che, a sua volta, pone il divieto di ammissione in grado di appello di nuovi mezzi di prova, fra i quali devono annoverarsi anche i documenti, l'omessa indicazione, nell'atto introduttivo del giudizio di primo grado, dei documenti, e l'omesso deposito degli stessi contestualmente a tale atto, determinano la decadenza del diritto alla produzione dei documenti stessi, salvo che la produzione non sia giustificata dal tempo della loro formazione o dall'evolversi della vicenda processuale successivamente al ricorso ed alla memoria di costituzione (ad esempio, a seguito di riconvenzionale o di intervento o chiamata in causa del terzo); e la irreversibilità della estinzione del diritto di produrre i documenti, dovuta al mancato rispetto di termini perentori e decadenziali, rende il diritto stesso insuscettibile di reviviscenza in grado di appello. Tale rigoroso sistema di preclusioni trova un contemperamento — ispirato alla esigenza della ricerca della « verità materiale », cui è doverosamente funzionalizzato il rito del lavoro, teso a garantire una tutela differenziata in ragione della natura dei diritti che nel giudizio devono trovare riconoscimento — nei poteri d'ufficio del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ai sensi del citato art. 437, secondo comma, ove essi siano indispensabili ai fini della decisione della causa, poteri, peraltro, da esercitare pur sempre con riferimento a fatti allegati dalle parti ed emersi nel processo a seguito del contraddittorio delle parti stesse (Cass. civ., sez.U., 20 aprile 2005, n. 8202).

La produzione di nuovi documenti, in definitiva, deve essere esclusa salvo il caso che la produzione non sia giustificata dal tempo della loro formazione ovvero dall'evolversi della vicenda processuale successivamente al ricorso ed alla memoria di costituzione (Cass. civ., sez. VI-L, 22 maggio 2006, n. 11922).

Tornando alla questione dell'indispensabilità di cui all'art. 437, comma 2, dunque, è ormai palese che essa concerne tutti i nuovi mezzi di prova, ivi compresi i documenti. Ciò detto, il campo di applicazione della disposizione va in primo luogo delimitato in considerazione di due regole che hanno da tenersi per ferme:

a) in tanto può discorrersi dell'ammissione di nuovi mezzi di prova indispensabili, in quanto essi abbiano ad oggetto fatti già tempestivamente allegati, giacché non v'è dubbio che, attraverso le deduzioni istruttorie, non possano farsi entrare nel processo circostanze la cui deduzione è ormai preclusa;

b) in tanto può discorrersi dell'ammissione di mezzi di prova con il carattere della « novità », in quanto essi non siano stati già dedotto in primo grado, quantunque non ammessi o non assunti, nel qual caso nuovi non possono considerarsi.

Delimitato il campo di applicazione della nozione di indispensabilità, occorre però dire che essa, nel suo esatto contenuto, è alquanto vaga, giacché la dottrina ha in proposito prospettato soluzioni molteplici ed assai eterogenee.

In breve si può dire che secondo taluni è indispensabile il mezzo istruttorio che consente di giungere ad una ricostruzione dei fatti principali della causa differente da quella accolta nella sentenza impugnata (Fabbrini, Diritto processuale del lavoro, Milano, 1974, 245); secondo altri è indispensabile il mezzo di prova diretto a superare l'incertezza, altrimenti invincibile, su di un fatto decisivo della causa (Sassani, Sull'appello nel processo del lavoro, in Il processo del lavoro nell'esperienza della riforma, Milano, 1985, 275); secondo altri ancora, il giudizio sull'indispensabilità va tenuto distinto da quello sulla rilevanza in quanto «mentre questo investe l'astratta idoneità del mezzo di prova a dimostrare la fondatezza della domanda o dell'eccezione, l'indispensabilità … va verificata in riferimento alla sufficienza del materiale istruttorio, già acquisito al processo, per la pronuncia sul merito» (Barone, in Andrioli, Barone, Pezzano, Proto Pisani, Le controversie in materia di lavoro, 2a ed., Bologna-Roma, 1987, 877).

In giurisprudenza, si è sostenuto che sono prove indispensabili quelle dotate «di un'influenza causale più incisiva rispetto a quella che le prove, definite come rilevanti, hanno sulla decisione finale della controversia» (Cass. civ., sez. V, 19 aprile 2006, n. 9120; Cass. civ., sez. V, 23 marzo 2007, n. 7138; Cass. civ., sez. III, 29 maggio 2013, n. 13432). E si è sottolineato che la facoltà del giudice di appello di valutare l'indispensabilità dei mezzi di prova, «quand'anche si ritenesse di carattere discrezionale, non può mai essere esercitata in modo arbitrario, dovendo essere espressa in un provvedimento motivato (Cass. civ., sez. V, 19 aprile 2006, n. 9120). In tema di giudizio di appello, cioè, l'inammissibilità di nuovi mezzi di prova, ivi compresi i documenti, salvo che, nel quadro delle risultanze istruttorie già acquisite, siano ritenuti indispensabili perché dotati di un'influenza causale più incisiva rispetto a quella delle prove già rilevanti sulla decisione finale della controversia, impone al giudice del gravame - tenuto conto delle allegazioni delle parti sulle ragioni che le rendano indispensabili e verificatene la fondatezza - di motivare espressamente sulla ritenuta attitudine, positiva o negativa, della nuova produzione a dissipare lo stato di incertezza sui fatti controversi (Cass. civ., sez. I, 31 agosto 2015, n. 17341).

Sembra ormai da ritenere, inoltre, con riguardo all'indispensabilità, che l'ammissione non sia mai consentita con riguardo ai mezzi di prova rispetto ai quali le parti siano già incorse in decadenza nel pregresso grado del giudizio, con la precisazione che è sufficiente, a tal fine, che la decadenza vi sia stata, senza che sia necessario un espresso provvedimento in tal senso del primo giudice (si legga Cass. civ., sez. I, 24 marzo 2016, n. 5921, in cui i termini della questione sono approfonditamente esplicitati).

Vi è ancora da chiedersi se la disciplina delle prove non proposte in primo grado per causa non imputabile, dettata dall'art. 345, comma 3, debba applicarsi anche al rito del lavoro. Sembra condivisibile la soluzione positiva data al quesito sulla considerazione che si tratta di una previsione di chiusura di un sistema basato sulle preclusioni, che non può non avere una portata generale. In caso contrario si verrebbe a violare il diritto di difesa della parte, che è costituzionalmente garantito (Trisorio Liuzzi, Tutela giurisdizionale delle locazioni, Napoli, 2005, 235).

I

Il regime dell'inattività delle parti in appello

In grado d'appello, vanno distinte le ipotesi di mancata comparizione di entrambe le parti ovvero di mancata comparizione del solo appellante.

Il regime dettato nel rito ordinario per l'inattività delle parti è applicabile anche al rito del lavoro e, ove tale inattività si verifichi nell'udienza prevista dall'art. 437, deve farsi riferimento, rispettivamente, agli artt. 181 (richiamato nel giudizio di secondo grado dal successivo art. 359) e 348, a seconda che nell'udienza in questione non siano presenti entrambe le parti o sia presente solo l'appellato; restando esclusa in entrambe le ipotesi l'immediata decisione della causa, che deve invece essere rinviata ad una nuova udienza, da comunicare nei modi previsti, nella quale il ripetersi dell'indicato difetto di comparizione comporta, nella prima ipotesi, la cancellazione della causa dal ruolo e, nella seconda, la dichiarazione d'improcedibilità dell'impugnazione (Cass. civ., sez. VI-L, 5 maggio 2001, n. 6334; Cass. civ., sez. VI-L, 10 dicembre 2003, n. 18877; Cass. civ., sez. VI-L, 9 marzo 2009, n. 5643).

Deposito della sentenza di appello

Il rinvio dell'art. 438 c.p.c. all'art. 430 comporta l'applicazione del termine di quindici giorni per il deposito della sentenza. Si tratta di termine ordinatorio, la cui inosservanza non dà luogo a nullità della sentenza, che viene ad esistenza con la lettura del dispositivo, ma incide solo sul momento in cui può essere proposta impugnazione.

L'ulteriore rinvio al comma 2 dell'art. 431 fa sì che anche le sentenze d'appello in materia di lavoro siano suscettibili di esecuzione sulla base del solo dispositivo.

Contro la sentenza di condanna pronunciata in sede di appello può essere proposta istanza per la sospensione della esecuzione, ai sensi dell'art. 373.

Riferimenti

Barone, in Andrioli, Barone, Pezzano, Proto Pisani, Le controversie in materia di lavoro, 2a ed., Bologna-Roma, 1987;

Casciaro, L'appello nel rito del lavoro, Roma, 1992;

Fabbrini, Diritto processuale del lavoro, Milano, 1974;

Mandrioli, Diritto processuale civile, 21a ed., III, Torino, 2011;

Montesano e Vaccarella, Manuale di diritto processuale del lavoro, 3a ed., Napoli, 1996;

Sandulli e Socci, Il processo del lavoro, 2a ed., Milano, 2010;

Sassani, Sull'appello nel processo del lavoro, in Il processo del lavoro nell'esperienza della riforma, Milano, 1985;

Tesoriere, Diritto processuale del lavoro, 3a ed., Padova, 1999;

Trisorio Liuzzi, Tutela giurisdizionale delle locazioni, Napoli, 2005

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