La mancata svalutazione di un credito inesigibile integra il reato di falso in bilancio
04 Settembre 2017
Massima
La permanenza nel bilancio di una società, poi fallita, di un credito inesigibile senza operare la dovuta svalutazione richiesta dai principi contabili che vanno considerati quali criteri tecnici generalmente accettati che consentono una corretta appostazione e lettura delle voci del bilancio e dai quali ci si può discostare solo fornendo adeguata informazione e giustificazione, integra condotta rilevante, ex art. 223, comma 2, n. 1, l. fall., qualora abbia consentito alla società di proseguire l'attività senza prendere atto che il patrimonio netto era divenuto negativo, così da aggravare il dissesto con gli ulteriori impegni economici assunti. Il caso
Un imprenditore veniva condannato (in primo e in secondo grado) per i delitti di bancarotta fraudolenta patrimoniale, bancarotta impropria da falso in bilancio e bancarotta semplice per avere aggravato il dissesto non richiedendo il fallimento, in relazione alla sua posizione di amministratore unico della società fallita e danneggiata dai fatti illeciti nonché quale presidente del consiglio di amministrazione ed amministratore di un'altra società beneficiata dalle distrazioni. Per quel che concerne, in particolare, l'imputazione (che qui ci interessa) per bancarotta impropria da falso in bilancio, la condanna si fondava sulla iscrizione nel bilancio della società fallita di un credito nei confronti di un'altra società, anch'essa riconducibile allo stesso imputato, chiaramente inesigibile fin dal 2007 vista la decozione di quest'ultima, determinata dal fatto che, in quell'esercizio, la prima società aveva maturato debiti per 600.000 euro a fronte di un capitale di 10.000 euro e considerando che il socio non aveva mai espresso l'intenzione di ricapitalizzarla; se si fosse preso atto che tale credito era divenuto inesigibile, la società gestita dall'imputato avrebbe perso il proprio patrimonio netto ed avrebbe dovuto essere posta, fin dal 2007, in liquidazione. Sotto il profilo dell'elemento soggettivo, l'imputato aveva certamente agito rappresentandosi la diminuzione della garanzia patrimoniale ed il conseguente squilibrio economico che la falsa appostazione aveva creato. Avverso tale sentenza, la difesa dell'imputato proponeva ricorso per cassazione, deducendo la violazione di legge, ed in particolare degli artt. 223 l. fall. e 2621 c.c., ed il difetto di motivazione, circa la ritenuta sussistenza del delitto di bancarotta impropria da falso in bilancio. Posto che la Corte territoriale aveva affermato che il ricorrente aveva continuato l'attività nonostante la perdita del patrimonio netto della società così aggravandone il dissesto, era allora evidente come egli non avrebbe cagionato o concorso a cagionare il dissesto che si era già manifestato alla fine del 2007, con la conseguenza che avrebbe dovuto rispondere solo del suo aggravamento punito, ai sensi dell'art. 224 l. fall., a titolo di bancarotta semplice. Inoltre, l'imputato lamentava l'insufficiente argomentazione fornita dai giudici d'appello sul presunto falso valutativo che si era fondato sulla sola applicazione dei principi contabili che non avevano rango tale da poter integrare la norma penale. Infine, in sede di discussione orale, si eccepiva la mancata valutazione del dolo specifico in riferimento al falso valutativo presupposto del delitto di bancarotta impropria. La questione
Alla Corte di cassazione spetta, quindi, verificare se, come ritenuto dal giudice di secondo grado, la condotta tenuta dall'imputato possa integrare gli estremi della bancarotta impropria da falso in bilancio, alla luce dei principi enunciati dalle Sezioni unite con sentenza n. 22474 del 31 marzo 2016 (v. nota di D'AVIRRO, La Cassazione fa il Legislatore e salva “le valutazioni” nello schema del falso in bilancio). In particolare, l'interrogativo che si pone nel caso di specie riguarda la possibile rilevanza penale ai sensi dell'art. 2621 c.c. della mancata svalutazione in bilancio – almeno del 90% secondo i principi contabili – di un credito divenuto da tempo inesigibile. Le questioni giuridiche
Orbene, la Corte di cassazione rigetta il ricorso per infondatezza e, con riferimento al profilo della bancarotta impropria da falso in bilancio, ritiene la decisione di condanna priva di vizi logici, atteso che la permanenza nel bilancio della fallita di un credito in realtà inesigibile fin dal 2007, «senza operare la dovuta svalutazione - almeno del 90% secondo principi contabili che non sono affatto irrilevanti come sostiene la difesa ma che sono, invece, dei criteri tecnici generalmente accettati che consentono una corretta appostazione e lettura delle voci del bilancio, dai quali, pertanto, ci si può discostare solo fornendo adeguata informazione e giustificazione: Sez. U, n. 22474 del 31/03/2016, Passarelli, Rv. 266803 - aveva consentito alla stessa di proseguire l'attività senza prendere atto che il patrimonio netto era divenuto negativo e che era quindi necessario o provvedere alla sua ricapitalizzazione o alla sua liquidazione (o alla richiesta di fallimento)». Ciò avrebbe, di conseguenza, aggravato il dissesto della società poi fallita: aggravamento consentito e dovuto proprie alle false appostazioni di bilancio. Secondo i giudici di legittimità, una condotta del genere non può che trovare la sua corretta qualificazione nell'ipotesi contestata ai sensi dell'art. 223, comma 2 n. 1, l.fall., «poiché tale norma punisce chiunque cagioni, o concorra a cagionare, commettendo i delitti societari indicati, il dissesto della società, così sanzionando la condotta sia di chi il dissesto – da intendersi come lo squilibrio economico che conduce la società al fallimento – l'abbia interamente cagionato, sia chi ne abbia causato una parte (l'abbia, in altri termini, aggravato) posto che il dissesto, nei suoi termini economici, non costituisce un dato di fatto immodificabile e può pertanto essere reso ancor più grave». Per tali motivi, la Corte rigetta la richiesta della difesa di derubricare la vicenda nella gradata ipotesi di bancarotta semplice ai sensi dell'art. 224, comma 1 n. 2, l.fall. che si pone come norma di chiusura del sistema, punendo gli amministratori delle società fallite quando gli stessi abbiano concorso a causare o ad aggravare il dissesto con condotte, inosservanti degli obblighi loro imposti dalla legge, diverse da quelle che concretano le più gravi ipotesi di reato contemplate dall'art. 223, comma 2, numeri 1 e 2, l. fall. Infine, malgrado la tardività della censura difensiva sulla sussistenza del dolo specifico, il Collegio prende comunque atto del fatto che la sentenza impugnata aveva correttamente motivato anche su questo punto, osservando che l'imputato, a conoscenza dell'inesigibilità del credito (essendo anche la società debitrice a lui riconducibile), ha agito nella piena consapevolezza di appostare una voce falsa al bilancio della fallita, ciò facendo con lo scopo di procurare danno ai creditori della medesima, occultandone il dissesto e proseguendo l'attività così da aggravarlo. Osservazioni
La sentenza in rassegna si uniforma al principio enucleato dalle Sezioni unite (sentenza n. 22474/2016, già sopra richiamata) – in base al quale «sussiste il delitto di false comunicazioni sociali, con riguardo alla esposizione o alla omissione di fatti oggetto di valutazione, se, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o di criteri tecnici generalmente accettati, l'agente da tali criteri si discosti consapevolmente e senza darne adeguata informazione giustificativa, in modo concretamente idoneo ad indurre in errore i destinatari delle comunicazioni» –, il cui intervento ha, come noto, definito il controverso tema della rilevanza delle valutazioni estimative. Nel caso di specie, la Corte, infatti, individua la mancata svalutazione di un credito inesigibile quale ipotesi di falso qualitativo integrativa del reato di false comunicazioni sociali: un episodio tale da aggravare il dissesto della società e condurre l'amministratore alla responsabilità per bancarotta fraudolenta. A. Alessandri, Art. 2621 c.c.: False comunicazioni sociali, in Reati in materia economica, a cura di A. Alessandri, in Trattato teorico pratico di diritto penale, diretto da F. Palazzo-C.E. Paliero, Torino, 2017, p. 3-24; L. d'Altilia, Falso in bilancio dopo le Sezioni Unite n. 22474/2016, in Ventiquattrore Avvocato, 2016, 9, p. 55-63; L. d'Altilia, Le Sezioni Unite sul falso in bilancio: un de profundis a Montesquieu, in Sistema Società, 2016, 7; A. Lanzi, Artt. 2621-2622 c.c., in Diritto penale dell'economia. Commentario, a cura di A. Lanzi, Roma 2016, pp. 3-11; A. Lanzi, False comunicazioni sociali, in Digesto discipline penalistiche, IX vol. aggiornamento, Torino, 2016, p. 401 ss; A. Lanzi, Fra il legiglatore apparente e il giudice sovrano, ne L'Ind. pen., 2016, 3, 679 ss.; Id., Il flebile incrocio tra illuminismo, legalità e diritto penale dell'economia, ne L'ind. pen., 2016, 2, 1 ss.; A. Manna, Il nuovo delitto di false comunicazioni sociali (tra law in the books and law in action): cronaca di una discutibile riforma (artt. 2621-2622 c.c.), in Diritto penale dell'economia, diretto da A. Cadoppi- S. Canestrari-A. Manna- M. Papa, I, Padova, 2016, 5-34; P. Molino, La rilevanza penale o no del c.d. falso valutativo, anche in rapporto sia alla normativa italiana e comunitaria in tema di redazione dei bilanci, che soprattutto in relazione alla sentenza delle Sezioni Unite del 31.3.2016, in Diritto penale dell'economia, diretto da A. Cadoppi- S. Canestrari-A. Manna- M. Papa, I, Padova, 2016, 55-82. |