Le Sezioni unite tornano sulla messa alla prova: risolto il contrasto sul computo delle circostanze aggravanti

Ottavia Murro
24 Gennaio 2017

Le Sezioni unite sanciscono il seguente principio di diritto: ai fini dell'individuazione dei reati ai quali è astrattamente applicabile l'istituto della sospensione con messa ...
Massima

La questione sollevata al supremo Collegio attiene ad uno degli aspetti più controversi dell'istituto della sospensione del processo con messa alla prova: la rilevanza delle circostanze aggravanti (anche ad effetto speciale) ai fini della determinazione del quantum di pena massima edittale per la concessione rito speciale. Le Sezioni unite sanciscono, pertanto, il seguente principio di diritto: ai fini dell'individuazione dei reati ai quali è astrattamente applicabile l'istituto della sospensione con messa alla prova, il richiamo contenuto nell'art. 168-bis c.p. alla pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni va riferito alla pena massima prevista per la fattispecie base, non assumendo a tal fine alcun rilievo le circostanze aggravanti, comprese le circostanze ad effetto speciale e quelle per cui la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato.

Il caso

Il Gup rigettava la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova avanzata dall'imputato per il reato di truffa aggravata, sostenendo che la fattispecie in contestazione non fosse ricompresa tra i reati indicati dall'art. 168-bis c.p., in quanto la norma nell'individuare il criterio di quantificazione della pena edittale detentiva non superiore a quattro anni, impone di considerare anche le circostanze aggravanti ad effetto speciale.

Contro tale provvedimento ricorre per cassazione l'imputato deducendo l'erronea applicazione dell'art. 168-bis c.p. in ragione del fatto che, ai fini della valutazione sull'ammissibilità della richiesta, il giudice deve tener conto solo della pena base, senza considerare le eventuali circostanze aggravanti.

Giova sottolineare che il supremo Collegio, nonostante rileva che l'ordinanza di rigetto non sia autonomamente ricorribile (Cass. pen., Sez un. 31 marzo 2016, n. 33216, in questa rivista con nota di GALATI, Rigetto dell'istanza di messa alla prova presentata o rinnovata nel dibattimento. Impugnazione autonoma?), ritiene di dover trattare la questione stante la rilevanza del problema interpretativo sottoposto alle Sezioni unite, caratterizzato da persistenti contrasti giurisprudenziali e da conseguenti ricadute di carattere pratico.

La questione

La seconda Sezione penale, ravvisando un contrasto giurisprudenziale, ha rimesso alle Sezioni unite il ricorso, con il seguente quesito: se, nella determinazione del limite edittale fissato dall'art. 168-bis, comma 1, c.p., ai fini dell'applicabilità della disciplina della sospensione del procedimento con messa alla prova, debba tenersi conto delle circostanze aggravanti per le quali la legge prevede una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale .

La questione, pertanto, attiene all'analisi dell'ambito di applicazione del procedimento speciale, infatti, l'art. 168-bis c.p., delimita l'ambito operativo dell'istituto individuando un duplice criterio, nominativo e quantitativo, che comprende le figure delittuose indicate dall'art. 550, comma 2, c.p.p., nonché i reati puniti con la sola pena pecuniaria o con la pena detentiva, sia essa sola, congiunta o alternativa a quella pecuniaria, non superiore nel massimo a quattro anni.

La norma, tuttavia, serba il silenzio sulla rilevanza delle circostanze aggravanti e tale vulnus normativo ha dato luogo ad orientamenti contrastanti che, in questi due anni, hanno inciso sull'ambito applicativo della messa alla prova.

Le soluzioni giuridiche

Sulla questione si registra un contrasto tra due distinte posizioni ed appare opportuna una disamina dei frapposti orientamenti di legittimità: un primo indirizzo ritiene che quando si procede per reati diversi da quelli individuati dall'art. 550, comma 2, c.p.p., il limite di pena edittale (quattro anno) si determina tenendo conto delle aggravanti per le quali la legge prevede una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale (sul punto cfr. Cass. pen., Sez VI, 30 giugno 2015, n. 36687; Cass. pen., Sez VI, del 6 ottobre 2015, n. 46795, Crocitti).

La ratio giustificativa di tale orientamento attiene alla circostanza che quando il Legislatore ha inteso delimitare lo spazio applicativo di istituti, processuali o sostanziali, attraverso il criterio quantitativo edittale, lo ha sempre fatto prendendo in considerazione le circostanze di cui all'art. 63 c.p., ai fini della determinazione della pena. Si pensi ad esempio alle disposizioni sulla competenza (art. 4 c.p.p.), sulla determinazione della pena agli effetti dell'applicazione delle misure cautelari (art. 278 c.p.p.), sull'arresto in flagranza (art. 379 c.p.p.), sull'individuazione dei casi di citazione diretta (art. 550 c.p.p.), ovvero in materia di prescrizione (art. 157 c.p.) e sull'applicazione della causa di non punibilità per fatto tenue (art. 131-bis c.p.).

Di conseguenza, si ritiene che anche per la messa alla prova, la soluzione interpretativa non può non allinearsi alla disciplina dettata per ipotesi sopra indicate.

Frapposta a tale tesi giurisprudenziale, altro orientamento interpreta in termini diversi l'art. 168-bis, comma 1, c.p., ritenendo, in modo più conforme alla lettera delle legge e più coerente sul piano logico sistematico, che il parametro quantitativo contenuto nella norma si riferisce unicamente alla pena massima prevista per la fattispecie base, prescindendo dalla contestazione di qualsivoglia aggravante, comprese quelle ad effetto speciale (Cass. pen., Sez. VI, 9 dicembre 2014, n. 6483; Cass. pen., Sez. II, 15 luglio 2015, n. 33461; Cass. pen., Sez. IV, 27 luglio 2015, n. 32787).

Le Sezioni unite aderiscono a tale ultimo orientamento.

L'analisi parte proprio dal dato normativo, nel quale manca qualsivoglia riferimento all'incidenza di eventuali circostanze al fine di individuare i reati ricompresi nell'ambito dell'istituto della messa alla prova. Dato non trascurabile, considerando che il riferimento alla lettera della legge costituisce la prima regola interpretativa. Sul punto si sottolinea che quando il legislatore ha voluto dare rilevanza alle circostanze lo ha fatto in modo esplicito, si pensi alla causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto.

Il supremo Collegio, distaccandosi dall'orientamento restrittivo, ha ritenuto di escludere che il richiamo contenuto nell'art. 168-bis c.p. al comma 2 dell'art. 550 c.p.p. vada esteso al comma 1 e, di conseguenza, all'art. 4 c.p.p. Inoltre, la lettura restrittiva della norma appare smentita anche dall'intenzione del Legislatore, ricostruita attraverso i lavori parlamentari, in quanto, nella formulazione originaria contenuta nel disegno di legge vi era l'esplicito riferimento alle circostanze speciali e ad effetto speciale, riferimento soppresso nel testo congiunto approvato al Senato.

Deve quindi rilevarsi che il Legislatore abbia voluto ampliare la portata applicativa dell'istituto, sopprimendo l'originario riferimento alle circostanze aggravanti.

Neppure si può affermare che vi sia una perfetta coincidenza tra reati per i quali l'imputato può richiedere la messa alla prova e reati per cui è attivabile la citazione diretta davanti al tribunale monocratico. Se il legislatore avesse voluto realizzare questa piena coincidenza, avrebbe operato un richiamo all'intero art. 550 c.p.p., mentre ne è stato citato solo il comma 2.

Tale scelta appare consapevole e finalizzata ad operare una selezione dei reati per categorie criminose, laddove il richiamo al citato art. 550, comma 1, avrebbe avuto come effetto quello di escludere l'applicazione dell'istituto per reati puniti con pena edittale inferiore nel massimo ai quattro anni, ma di competenza collegiale ai sensi dell'art. 33-bis c.p.p. Soluzione, questa, che avrebbe comportato rischi di tenuta costituzionale della norma.

L'interpretazione, più volte ripresa dall'orientamento restrittivo, che fa coincidere i procedimenti in cui è possibile richiedere la messa alla prova con quelli introdotti mediante citazione diretta è contraddetta anche dal tenore dell'art. 464-bis c.p.p., comma 2, che, nel fissare i termini finali entro i quali è possibile avanzare la richiesta di accesso alla messa alla prova, fa riferimento alla formulazione delle conclusioni in udienza preliminare ai sensi degli artt. 421 e 422 c.p.p., evidenziando così come il novero dei reati per i quali essa è consentito l'istituto sia più esteso di quelli previsti dall'art. 550 c.p.p.

Una volta stabilito che l'art. 168-bis c.p., quando richiama l'art. 550 c.p.p., comma 2, lo fa solo in funzione dell'individuazione di altre fattispecie per le quali è ammesso il rito, la questione sulla rilevanza delle circostanze aggravanti ad effetto speciale e di quelle per le quali la legge prevede una pena di specie diversa risulta fortemente ridimensionata. È noto, infatti, che tra i reati indicati nell'art. 550, comma 2, vi siano fattispecie incriminatrici descritte nella loro forma aggravata (lett. c, d, e, t), sanzionate anche con pene elevate (si pensi al furto aggravato ai sensi dell'art. 625 c.p.). Sicché, se il legislatore ha espressamente previsto che nell'ambito di applicazione della messa alla prova vi rientrino anche reati aggravati da circostanze ad effetto speciale, non si comprende perché avrebbe dovuto introdurre, nel medesimo articolo, una regola di tenore contrario.

Va rilevato che l'istituto, poiché persegue anche una finalità specialpreventiva, oltre che rieducative, merita di essere applicato anche a reati astrattamente gravi. Invero, il giudizio effettivo di ammissione del rito resta riservato alla valutazione del giudice circa l'idoneità del programma trattamentale proposto e la prognosi di esclusione della recidiva: valutazione, questa, che si svolge in base ai parametri dell'art. 133 c.p. Ed è proprio questa la fase in cui assume effettivo e concreto rilievo la gravità dell'illecito.

Anticipare questa valutazione sin dai criteri astratti di ammissibilità cui fa riferimento l'art. 168-bis c.p., equivale a restringere l'ambito operativo della messa alla prova, utilizzando automatismi che irrigidiscono l'istituto in un'ottica di sola prospettiva premiale.

Al contrario, la lettura corretta della norma amplia il perimetro di operatività del rito, spostando sul giudice e sul suo potere discrezionale la motivata valutazione in merito alla fondatezza della richiesta dell'imputato, coerentemente con le finalità specialpreventive della messa alla prova.

In conclusione, la soluzione che ritiene l'irrilevanza delle circostanze risulta confermata non solo dall'interpretazione letterale dell'art. 168-bis c.p., che pone in evidenza la mancanza di ogni riferimento agli accidentalia delicti, ma anche da un'interpretazione logico-sistematica, là dove si osservi che l'effetto di estendere l'ambito applicativo della messa alla prova a reati che possono presentare un maggiore disvalore trova piena giustificazione con il fatto che si tratta di un istituto che prevede, comunque, un "trattamento sanzionatorio" a contenuto afflittivo, non detentivo, che può condurre all'estinzione del reato. Caratteristica confermata anche dall'art. 657-bis c.p.p., in cui si prevede che nel determinare la pena da eseguire in caso di fallimento della prova (a seguito di revoca o di esito negativo della messa alla prova) venga comunque detratto il periodo corrispondente a quello della prova eseguita.

Il supremo Collegio conclude, pertanto, nel ritenere che le circostanze aggravanti non assumono alcun rilevo nel calcolo della pena base indicata dall'art. 168-bis c.p.

Osservazioni

La soluzione adottata dal supremo Collegio appare condivisibile ed evita, altresì, un'interpretazione restrittiva dell'art. 168-bis c.p. Invero, si è sancito il principio secondo il quale la sussistenza di circostanze aggravanti non pregiudica ex ante l'ammissibilità al rito, in quanto il giudizio effettivo di ammissione alla prova è riservato al giudice, chiamato a valutare l'idoneità del programma trattamentale e la prognosi di esclusione della recidiva.

Le conclusioni ai cui giunge la Corte evitano anche il pericolo di sovrapposizione dello spazio operativo della messa alla prova rispetto a quello di altre discipline quale, ad esempio, la causa di non punibilità per tenuità del fatto. Infatti, l'orientamento restrittivo, che tendeva a limitare l'istituto a reati rientranti nella fascia di gravità bassa, rischiava di tradire la stessa ratio della messa alla prova.

Pertanto, rispetto alla chiarezza della lettera della legge, caratterizzata da un significativo silenzio in ordine agli accidentalia delicti, i tentativi di limitare l'applicazione dell'istituto sulla base di un'interpretazione restrittiva, sembrano scontrarsi con la volontà del legislatore di allargare l'ambito di operatività della messa alla prova.

Guida all'approfondimento

MARANDOLA, La messa alla prova dell'imputato adulto: ombre e luci di un nuovo rito speciale per una diversa politica criminale, in Dir. pen. proc., 2014, p. 677;

MARANDOLA, Le “nuove” alternative al processo penale ordinario, in AA. VV., Scritti in memoria di Giuseppe De Gennaro, Bari, 2014, pp. 135-150;

MARANDOLA, Prime oscillazioni interpretative sulla determinazione del criterio quantitativo per la messa alla prova, in questa rivista;

volendo MURRO, Messa alla prova per l'imputato adulto: prime riflessioni sulla l. 67/2014, in Studium Iuris, 2014, fasc. 11, pag. 1264.