Il prelievo forzoso di ovociti lede la persona e non il patrimonio

Paola Borrelli
28 Ottobre 2016

Il Gip del tribunale di Milano aveva applicato, nei confronti di un noto ginecologo, direttore sanitario di una clinica, e di alcuni suoi collaboratori, la misura cautelare degli arresti domiciliari siccome gravemente indiziati di due rapine aggravate dall'avere commesso il fatto in più persone riunite e ponendo la persona offesa in stato di incapacità di agire, oltre che del reato di lesioni personali.
Massima

Per cosa mobile deve intendersi qualsiasi di cui sia possibile una fisica detenzione, sottrazione, impossessamento ed appropriazione e che possa spostarsi da un luogo all'altro, ancorché distaccata da cosa immobile ed ancorché ciò avvenga per mano dell'autore del fatto. Il concetto di cosa mobile, tuttavia, non può applicarsi con riferimento a parti del corpo umano finché la persona è in vita ed allorché l'impossessamento avvenga incidendo direttamente sull'integrità personale del soggetto passivo (nella specie, l'indagato, direttore sanitario di una clinica, aveva asportato dall'utero di una paziente non consenziente non meno di sei ovociti).

Il caso

Il Gip del tribunale di Milano aveva applicato, nei confronti di un noto ginecologo, direttore sanitario di una clinica, e di alcuni suoi collaboratori, la misura cautelare degli arresti domiciliari siccome gravemente indiziati di due rapine aggravate dall'avere commesso il fatto in più persone riunite e ponendo la persona offesa in stato di incapacità di agire, oltre che del reato di lesioni personali.

In particolare, la prima delle rapine contestate era consistita, secondo la ricostruzione accusatoria condivisa dal primo giudice della cautela, nell'aver prelevato forzosamente da una donna non consenziente non meno di sei ovociti al fine di procedere all'impianto di embrioni in altre pazienti, con violenza consistita nel trattenerla per le braccia e nel praticarle l'anestesia nonostante la sua opposizione; l'altra rapina concerneva un cellulare che sarebbe stato sottratto alla persona offesa mentre era sottoposta ad anestesia.

Dalle condotte violente subite – secondo l'assunto della parte pubblica avallato dal Gip – erano derivate lesioni personali consistite in "endometrio iperecogeno" ed ingrossamento delle ovaie, con conseguenti algie pelviche, nonché ecchimosi varie sul corpo e sugli arti da cui derivava malattia con incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un periodo di giorni 15 circa.

Si comprende dalla sentenza che la contestazione provvisoria della procura contemplava anche il reato di sequestro di persona (per l' immobilizzazione - prima – e per la sedazione/anestesia – dopo – della paziente), che il Gip aveva ritenuto assorbito in quello di rapina.

Il tribunale meneghino, in funzione di giudice del riesame, aveva annullato parzialmente l'ordinanza solo quanto alla rapina del telefono – per questioni di fatto legate al dubbio circa l'appartenenza alla persona offesa dell'apparecchio – ed aveva confermato, per il resto, l'ordinanza genetica, superando la ritenuta parziale inattendibilità della persona offesa, siccome fronteggiata da elementi di pregnante valenza accusatoria quali la falsificazione della sottoscrizione al consenso informato, le lesioni obiettivamente riscontrate, l'intervento di un pattuglia del servizio 112 e le intercettazioni telefoniche, che davano atto delle perplessità della persona offesa rispetto alla donazione degli ovociti e delle preoccupazioni degli indagati per la recalcitranza della donna al prelievo.

Nel confermare l'ordinanza, tuttavia, il tribunale – ed è questa la questione di diritto di particolare interesse – aveva operato una derubricazione del reato di rapina degli ovociti nel delitto di violenza privata.

Avverso la decisione hanno proposto ricorso per Cassazione sia il P.M. che la difesa, quest'ultima censurando il giudizio di fatto sulla gravità indiziaria e quello sulle esigenze cautelari.

Ma è stato sul ricorso della procura che la Cassazione ha avuto l'occasione di affrontare la quaestio iuris anzidetta, laddove il procuratore della Repubblica impugnante ha censurato la riqualificazione, dolendosi sia della correttezza del ragionamento in sé che della mancata reviviscenza del sequestro di persona e della mancata stigmatizzazione della condotta di sottrazione degli ovociti una volta espiantati ed utilizzati in altre donne per la fecondazione eterologa.

La Corte di cassazione ha rigettato entrambi i ricorsi.

La questione

La questione in esame è la seguente: se il prelievo forzoso di ovociti integri il reato di rapina o di violenza privata e, prima ancora, se gli ovociti possano essere considerati cosa mobile altrui suscettibile di impossessamento.

Le soluzioni giuridiche

La sezione feriale della Corte si è soffermata sul concetto di cosa mobile altrui oggetto della fattispecie tipica della rapina evidenziando che, come tale, deve intendersi qualsiasi entità di cui in rerum natura sia possibile una fisica detenzione, sottrazione, impossessamento od appropriazione, e che a sua volta possa spostarsi da un luogo ad un altro o perché ha l'attitudine a muoversi da sé oppure perché può essere trasportata da un luogo ad un altro. Individuato, quindi, l'oggetto dell'impossessamento, i giudici di legittimità non hanno negato che la cosa altrui possa divenire mobile anche per iniziativa dello stesso soggetto agente allorché sia sottoposta ad avulsione o enucleazione rispetto ad un bene immobile (richiamando Cass. pen., n. 20647/2010) ma, ciò nonostante, non hanno sposato la tesi del P.M. ricorrente.

Il dissenso è legato – se si è ben compreso – alla circostanza che l'amotio dal corpo umano non può essere equiparata all'asportazione da altra entità impersonale, fin quando la persona è in vita, perché agli organi non può essere attribuita un'autonomia rispetto al corpo di cui fanno parte, salvo che l'organo stesso sia stato già espiantato.

A tale conclusione la Corte è giunta pur non prendendo una posizione netta sulla definizione degli ovociti quali veri e propri organi, ritenendo sufficiente che essi facciano parte del circuito biologico dell'essere umano ancorché naturalmente destinati, a differenza degli organi veri e propri, ad essere espulsi o trasformati mediante la fecondazione. Insomma, gli ovociti – ha concluso la Corte – non possono essere considerati "cose", solo temporaneamente detenute dalla donna all'interno del proprio corpo.

L'impossibilità di scindere gli ovociti dalla donna il cui sistema riproduttivo li ha generati fa sì – prosegue la Corte – che l'asportazione senza il consenso della medesima costituisca un delitto contro la persona, segnatamente quello di violenza privata, laddove – evidentemente – il fuoco dell'incolpazione è incentrato sul costringimento della vittima a “tollerare” l'intervento coattivo e non sull'asportazione in sé.

Quanto all'impossessamento successivo degli ovociti forzosamente asportati, da un rapido passaggio della sentenza, sembrerebbe che esso sia rimasto privo di copertura punitiva semplicemente per un problema di mancata contestazione in fatto di tale segmento di condotta (Nel capo di imputazione la condotta contestata consiste esclusivamente nell'azione di separazione degli ovociti dal corpo della donna, non è stata contestata la condotta successiva di impossessamento degli ovociti, una volta separati dal corpo della donna, per fini di profitto, pertanto il fatto non poteva essere diversamente qualificato).

La Corte si è posta, infine, il problema della possibilità di una reviviscenza del sequestro di persona – invocata dalla pubblica accusa – ma ogni valutazione in merito si è arrestata dinanzi al fatto che non vi era stata impugnazione al tribunale dell'appello cautelare del provvedimento del Gip milanese sul punto, il che ha impedito al giudice di legittimità la relativa delibazione.

Osservazioni

Maneggiando un tema “vergine” sotto il profilo dottrinario e giurisprudenziale, la sentenza in commento, per escludere l'assimilabilità degli ovociti presenti nel corpo della donna al concetto di cosa suscettibile di impossessamento altrui, ha preso le mosse da una riflessione sulla nozione di cosa mobile propria del diritto penale.

Se il punto di partenza è la definizione residuale di cui all'art. 812, comma 3, c.c. (per la quale sono mobili tutte le cose che non rientrano nell'elencazione dei beni immobili di cui ai primi due commi) e quella di cui all'art. 814 c.c. (che riguarda le energie naturali dotate di valore economico), la nozione di cosa mobile suscettibile di appropriazione nel diritto penale si discosta da quella civilistica. La mobilità di un bene, invero, nel diritto penale, è legata alla sua individualità, alla sua concretezza fisica, alle modalità di circolazione che lo caratterizzano, alla possibilità di sottrazione per mano dell'uomo ed alla suscettibilità di apprezzamento economico.

Nulla osta, quindi, come la Corte ha rimarcato nella sentenza, che ne facciano parte anche le cose mobilizzate quelle, cioè, che siano state distaccate da un immobile ad opera dell'uomo e rese suscettibili di circolazione (si pensi ai pavimenti di un edificio ovvero ai prodotti della terra).

Di fronte alla possibilità, però, di assimilare all'immobile oggetto della spoliazione il corpo vivo di una donna, i giudici di legittimità si sono fermati.

La Corte, sul punto, ha infatti preso una posizione netta, reputando di non poter applicare analogicamente la giurisprudenza in tema di cose mobili agli ovociti; il limite, sebbene sinteticamente esplicitato, sembrerebbe quello di non poter ritenere cosa il prodotto di un processo fisiologico interno ad un essere umano ed ancora collocato nella sua sede naturale.

La questione interpretativa non è limitata, tuttavia, alla non assimilabilità degli ovociti alla nozione di cosa, mobile o mobilizzata che sia.

Il problema, a ben vedere, non è solo e non tanto quello della provenienza “corporale” del bene sottratto ma è che l'aggressione che viene perpetrata per l'asportazione coattiva colpisce la persona e lo fa in maniera particolarmente invasiva, sicché anche la catalogazione nei reati contro il patrimonio risulta difficilmente accettabile, laddove viene in evidenza la sfera personale colpita più che quella patrimoniale (ancorché, nel mercimonio alla base della vicenda, è risultato evidente come gli ovociti abbiano un valore economico).

La rilevanza del momento del prelievo sull'essere umano quale limite alla configurabilità “semplicemente “ di un reato contro il patrimonio emerge, in particolare ed a contrario, da un passaggio della sentenza nel quale la Corte sembra dare il via libera all'idea che gli ovociti siano cosa mobile suscettibile di amotio ma solo una volta fuoriusciti dal corpo della donna. Si intuisce, infatti, dal tratto della sentenza che concerne il segmento di condotta post prelievo, che la Corte non esclude che gli ovociti già prelevati possano essere oggetto di mercimonio, ma arresta le proprie valutazioni solo di fronte al limite procedurale costituito dalla mancata contestazione in fatto di quella porzione di condotta.

Cosa avrebbe ritenuto la Corte se vi fosse stato il substrato contestativo può essere solo immaginato: l'ipotesi più plausibile è che gli ovociti sottratti sarebbero stati reputati oggetto di furto in quanto ormai cosa mobilizzata – grazie ad una condotta estranea alla fattispecie punitiva, anzi propria di altro reato, la violenza privata – e suscettibile di impossessamento e commercializzazione.

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