Divieto di esecuzione del mandato di arresto europeo in caso di pericolo di trattamenti inumani per l’arrestato

Gaetano Bonifacio
30 Agosto 2016

È illegittima l'esecuzione del mandato di arresto europeo senza la verifica della sussistenza delle condizioni di cui all'art. 18 comma 1 lett. h) legge 69/2005, quando vi sia il fondato pericolo che la persona arrestata possa essere sottoposta alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti.
Massima

È illegittima l'esecuzione del mandato di arresto europeo senza la verifica della sussistenza delle condizioni di cui all'art. 18, comma 1, lett. h) legge 69/2005, quando vi sia il fondato pericolo che la persona arrestata possa essere sottoposta alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti.

Il caso

La suprema Corte di cassazione annulla con rinvio ad altra sezione della Corte di appello per il riesame della decisione che concedeva la consegna dell'arrestato ad Autorità giudiziaria di altro stato membro dell'Unione europea per l'esecuzione di pena detentiva per condanna riportata nel paese richiedente.

Avverso tale sentenza veniva proposto ricorso per cassazione dall'arrestato, che lamentava, tra gli altri motivi, la violazione dell'art. 18, comma 1, lett. h) legge 69/2005.

Tale violazione veniva anche richiamata nelle conclusioni dal pubblico ministero, il quale concludeva la sua requisitoria chiedendo l'accoglimento del ricorso.

La questione

Il mandato di arresto europeo è regolamentato dalla legge 22 aprile 2005, n. 69, attuativa dalla decisione quadro 2002/584/Gai del Consiglio del 13 giugno 2002.

Esso sostituisce entro certi limiti l'istituto dell'estradizione, che ora trova una più limitata applicazione tra i paesi dell'Unione europea e che rimane lo strumento principale di consegna delle persone per l'esecuzione di una sentenza straniera di condanna a pena detentiva o di altro provvedimento restrittivo della libertà personale, secondo il disposto dell'art. 697 c.p.p.

Esso costituisce la prima concretizzazione nel settore del diritto penale del principio di mutuo riconoscimento delle decisioni dei giudici nazionali di ciascuno Stato membro e consiste nella richiesta di un'Autorità giudiziaria di uno Stato membro dell'Unione europea perché si proceda all'arresto di una persona in un altro Stato membro e la si consegni al primo Stato membro ai fini dell'esercizio dell'azione penale o dell'esecuzione di una pena o una misura di sicurezza privative della libertà personale, secondo la definizione contenuta nell'art. 1 della legge 69/2005.

La decisione circa l'emissione del mandato di arresto europeo è di competenza del giudice, mentre nella fase di esecuzione spetta al pubblico ministero.

Ai fini della sua esecuzione, sono previste garanzie, in particolare con riferimento ai casi in cui la persona, cittadina del paese emittente, è stata condannata senza essere stata presente al processo, essendo stata validamente avvisata, ovvero abbia espressamente rinunciato a comparire.

Tali garanzie trovano il loro fondamento nell'esercizio del diritto di difesa, che può essere validamente esercitato in assenza dell'imputato al processo, dal suo difensore regolarmente nominato di ufficio o di fiducia.

Uno dei fondamenti della norma è ravvisabile del fatto che l'imputato sia informato riservatamente dei motivi dell'accusa.

È facile rilevare che in caso di assenza dell'imputato al processo, non si instaura in maniera compiuta, quel contraddittorio tra accusa e difesa che è proprio degli ordinamenti giuridici moderni, e che nel nostro ordinamento trova il suo principale fondamento nell'art. 111 della Costituzione; tale principio, che nella norma costituzionale viene denominato del giusto processo, basa la sua ragion d'essere nella possibilità che ha l'imputato di contrastare, con la garanzia della cross examination, le accuse che vengono elevate nei suoi confronti, e trova il suo fondamento nella partecipazione attiva dell'imputato a tutte le fasi del procedimento, nelle quali sia previsto un diritto dello stesso ad essere avvisato della procedura in corso.

Bisogna anche considerare che, sempre in attuazione del principio del diritto di difesa e delle forme in cui questo può essere opportunamente esercitato, non è consentito sindacare sulla libera scelta dell'imputato di sottrarre la sua presenza al processo, come libera estrinsecazione della strategia difensiva, motivo per cui è stata data previsione ed attuazione ad una serie di garanzie, attivate le quali, il processo può essere validamente celebrato in assenza dell'imputato.

Il decreto legislativo 15 febbraio 2016 n. 31, attuativo della decisione quadro 2009/299/Gai del Consiglio del 26 febbraio 2009, modificativa della decisione quadro 2002/584/Gai, al fine di dare attuazione al rafforzamento dei diritti delle persone sottoposte a processo in uno stato membro, all'art. 2 che ha modificato nel dettaglio la disposizione di cui all'art. 19, comma 1, lett. a) n.2 della legge 69/2005, introduce una serie di condizioni in presenza di una delle quali la Corte di appello può comunque dare luogo alla consegna della persona, anche se la pena o la misura di sicurezza sono state comminate a seguito di una pronuncia in assenza dell'interessato, non comparso personalmente nel processo.

Tra queste il diritto ad essere informato personalmente del processo e avvisato che il processo si svolterà comunque in sua assenza, pur in presenza del difensore nominato di ufficio o di fiducia.

Le soluzioni giuridiche

Nella decisione in commento, la Corte di appello, in considerazione del fatto che la normativa del paese richiedente prevede la garanzia di un nuovo processo e del fatto che la persona risultava formalmente avvisata del procedimento, e che quindi era da ritenersi che non si fosse presentata al processo per sua libera scelta, disponeva la consegna.

I giudici della suprema Corte, in accoglimento del ricorso, si soffermano nell'esame del profilo della mancanza di un'indagine idonea da parte dell'Autorità giudiziaria italiana, volta a scongiurare il pericolo di violazione, da parte dello stato richiedente, dell'art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea e del corrispondente art. 3 Cedu, i quali sanciscono il divieto di trattamenti inumani o degradanti, a cui vi sia il pericolo che venga sottoposta la persona.

Tale orientamento è conforme a quello contenuto nella decisione della Corte di giustizia Ue, nella quale, dapprima si sottolinea come l'autorità giudiziaria di uno Stato membro non possa rifiutare di eseguire un Mae se non nei casi previsti dagli artt. 3, 4 e 4-bis della decisione quadro, ribadendo che l'obbligo di rispettare i diritti fondamentali e i fondamentali principi giuridici sanciti dall'articolo 6 del trattato sull'Unione europea non può essere modificato per effetto della presente decisione quadro, ricordando a tal proposito che gli Stati Membri sono vincolati al rispetto dell'articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali in cui si sancisce il divieto di pene e trattamenti inumani o degradanti; il contenuto assoluto di tale disposizione è confermato dal contenuto analogo dell'art. 3 Cedu, inderogabile ai sensi dell'art. 15 par. 2 Cedu (Corte di Giustizia Ue, Grande camera, sent. 5 aprile 2016, Aranyosi e Caldararu, cause C-404/15 e C-659/15 PPU).

È quindi obbligo di ciascuno stato membro dell'Unione europea a cui si chieda di eseguire un mandato di arresto, sincerarsi che non vi sia il pericolo che lo stato richiedente sottoponga la persona a tali trattamenti; ai fini della valutazione dei requisiti della detenzione, la corte stabilisce che l'autorità giudiziaria dello stato membro di esecuzione debba basare il suo giudizio su elementi oggettivi, affidabili, accurati e debitamente aggiornati […] capaci di dimostrare se le carenze riscontrate sono sistematiche o generalizzate, se riguardano certi gruppi di soggetti, o se sono riscontrabili all'interno di determinati centri di detenzione.

Nell'esecuzione di tale indagine, lo stato si deve basare su elementi che possono essere individuati nelle pronunce delle Corti sovranazionali, come ad esempio le pronunce della Corte Edu, nonché di pronunce dello stesso Stato membro di emissione, o da rapporti e documenti emanati dal Consiglio d'Europa o dalle Nazioni unite.

A tal proposito, nel caso in commento, era emerso che in alcuni istituti penitenziari le condizioni di carcerazione erano carenti sotto il profilo igienico-sanitario oltreché di sovraffollamento, problematiche a cui si era cercato di dare una soluzione non con la realizzazione di nuove strutture destinate alla detenzione, bensì con la previsione di misure alternative alla detenzione, direttamente strumentali certamente a scongiurare o comunque limitare il grave problema del sovraffollamento delle carceri, e indirettamente anche quello delle condizioni di detenzione, situazione risultante sia da alcune sentenze della Corte Europea per i diritti umani, sia dal rapporto pubblicato dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura, da cui derivarono una serie di raccomandazioni volte ad ottenere un miglioramento degli standard di detenzione.

Sulla base di tali evenienze era preciso dovere dell'autorità giudiziaria dell'esecuzione, svolgere accertamenti in ordine pericolo che la persona potesse essere sottoposta a detenzione in violazione dell'art. 4 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea e del corrispondente art. 3 Cedu, e in caso di esito positivo, rinviare l'esecuzione per un tempo ragionevole, dandone informazione a Eurojust, in attesa nel caso di specie della riforma degli standard di detenzione a livello di quanto richiesto, e comunque al di fuori dei limiti entro i quali sarebbe ravvisabile violazione del divieto di cui all'art. 4 Carta dei Diritti dell'Uomo.

Tale assunto deriva dal meccanismo di attuazione del mandato di arresto europeo, che in base all'art. 10 della decisione quadro del consiglio 2002/584/Gai del 13 giugno 2002 basa la sua operatività sulla fiducia reciproca degli stati membri, sospendibile solo in caso di persistente violazione di quanto previsto nell'art. 6 par. 1 del Trattato dell'Unione europea.

Osservazioni

La sentenza in commento è caratterizzata dall'analisi che la Suprema Corte di Cassazione ripercorre in relazione al rispetto delle garanzie previste, nell'art. 4 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione europea e nell'art. 3 Cedu.

È sancito da un lato il doveroso obbligo di dare esecuzione al Mandato di arresto europeo, mentre dall'altro è doveroso accertare che la persona consegnata, non sia sottoposta alla tortura o a trattamenti inumani o degradanti.

La Corte di giustizia ha stabilito, ogni qual volta sulla base della documentazione in possesso dello stato di esecuzione vi sia un rischio concreto di tale violazione, che lo stato di esecuzione debba seguire una procedura “mirata”, volta ad accertare se in concreto vi sia il pericolo che la persona consegnata sia sottoposta ad un trattamento inumano o degradante.

Tale indagine deve essere esperita sulla base di criteri e di documenti analiticamente descritti, tantopiù nei casi in cui il paese richiedente la consegna sia già stato oggetto di segnalazione in ordine a tali violazioni, in maniera che i diritti umani fondamentali della persona siano rispettati, anche nel caso di esecuzione del mandato di Arresto Europeo.