Profili in merito al recesso ad nutum nelle società a responsabilità limitata

22 Marzo 2017

Il recesso, benché rappresenti prioritariamente una forma di reazione del socio a decisioni cruciali che possono essere nocive per il proprio interesse particolare, può essere utilizzato come strumento alternativo alla cessione come tecnica di disinvestimento mirata allo smobilizzo della quota. Si ritiene possibile costruire una clausola statutaria che assegni ad un socio, nominativamente individuato, un diritto di recesso quale diritto particolare ex art. 2468, comma 3, c.c.
Il recesso dalla s.r.l.: una questione attuale

In una società di capitali un socio finanziatore potrebbe apportare mezzi propri ingenti, anche preponderanti rispetto alla cifra complessiva del capitale sociale e, allo stesso tempo, con la tecnica della diversa valorizzazione convenzionale, restare tecnicamente in minoranza. Solitamente abbinate con i diritti particolari assegnati a singoli soci e finalizzati ad incentivare una solida fornitura di mezzi propri alla società anche da parte di soggetti non direttamente coinvolti nel progetto imprenditoriale, sono le clausole che consentono il disinvestimento della partecipazione; tra queste, si richiamano quelle di recesso. Può essere, allora, interessante discutere la possibilità di costruire una clausola di recesso ad hoc che, eventualmente svincolata da una decisione assembleare, consenta ad un socio di uscire dalla società in un certo momento o a certe condizioni, abbinata anche a ricevere una valorizzazione preordinata della propria quota. Il recesso – e soprattutto la considerevole estensione delle sue potenzialità applicative che discenderebbe dall'accogliere la tesi che lo riconosce come diritto particolare ex art. 2468, comma 3, c.c. – rappresenta un fattore di disequilibrio nel rapporto che, a seguito dell'atto di costituzione di una società di capitali, si instaura tra creditori e soci e che vede questi ultimi come prenditori di ultima istanza. Il socio che, prima della liquidazione della società, ottiene il rimborso della propria quota, innesca un meccanismo che sembra alterare le regole di concorso fra investitori sul patrimonio sociale a danno dei creditori sociali. Proprio la sequenza degli adempimenti, posti in successione tra loro dall'art. 2473 c.c., e la rigidità che la dottrina ha letto in questa norma – rigidità che significa impossibilità di procedere diversamente dalla tecnica di liquidazione o di invertirne i singoli momenti – ci pare utile a dare una risposta positiva al nostro quesito, replicando ad una prima serie di possibili obiezioni.

L'esame dell'art. 2473 c.c.

La mozione di tutela dei creditori sociali che si vuole sia assegnata alla scansione procedurale della liquidazione della quota dall'art. 2473 c.c. è confermata dalla circostanza che nel caso si giunga ad una riduzione del capitale sociale ai creditori viene consentito di esprimere una valutazione - sia pure dirimente – usando il diritto di opposizione che paralizza la riduzione e conduce la società verso la liquidazione.

La clausola di recesso ad nutum e ad personam: spunti di discussione

La clausola di cui vogliamo ipotizzare l'introduzione nello statuto è una clausola di recesso ad nutum con una particolarità essenziale.

La clausola di recesso ad nutum, come noto, è quella che legittima ciascun socio a manifestare il proprio diritto di exit in qualsiasi momento della vita sociale ed indipendentemente dal ricorrere di situazioni o momenti particolari.

La clausola di recesso ad nutum di cui vogliamo analizzare la concreta utilizzabilità nel contesto societario è agganciata al riconoscimento di un diritto particolare ad un socio e come tale presenta un profilo di minore impatto sulla struttura finanziaria e patrimoniale della società. Infatti, mentre una clausola “generica” abilita ogni socio ad attivarla – anche indipendentemente dal valore percentuale della quota detenuta e, dunque, dal possibile impatto che il suo esercizio potrebbe avere sulla società – quella in esame potrebbe essere interpretata come recesso ad nutum ad personam perché se è vero che la prima espressione – ad nutum – qualifica il fatto che essa, come detto, può essere utilizzata insindacabilmente dall'intera platea dei soci, è altrettanto vero che la seconda – ad personam – ne limita il diritto di esercizio ad un solo socio, il titolare del diritto particolare che l'ha introdotta.

Una clausola “basica”

Pertanto, ci pare opportuno affrontare la trattazione in merito alla legittimità della generica clausola ad nutum come viatico per testare la legittimità di quella ad personam il cui minore impatto la renderebbe probabilmente inseribile nel testo statutario. In prima battuta, osserviamo la disciplina della società per azioni.

L'art. 2437 c.c. stabilisce i singoli casi nei quali spetta tassativamente al socio il diritto di recesso (primo comma); individua due gruppi di situazioni (proroga del termine e introduzione o rimozione di vincoli alla circolazione delle azioni) nei quali il diritto spetta salvo diversa previsione dello statuto (secondo comma); regola solo al quarto comma la fattispecie aperta delle cause di recesso di origine statutaria. Al contrario, leggendo l'art. 2473 c.c., ci accorgiamo che la disciplina pone al vertice l'opzione della regola statutaria: è l'atto costitutivo che stabilisce quando il socio può recedere dalla società, mentre disciplina nel successivo periodo (introdotto dal sintagma “in ogni caso”) la serie delle ipotesi la cui ricorrenza fa scattare inderogabilmente il recesso. Ne segue una conferma del ruolo determinante che nella disciplina della società a responsabilità limitata viene riconosciuto dal legislatore all'autonomia statutaria, anche se non sempre è agevole riconoscere i confini entro i quali risulta legittimo configurare la relativa clausola. Il recesso ad nutum rappresenterebbe il massimo grado entro il quale può esplicarsi l'operatività di una clausola statutaria. Con tale previsione, infatti, si consente ad ogni socio di recedere, in ogni momento, dalla società senza allegare alcun obbligo di motivazione e senza riferimento a situazioni o condizioni in cui si sia trovata la società. L'esercizio del recesso comporta in genere un rischio di depauperamento della società e pone addirittura in pericolo la stessa continuazione dell'attività di impresa quando la società debba, appunto, sciogliersi. Il rischio, cioè, di alterare le condizioni di equilibrio patrimoniale della società in modo tale da pregiudicare l'interesse dei terzi creditori e degli stessi soci. Si tratta, tuttavia, di un rischio che il legislatore, scrivendo l'art. 2473 c.c., ha valutato, soprattutto tenuto conto della scansione procedurale della liquidazione della quota in quanto il recesso può impattare soltanto in ultima istanza sul patrimonio o sul capitale della società. Si tenga conto che nel caso si giunga all'extrema ratio della riduzione del capitale e si determini lo scioglimento della società, la vicenda viene posta sotto il controllo dei creditori. Come si diceva l'ampia formulazione dell'art. 2473 c.c. che rinvia allo statuto per stabilire «quando» il socio può recedere deve essere letta in confronto alla lettera del quarto comma dell'art. 2437 c.c. che apre alla regola pattizia la definizione di «ulteriori cause di recesso».

La funzione del recesso ad nutum

L'assenza di un mercato efficiente delle partecipazioni per le s.r.l. pone in particolare rilievo l'esigenza del socio finanziatore a dismettere la partecipazione e a rientrare del proprio investimento; l'attrattiva per un exit conveniente, in un momento gradito al socio, a condizioni vantaggiose, senza alcun particolare vincolo, rappresenta un volano che può rendere fortemente attrattiva una società che preveda una tale clausola.

Il recesso ad nutum consente una gestione più efficiente dell'impresa sociale, mediante un'incentivazione dell'investimento nel capitale di rischio e la riduzione del costo di quest'ultimo nell'impresa proprio grazie alla facilità del disinvestimento che la clausola finisce per garantire.

Il recesso tra s.p.a. e s.r.l.

E' importante sottolineare una differenza tra il recesso da una società azionaria e quello da una società a responsabilità limitata. La lettura del punto dell'art. 2437 c.c. nel quale si consente all'autonomia statutaria di disciplinare cause di recesso diverse da quelle legali espressamente indicate è limitata da una concezione del recesso come reazione ad una decisione dalla quale si dissente: esso è uno strumento posto a difesa del socio debole di fronte al rischio che la maggioranza, utilizzando – non è questione di un uso legittimo o patologico – dei suoi poteri possa mettere in gioco, modificandoli, gli assetti accettati dal recedente quando ha aderito alla società. Ora nella società a responsabilità limitata questa eventuale limitazione – ossia l'essere l'esercizio del recesso necessariamente collegato ad una decisione dalla quale si dissente – non pare concepibile, il che, oltre a rendere certamente più aperto il catalogo delle possibili cause di recesso sembra poter confortare chi ammette la legittimità del recesso ad nutum.

L'importanza di uno statuto tailor made

Come abbiamo osservato, il recesso bilancia la debolezza del socio di minoranza e la sua eventuale incapacità di influire non solo e non tanto sulle maggiori decisioni sociali, ma sull'intera attività di gestione, rappresentando uno strumento che “forza” il dialogo tra le parti del contratto sociale verso esiti che possano essere indirizzati ad un comune interesse. Il rischio di un esercizio del recesso e dello sforzo economico che è comunque richiesto per la liquidazione della quota induce a riflettere e a trovare l'accordo, il consenso ed il sostegno – se non di tutti i soci – quanto meno di una platea possibilmente ben più vasta della mera maggioranza. D'altra parte la possibilità di ricavare dall'esercizio del recesso un corrispettivo ragguagliato all'effettivo valore della società incentiva sicuramente l'utilizzo dell'investimento partecipativo che patrimonializza fortemente le società anche in relazione al conseguimento di un sempre migliore rating, senza però perdere di vista la constatazione che un eccessivo ricorso teorico allo strumento dell'exit se può essere considerato uno strumento attrattivo sulla carta, può attentare alla stabilità ed alla coesione della compagine sociale e mettere costantemente in pericolo ed indebolire la struttura patrimoniale e finanziaria dell'ente.

Si tratta, come si vede, di un difficile equilibrio la cui ricerca è fondamentalmente lasciata alla costruzione di uno statuto pensato anche in ragione della composizione iniziale della società e della sua potenziale vocazione ad aprirsi ad altri soggetti nel corso della vita o a mantenere stabile e coeso il nucleo dei soci originari. In ogni caso, prescindendo dall'esame di tali questioni che attengono più a discussioni di “politica legislativa” per restare, invece, ad un'analisi strettamente tecnica, a noi pare che gli argomenti invocati contro la legittimità di una clausola di recesso ad nutum possano essere agevolmente controbattuti: al tema del possibile nocumento che una clausola di recesso astratto potrebbe arrecare al patrimonio della società – reso eccessivamente sensibile dal rischio di una pluralità di recessi immotivati – si può agevolmente replicare che il legislatore ha tenuto presente questo rischio quando ha scelto di “aprire” la struttura organizzativa della società ad un'ampia utilizzabilità dello strumento, soprattutto per quanto riguarda le cautele che presiedono alla protezione degli interessi dei creditori. Parimenti, la tesi che nega la legittimità di una clausola di recesso astratta per l'incertezza che genera, in primis, in capo ai soci sulla stabilità della compagine sociale, va respinta sia perché essa non pare contraddetta – ma anzi consentita – proprio dall'ampia formula del primo comma dell'art. 2473 c.c. e sia perché sono gli stessi soci ad accettarla nel costituire la società, sia, infine, perché i terzi sono messi in condizione di conoscerla e di trovare adeguate eventuali contromisure quando contrattano con la società. Infine, taluno ha paventato il pericolo che un utilizzo di una clausola del genere sia causa di inefficienza dell'impresa. Al di là della considerazione – accettata dalla stragrande maggioranza dei commentatori – che, al contrario, una clausola di recesso ad nutum spesso viene posta proprio per rendere maggiormente appetibile la società agli investitori, come si è più volte detto, non si deve tralasciare che ogni argomento fondato sull'inefficienza non può coinvolgere il merito delle scelte giuridiche, ma solo quello delle scelte tipicamente imprenditoriali con la conseguenza che sarà appunto la selezione operata ex post dal mercato a discriminare le scelte efficienti da quelle inefficienti. Peraltro, il costo dell'incremento della liquidità dell'investimento sarebbe rappresentato dalla maggiore incertezza che la clausola reca con sé: l'effetto netto potrà essere positivo o negativo, a seconda dei casi, ma non per questo può risolversi nel divieto di prevedere clausole di recesso ad nutum.

Un'ulteriore conferma della compatibilità tra recesso ad nutum e modello societario capitalistico è proposto dallo stesso legislatore: se si volesse attribuire ad ogni socio un potere di exit insindacabile sarebbe sufficiente prevedere un termine di durata indeterminato con la conseguente applicabilità dell'art. 2473, comma 2, c.c. che introduce un diritto di recesso in ogni momento» con il solo limite di un preavviso di almeno centottanta giorni. Per alcuni tale norma (replicata per le società azionarie dall'art. 2437, comma 3, c.c.) non può valere a conferma di una libera coesistenza tra una società capitalistica ed il riconoscimento di un exit immotivato; infatti in questo caso l'ampiezza del recesso trova giustificazione proprio nell'indeterminatezza della durata della società e nella necessità che nessun socio si senta prigioniero, mentre, «in caso di durata determinata questa necessità non si pone e non pare meritevole di tutela l'interesse dei soci a sottrarsi in qualsiasi momento al rispetto del vincolo temporale che si sono dati né da quello di poter uscire liberamente dalla società decorso un determinato periodo di tempo, perché tale ultimo interesse (che è probabilmente l'unico che potrebbe giustificare la scelta di introdurre un recesso convenzionale ad nutum) può trovare adeguata soddisfazione nella previsione di un termine di durata commisurato al periodo di stabilità del rapporto sociale e nel diritto di recesso del dissenziente in caso di proroga del termine.

Una clausola di recesso ad nutum e ad personam

L'aver sottolineato la presenza in dottrina di posizioni autorevoli e non “di nicchia” inclini a pensare che la clausola di recesso ad nutum sia legittima, aiuta a discernere circa l'ammissibilità di una clausola di recesso ad personam, vale a dire attribuita come diritto particolare ex art. 2468, comma 3, c.c. solo ad alcuni soci. Infatti, tale diritto potrebbe essere pensato come un diritto di recesso ad nutum attribuito non indistintamente a ciascun socio, ma selettivamente solo ad alcuni e, come tale, destinato eventualmente a cessare a seguito del trasferimento della quota, se non diversamente disposto. Se la potenzialità eversiva del recesso ad nutum non è valsa ad escluderne la legittimità, allora anche un diritto di caratura e portata senz'altro minore dovrebbe avere cittadinanza nello statuto di una società a responsabilità limitata. Insistiamo su questo aspetto della disciplina del recesso applicato al tema dei diritti particolari perché prefiguriamo il grande vantaggio che potrebbe giungere alla società dalla creazione di categorie di soci beneficiari di un tale diritto, destinato a circolare da investitore a investitore, accrescendo così l'appeal della società nel mercato. Vero è che sostenere che sia possibile prevedere una clausola di recesso ad nutum non implica necessariamente che sia possibile costruire pattuizioni con un diritto particolare avente lo stesso contenuto. Anche chi pensa favorevolmente in merito al “recesso causalmente astratto”, ritiene che, utilizzando la tecnica dell'attribuzione di diritti particolari, un recesso, astratto, ma selettivamente assegnato ad un socio non abbia un significato equivalente all'attribuzione di un diritto di recesso ad nutum: se è vero che il “tipo” di diritto è lo stesso, la circostanza che questo sia di ampiezza minore (in quanto non è esercitabile dalla generalità dei soci, ma solo dal soggetto beneficiato ai sensi dell'art. 2468 c.c.), non lo rende di per sé pacificamente accettabile; occorre tenere presente, difatti, che l'utilizzo dell'art. 2468 c.c. per attribuire un diritto particolare significa compiere un'operazione qualitativamente pericolosa.

Non può dirsi, in altri termini, risolta pacificamente e positivamente la questione dell'ammissibilità di un recesso ad nutum e ad personam, attraverso la mera applicazione delle conclusioni che militano a favore del mero recesso ad nutum sulla base della semplice valutazione che quantitativa in minus. Non è escluso che tale conclusione rappresenti un “inciampo sistematico” che condurrebbe a diverse conclusioni. Il pericolo risiede, ci pare di capire, innanzitutto nella possibile rottura di una sorta di pax interna che tale norma potrebbe generare, introducendo una differenziazione così intensa fra i soci da condurre al rischio di utilizzi emulativi, gravemente contrari alla natura stessa del fenomeno societario. Certo è che molto dipende da come viene formulato il diritto particolare e dalla posizione endo societaria del beneficiario: il paventato rischio di una sorta di ricatto della maggioranza che potrebbe minacciare un utilizzo di tale diritto per “scappare” dalla società ponendola in gravi difficoltà si neutralizza se solo si pensa, all'opposto che assegnare un diritto particolare di exit ad un socio finanziatore – però estraneo al controllo della società – funzionerebbe da elemento in grado di proteggere gli interessi di quest'ultimo da eventuali abusi della maggioranza stessa con il che si potrebbe assegnare al diritto particolare una funzione difensiva.

La clausola di recesso come diritto particolare ai sensi dell'art. 2468, comma 3, c.c.

L'art. 2468 c.c. opera una deroga profonda sulla struttura organizzativa della società: prescindendo da come il socio Tizio abbia un certo grado di potere nella società, certificato dalla quota di cui risulta titolare, la spendita di tale potere, sia in sede di formazione della volontà collettiva sia dal punto di vista delle scelte amministrative, si muove in un ambito del tutto fisiologico e guidato interamente dall'operare del principio maggioritario.

Il terzo comma dell'art. 2468 c.c. incide, invece, nel profondo di questo sistema maggioritario – sul cui significato si fonda uno dei cardini del principio di collegialità e della struttura organicistica delle persone giuridiche – e lo altera in modo totalmente eversivo: il socio Tizio, indipendentemente dalla quota, anche infinitesimale di cui è dotato, può avere un potere dirimente e assoluto nella scelta degli amministratori, un potere del tutto scisso dall'applicazione delle regole del principio maggioritario che, di fronte all'esercizio di un tale potere risultano del tutto neutralizzate. Il diritto di recesso, come diritto particolare, esprime un contenuto complesso in quanto mutua elementi tipici tanto dell'aspetto amministrativo quanto dell'aspetto patrimoniale: quanto abbiamo osservato sulla natura e sulla funzione dell'ampliato diritto di recesso nelle società a responsabilità limitata ci risulta utile per renderci conto che l'exit non è solo l'estrema risorsa del socio che non condivide una scelta organizzativa della società, ma assume una valenza sicuramente più ampia. La concessione della disponibilità in capo ad un socio della possibilità di recedere comporta attribuire a quel socio uno strumento di forte contrattazione sulle varie scelte che gli amministratori o la società possono compiere invitando i vari attori ad assumere strategie convergenti, pena, altrimenti, l'innesco del composito programma di liquidazione della quota che segue alla decisione di recedere. Si tratta, in altri termini, di vedere nel recesso uno strumento di natura sicuramente amministrativa, capace, cioè, di influenzare e guidare le scelte organizzative, gestionali e strutturali della società. Allo stesso tempo, il recesso come strumento di monetizzazione dell'investimento esprime una valenza certamente patrimoniale. Taluni lo leggono come diritto sicuramente patrimoniale ossia come anticipata possibilità di conseguire il valore del conferimento e quindi come particolare diritto riguardante la distribuzione degli utili.

Detto questo, risulta chiaro che il diritto di recesso individua elementi propri di entrambi gli ambiti tipici del diritto particolare e come tale – sotto unicamente un profilo squisitamente contenutistico - può essere assegnato ad un singolo socio.

Si può replicare ad ogni possibile argomento contrario alla statutarizzazione di un diritto di recesso ex art. 2468, comma 3, c.c.: il possibile pregiudizio ai terzi viene depotenziato dalla considerazione che riconoscere tale diritto non può avere un impatto maggiore di quello riconosciuto a qualsiasi altra fattispecie di recesso di matrice statutaria; l'eventuale sovvertimento del principio rischio/potere viene superato – non tanto e non solo con considerazioni relative all'attuale vigenza del principio – soprattutto con il fatto che l'accettazione di tutti i soci di una tale regola non può alterare i reciproci rapporti più di un'eventuale distribuzione fortemente disproporzionale di quote ai soci; l'eventuale utilizzo abusivo o ricattatorio di tale strumento non ne fa di per sé un istituto illegittimo. Piuttosto, ci si chiede se per attribuire un tale diritto ad un socio, occorra necessariamente creargli un diritto particolare o se, invece, sia possibile applicare la generica attribuzione dell'art. 2473 c.c. che ammette che nello statuto si prevedano altre cause di recesso, oltre a quelle legali, prevedendo in tal caso quando e come “il socio” possa recedere. Sembrerebbe, in altri termini, che l'ampia dizione che compare in apice alla norma permetta di costruire una clausola di recesso utilizzabile da un singolo socio nominativamente indicato. L'osservazione con cui dobbiamo “fare i conti” per rendere accettabile il nostro proposito di un recesso ad personam come strumento di disinvestimento dalla società è quella che collega l'esercizio del recesso in questione ad eventi ricollegabili alle situazioni avute di mira dal terzo comma dell'art. 2468 c.c.. Se ben si intende, questa obiezione che avrebbe l'effetto di limitare la portata applicativa dell'istituto, non si tratta di testare se il recesso rientri direttamente in una delle aree che possono essere assegnate come diritto particolare, ma di prendere atto che solo l'incidenza di un atto o di un fatto su vicende interessanti la distribuzione degli utili o riguardanti l'amministrazione della società, legittimerebbe il socio beneficiario di un diritto particolare di recesso a dichiarare, appunto, la sua volontà di uscire dalla società. Si tratta, come si vede, di un'impostazione fortemente limitativa dell'area di operatività dell'istituto.

Conclusioni

Si fa l'esempio di un socio, cui è stato attribuito un diritto particolare che viene “fortificato” da un diritto particolare ulteriore avente come contenuto un diritto di recesso ad personam collegato al verificarsi di situazioni di impossibilità di esercizio del primario diritto assegnato. Potrebbe pensarsi al caso di un diritto di recesso che un socio potrebbe esercitare quando la redditività della partecipazione non sia adeguata a certe aspettative ben precisate nello statuto. Da questo punto di vista, si deve precisare che unanimemente si ritiene che nell'ambito dei diritti patrimoniali che possono essere concessi ad un singolo socio non può rientrare quello ad un rendimento particolare del tutto scollegato dagli utili effettivi realizzati dalla società.

Il vantaggio nella distribuzione degli utili cui può ambire il socio ex art. 2468, comma 3, c.c. può prescindere del tutto da una delibera assembleare che positivamente decida di procedere alla distribuzione degli utili accertati nel bilancio – così che il socio potrà esercitare il diritto a percepire l'aliquota di utili che gli spetta indipendentemente da una decisione assembleare: potrà essere stabilito nella prededuzione di una certa parte degli utili e nella suddivisione percentuale a tutti i soci, quindi anche a lui, della restante parte; può consistere in un dividendo maggiorato; può essere variamente collegato ad una distribuzione di riserve del patrimonio netto o determinare un privilegio – anche consistente, per esempio, in una postergazione alle perdite – in sede di liquidazione della società, ma non potrà mai essere del tutto scollegato ed insensibile agli effettivi risultati generati dall'attività e risultanti dal bilancio di esercizio. Voler assegnare ad un socio una somma fissa di denaro o altre utilità patrimoniali che non trovino riscontro nella situazione della società significherebbe confondere il piano tipicamente legato allo status socii – che fa di questo un soggetto che in ogni caso deve partecipare ai rischi dell'attività e, fra questi, quello di non percepire alcun utile dal proprio investimento – con quello che invece si esprime nella posizione di un creditore o di un finanziatore della società che ha diritto a vedersi remunerato il proprio intervento: se si convenisse la spettanza al socio di una somma minima garantita al di fuori di qualsiasi riscontro contabile, magari anche in caso di perdite, si snaturerebbe il meccanismo distributivo con una pattuizione difficilmente riconducibile alla causa del contratto di società, facendo del socio stesso una sorta di creditore sociale. In questa sede, comunque, è possibile valorizzare la tesi che limita l'attribuzione di un diritto di recesso ad personam collegandolo ad un evento incidente su diritti riguardanti l'amministrazione o la distribuzione degli utili. Pensiamo al caso in cui ad un socio sia stato assegnato un diritto personale nella distribuzione di un utile pari al 15% dell'utile maturato in ciascun esercizio ed accertato nel relativo bilancio. La clausola potrebbe chiudersi con questa previsione, ma potrebbe ampliarsi anche al punto di prevedere una garanzia di remunerazione della partecipazione di quel socio, per esempio, stabilendo che in ogni esercizio il socio deve avere, nella forma della prededuzione della percentuale di utile cui ha diritto ex art. 2468, comma 3, c.c., una somma di euro “x”. E' chiaro che la clausola non gli garantisce una somma di danaro fissa – cosa che, come abbiamo visto, non sarebbe possibile, ma solo una percentuale di utile che però è agganciata, per qualche profilo, ad una somma di danaro. Se, in relazione agli utili maturati, la percentuale cui ha diritto gli consente di ricevere una somma almeno pari all'importo “x” statutariamente fissato, nulla quaestio. Se, invece, in base al calcolo percentuale rapportato agli utili di esercizio il socio non riceve quella determinata somma, si attiva l'ulteriore previsione del diritto particolare che gli consente di recedere dalla società. Si tratta, in altri termini, di un diritto di recesso personale collegato ad un fatto strettamente dipendente dal diritto particolare primario attribuito avente ad oggetto la distribuzione degli utili o l'amministrazione della società.

Non stiamo parlando di uno strumento da poco conto, ma di un'interessante prospettiva con cui si arricchisce il contenuto del diritto particolare proteggendone l'esercizio od ogni eventuale aspettativa a questo connessa con una forma di reazione particolarmente incisiva e potente. Il socio non avrà, così, solo un particolare diritto, ma avrà, altresì, anche un presidio che gli garantisce una tutela aggiuntiva al suo esercizio.

Guida all'approfondimento

L. Cavalaglio Art. 2437, in Commentario del codice civile diretto da E. Gabrielli, Torino, 2015; M. Cavanna, Partecipazione e “diritti particolari” dei soci, in Le nuove s.r.l. diretto da M. Sarale, Bologna, 2008, 138; M. Cera, Le clausole statutarie che determinano il diritto di recesso del socio, in S.r.l. – C commentario dedicato a Giuseppe B. Portale, Milano, 2011; N. Ciocca, Il recesso del socio dalla società a responsabilità limitata, in Riv. Dir. Comm., 2008, I, 181; G. D'Attorre, Il principio di uguaglianza tra soci nelle società per azioni, Milano, 2007; L. Delli Priscoli, Delle modificazioni dello statuto. Diritto di recesso, Artt. 2437-2437-sexies, in Commentario Schlesinger, Milano, 2013; G. Ferri jr, Investimento e conferimento, Milano, 2001; C. Frigeni, Partecipazione in società di capitali e diritto al disinvestimento, Milano, 2009; M. Maltoni, Questioni in tema di recesso da s.r.l., in Riv. Not., 2014, 451; M. Maugeri, Quali diritti particolari per il socio di società a responsabilità limitata?, in Scritti in onore di Vincenzo Buonocore, Milano, 2005, 2967; P. Revigliono, Il recesso nella società a responsabilità limitata, Milano, 2008; A. Toffoletto, L'autonomia privata e i suoi limiti nel recesso convenzionale del socio di società di capitali, in Riv. Dir. Comm., 2004, 382; M. Ventoruzzo, Recesso e valore della partecipazione nelle società di capitali, Milano, 2012, 207.

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