Le azioni a voto plurimo: profili generali, problemi applicativi e impatto sistematico
13 Luglio 2015
Le azioni a voto plurimo: profili generali
L'art. 2351, comma 4, c.c. (come modificato dal D.L. n. 91 del 2014, convertito dalla legge n. 116 del 2014) stabilisce che “salvo quanto previsto dalle leggi speciali, lo statuto può prevedere la creazione di azioni con diritto di voto plurimo anche per particolari argomenti o subordinato al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative. Ciascuna azione a voto plurimo può avere fino a un massimo di tre voti”. L'intervento legislativo del 2014 ha dunque legittimato le “azioni a voto multiplo”, sopprimendo il divieto di emissione di tale figura azionaria. Prescindendo in questa sede dall'esame delle motivazioni che furono poste alla base dell'introduzione del divieto delle azioni a voto plurimo nel Codice civile del 1942 e della conferma di tale divieto ad opera della riforma societaria del 2003, può essere interessante ripercorrere, in estrema sintesi, il periodo, anteriore al Codice civile del 1942, nel quale le azioni a voto plurimo sono state ritenute legittime ed hanno avuto una qualche diffusione tra le società dell'epoca. Al riguardo, il codice di commercio del 1882 non ammetteva espressamente le azioni a voto plurimo ed in dottrina e giurisprudenza si sviluppò un dibattito sulla legittimità di questa figura, ritenuta poi lecita, a certe condizioni, dalla Corte di Cassazione nel 1926. Per quanto attiene al panorama comparatistico in merito alla previsione di “azioni a voto multiplo”, esso risulta assai variegato. Così, se molti Paesi ammettono questa figura, può essere di qualche interesse osservare che le azioni a voto plurimo sono state vietate nel 1998 in Germania (cfr. § 12, II, AktG: «Mehrstimmrechte sind unzulässig»; cfr. anche il § 2.1.2 del Deutscher Corporate Governance Kodex del 2013), sulla base della considerazione che deve essere garantita una sostanziale conformità tra potere di influenza sulla società e quota di capitale sottoscritta. Plurime possono essere, infine, le ragioni sottostanti all'introduzione nel nostro ordinamento delle azioni a voto multiplo. A titolo meramente esemplificativo, per le s.p.a. non quotate la rimozione del divieto di emissione di azioni a voto plurimo potrebbe favorire la quotazione in borsa, poiché darebbe al socio fondatore maggiori gradi di libertà nella definizione dell'assetto proprietario che meglio bilancerebbero il trade-off fra controllo e opportunità di raccolta di risorse sul mercato (nell'ipotesi in cui il fondatore abbia azioni a voto multiplo e si rivolga al mercato quotando solo azioni ordinarie, è verosimile che il socio fondatore possa vendere o far emettere più azioni ordinarie senza perdere il controllo dell'impresa); le azioni a voto multiplo potrebbero consentire poi di aumentare i ricavi dell'offerta complessiva di vendita e/o sottoscrizione in fase di IPO, riducendo così l'incidenza dei costi di quotazione, in gran parte fissi. La disciplina dettata dal legislatore
Passando ad esaminare il quadro della disciplina, si deve in primo luogo, osservare che possono essere attribuiti fino ad un massimo di tre voti ad azione; l'autonomia statutaria non è quindi libera di individuare il numero massimo di voti attribuibili a ciascuna azione. Allo stesso tempo, il legislatore non ha fissato alcun limite quantitativo all'emissione rispetto al capitale sociale (come previsto dall'art. 2351, comma 2, c.c., per le azioni senza voto, a voto limitato o condizionato; è da rilevare peraltro che l'applicazione alle azioni a voto multiplo del limite appena ricordato non avrebbe avuto alcun senso), né ha stabilito un tetto massimo complessivo di voti che possono essere espressi dagli azionisti a voto multiplo (ad esempio, non più di un terzo dei voti esercitabili in assemblea). Per quanto attiene alla declinazione del diritto di voto per questa categoria di azioni, è espressamente stabilito che esso possa essere un “voto pieno”, così come limitato a particolari argomenti o subordinato al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative. Si tratta, evidentemente, di una flessibilità importante, alla quale si poteva giungere anche in applicazione del principio di atipicità delle azioni speciali (art. 2348, comma 2, c.c.); in questo modo è stato peraltro eliminato ogni possibile dubbio interpretativo. E' da osservare, poi, che per le società iscritte nel registro delle imprese alla data del 31 agosto 2014 è stato previsto un regime speciale per l'introduzione di questa categoria azionaria; più in particolare, in base all'art. 212 delle disposizioni di attuazione al Codice civile (come modificato dal decreto legge n. 91 del 2014, convertito dalla legge n. 116 del 2014) “le deliberazioni di modifica dello statuto di società iscritte nel registro delle imprese alla data del 31 agosto 2014 con cui è prevista la creazione di azioni a voto plurimo ai sensi dell'art. 2351 del codice civile sono prese, anche in prima convocazione, con il voto favorevole di almeno i due terzi del capitale rappresentato in assemblea”. Al riguardo, è possibile osservare che – innestandosi la disposizione appena richiamata nella disciplina di cui agli artt. 2368 e 2369 c.c. – per le società c.d. chiuse non risulta chiaro se sussista ancora il quorum costitutivo pari alla maggioranza assoluta del capitale per la prima convocazione (come si desume dall'art. 2368, comma 2, c.c.); a ben vedere, se la necessità di tale quorum viene ricavata dal fatto che “tale maggioranza è prevista come quorum deliberativo e pertanto deve essere a fortiori presente in assemblea”(Mirone, Il sistema tradizionale: l'assemblea, in Diritto commerciale, a cura di M. Cian, II, Giappichelli, 2014, 383), nel momento in cui tale quorum deliberativo non è più richiamato (nel caso dell'art. 212 delle disposizioni di attuazione al Codice civile, come attualmente formulato) è da chiedersi come possa operare in veste di quorum costitutivo. Per quanto attiene, invece, alla seconda convocazione in una s.p.a. chiusa, il quorum costituivo è certamente richiesto ed è pari ad oltre il terzo del capitale sociale (come si desume dall'art. 2369, comma 3, c.c., applicabile anche al caso in esame). E' stato osservato, peraltro, che l'innalzamento del quoziente di legge “da un lato non coinvolge le società aperte non quotate (per le quali è già previsto dal codice per tutte le deliberazioni da assumersi in sede straordinaria) e, dall'altro, può rivelarsi impercettibile nelle s.p.a. chiuse: riguardando la sola prima convocazione, esso è infatti agevolmente sterilizzabile dai soci di maggioranza facendo andare deserta tale assise” (Abriani, Azioni a voto plurimo e maggiorazione del diritto di voto degli azionisti fedeli: nuovi scenari e inediti problemi interpretativi, visionabile su giustiziacivile.com). Il divieto di emettere azioni a voto plurimo nelle s.p.a. quotate
Resta da chiarire se (ed eventualmente in quali termini) questa categoria di azioni possa essere impiegata anche in una s.p.a. quotata. Ebbene, come indica (implicitamente) anche l'inciso iniziale della disposizione in commento (“salvo quanto previsto dalle leggi speciali”) in una società con azioni quotate trova applicazione la disciplina speciale del T.U.F. ed in particolare quella contenuta nell'art. 127 sexies (rubricato “Azioni a voto plurimo” ed introdotto con il D.L. n. 91 del 2014, come convertito dalla L. n. 116 del 2014), in base alla quale “in deroga all'art. 2351, comma 4, del codice civile, gli statuti non possono prevedere l'emissione di azioni a voto plurimo” (127 sexies, comma 1, T.U.F.), ma “le azioni a voto plurimo emesse anteriormente all'inizio delle negoziazioni in un mercato regolamentato mantengono le loro caratteristiche e diritti” (127 sexies, comma 2, T.U.F.), risultando soggette sia alle disposizioni di cui all'art. 2351, comma 4, c.c., sia a quelle contenute nell'art. 127 sexies T.U.F. (ove si stabilisce, tra le altre cose, che nel caso previsto dal comma 2 dell'articolo in questione gli statuti non possono prevedere ulteriori maggiorazioni del diritto di voto a favore di singole categorie di azioni né ai sensi dell'art. 127-quinquies). Alcuni problemi interpretativi
Molti sono i problemi interpretativi che si pongono all'interprete in presenza di questo mutato contesto normativo. Si pensi, ad esempio, alla questione se l'introduzione di questa categoria di azioni legittimi il recesso dei soci che non hanno concorso alla deliberazione ai sensi della lettera g), dell'art. 2437 c.c. , dovendosi altresì chiedere se possa influenzare la soluzione del problema il principio sancito - in relazione, peraltro, ad una diversa fattispecie - dall'art. 127-quinquies, comma 6, T.U.F., in forza del quale “la deliberazione di modifica dello statuto con cui viene prevista la maggiorazione del voto non attribuisce il diritto di recesso ai sensi dell'articolo 2437 del codice civile”. E' opportuno sottolineare, inoltre, che – pur in assenza di una previsione normativa espressa – “sembra doversi ammettere la costituzione in società non quotate sia di clausole di maggiorazione, sia di categorie di azioni caratterizzate dal riconoscimento di una maggiorazione nel voto (che potrà qui consistere in qualunque numero superiore ad uno e inferiore o uguale a tre) condizionatamente ad una durata minima del possesso azionario (che potrà in tal caso anche essere inferiore al biennio” (Abriani, op. cit.). Nella prospettiva indicata appare dunque legittima la creazione di una categoria di azioni a voto plurimo con un vincolo di intrasferibilità (ad esempio) di tre anni. Si deve chiarire, infine, che le azioni a “voto plurimo” saranno dotate (salvo diversa disposizione statutaria) dei medesimi diritti patrimoniali ed amministrativi (con eccezione, ovviamente, del diritto di voto) delle azioni ordinarie. In conclusione
L'espressa legittimazione delle azioni a voto plurimo è destinata a produrre un forte impatto non solo in termini applicativi, ma anche sistematici. Al riguardo, si consideri, in primo luogo, che, qualora una società emetta una categoria di azioni a voto plurimo (con tre voti per ciascuna azione) rappresentativa del 25% più 1 azione del capitale e supponendo la restante parte del capitale rappresentata da azioni ordinarie, tale categoria è in grado di esercitare un controllo c.d. di diritto. Sotto questo profilo nulla cambia rispetto al quadro previgente, ove si poteva giungere ad un analogo risultato emettendo azioni senza diritto di voto per la metà del capitale sociale. Il dato di assoluta novità è che ora l'emissione di azioni a voto plurimo può combinarsi con la creazione di azioni senza voto. E' opportuno così ricordare che il divieto di emissione di azioni a voto plurimo - confermato dalla riforma del 2003 e vigente sino all'intervento legislativo del 2014 (v. supra) - assumeva un significato preciso. Più in particolare, in un ordinamento che consentiva anche l'emissione di azioni completamente prive del voto nel limite della metà del capitale sociale, il divieto di azioni a voto plurimo assumeva un significato (non solo applicativo, ma anche) sistematico importante, impedendo che la società fosse “asservita” ad azionisti che detenevano nel complesso una partecipazione inferiore ad un quarto del capitale. Il quadro ora è mutato profondamente, essendo consentito ad una s.p.a. di emettere allo stesso tempo: i), da un lato, azioni con diritto di voto plurimo (anche per particolari argomenti o subordinato al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative) senza alcun limite quantitativo e con la sola prescrizione che a ciascuna azione a voto plurimo può essere attribuito fino a un massimo di tre voti (art. 2351, comma 4, c.c.); ii) dall'altro, azioni anche completamente prive del diritto di voto, purché complessivamente non superiori alla metà del capitale sociale (art. 2351, comma 2, ultima parte, c.c.). Ebbene, nell'ipotesi (pienamente legittima) di una s.p.a. ove il 50% del capitale è costituito da azioni senza voto, una categoria di azioni a voto plurimo con tre voti per ciascuna azione e rappresentativo del 12,5% più 1 azione del capitale sociale (ed in presenza, per il resto, di azioni ordinarie) è in condizione di esercitare il “controllo di diritto” sulla società. Il rapporto di “proporzionalità” tra “potere di gestione” e “rischio di impresa” imposto dall'ordinamento si riduce allora ulteriormente, rispetto allo scenario, già nuovo, delineato con la riforma del 2003 e può dirsi, nella sostanza, definitivamente tramontato. In dottrina sul tema: Alvaro-Ciavarella-D'Eramo-Linciano, La deviazione dal principio “un'azione- un voto” e le azioni a voto multiplo, Quaderni giuridici Consob, 2014; Busani-Sagliocca, Le azioni non si contano, ma si “pesano”: superato il principio one share one vote con l'introduzione delle azioni a voto plurimo e a voto maggiorato, in Società, 1048 ss., 2014; Calvosa, La partecipazione eccedente e i limiti al diritto di voto, Giuffrè, 1999; Ferrarini, “Un'azione – un voto”: un principio europeo?, in Riv. soc., 2006, 24 ss.; La sala, Principio capitalistico e voto non proporzionale nella società per azioni, Giappichelli, 2011; Massella Ducci Teri, Appunti in tema di divieto di azioni a voto plurimo: evoluzione storica e prospettive applicative, in RDS, 2013, 746 ss.; Mülbert ed altri, One Share One Vote? Tomorrow's Companies: One Universal Model or Tailored Equity Structures?, London, 2006. V. anche: Le azioni a voto plurimo e a voto maggiorato, Circolare Assonime n. 10/2015, in Riv. soc., 2015, p. 476 ss.; Consiglio notarile di Milano, massima n. 142 (Categorie di azioni e diritto di nomina di amministratori e sindaci); n. 144 (Azioni a voto “diverso” e quorum assembleari); Osservatorio sul diritto societario del Consiglio Notarile dei Distretti Riuniti di Firenze, Pistoia e Prato, Orientamento n. 48/2014 (Categorie di azioni a voto plurimo fidelizzanti); n. 47/2014 (Categorie di azioni a voto plurimo e nomina delle cariche sociali); n. 46/2014 (Categorie di azioni a voto plurimo differenziato).
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