Omesso versamento di Iva e ritenute, tra crisi economica ed elemento soggettivo: il punto della Cassazione Penale

La Redazione
30 Maggio 2014

Nel reato di omesso versamento di ritenute certificate (o di Iva) il dolo è generico, ma non può essere ritenuto in re ipsa: deve essere accertato dal giudice di merito, e può essere escluso se l'imputato dimostra che le difficoltà finanziarie non siano a lui imputabili e che non possano essere altrimenti fronteggiate.

Nel reato di omesso versamento di ritenute certificate (o di Iva) il dolo è generico, ma non può essere ritenuto in re ipsa: deve essere accertato dal giudice di merito, e può essere escluso se l'imputato dimostra che le difficoltà finanziarie non siano a lui imputabili e che non possano essere altrimenti fronteggiate. Lo ha ribadito la Corte di Cassazione, III sezione Penale, nella sentenza n. 20777 del 22 maggio scorso.


L'omesso versamento di ritenute e dell'Iva. La Cassazione Penale torna ad occuparsi dei reati di cui agli artt. 10-bis e 10-ter, d. lgs. n. 74/2000 e della rilevanza della crisi di liquidità o del dissesto dell'imprenditore, quali elementi che potrebbero escludere l'elemento psicologico e, quindi, rendere la condotta non punibile.


L'elemento soggettivo nelle pronunce di legittimità: Cass. Pen. S.U. 37425/13. A partire dalla pronuncia a Sezioni Unite n. 37425/2013, si è registrata, nella giurisprudenza di legittimità, un'apertura in tema di elemento soggettivo: in quell'occasione si è affermato che il reato di cui all'art. 10-bis è punibile a titolo di dolo generico, essendo sufficiente “la coscienza e volontà di non versare all'Erario le ritenute effettuate nel periodo considerato”, con la precisazione che tale coscienza e volontà deve investire anche la soglia dei cinquantamila Euro, “che è un elemento costitutivo del fatto, contribuendo a definirne il disvalore”; è, invece, irrilevante il fine perseguito dall'agente e la circostanza se il comportamento illecito sia determinato dallo scopo di evadere le imposte.
La Suprema Corte ha poi affermato che la prova del dolo è, in genere, “insita nella duplice circostanza del rilascio della certificazione al sostituito e della presentazione della dichiarazione annuale del sostituto (Mod. 770), che riporta le trattenute effettuate, la loro data ed ammontare, nonchè i versamenti relativi”.
Secondo la Cassazione, per escludere la colpevolezza non basta invocare la crisi di liquidità del soggetto attivo, ma occorre dimostrare che tale crisi non dipenda dalla scelta di non far debitamente fronte all'esigenza di organizzazione imprenditoriale.


Le successive pronunce, la prova del dolo e l'esclusione della colpevolezza. Nel corso del 2014, la Cassazione è intervenuta nuovamente in tema di prova dell'elemento soggettivo nei reati di cui al d. lgs. 74/2000, chiarendo come siano possibili casi, il cui apprezzamento è devoluto al giudice di merito, nei quali possa invocarsi l'assenza di dolo o l'assoluta impossibilità di adempiere l'obbligazione tributaria: a tal fine è necessario che “siano assolti gli oneri di allegazione e di prova che, per quanto attiene alla crisi di liquidità, debbono investire non solo l'aspetto circa la non imputabilità al soggetto tenuto al pagamento dell'imposta della crisi economica, che avrebbe improvvisamente investito l'azienda, ma anche che detta crisi non possa essere stata adeguatamente fronteggiata tramite il ricorso, da parte dell'imprenditore, ad idonee misure da valutarsi in concreto” (Cass. Pen. n. 5467/2014; in senso conforme: Cass. Pen. n. 5905/14; n. 2614/14). Il contribuente è tenuto, cioè, a provare di non aver potuto reperire altrimenti le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, “pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, se del caso anche sfavorevoli al suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di una improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli non imputabili” (così, Cass. Pen. n. 15176/14).
Il reato può, quindi, essere escluso quando il Tribunale, con un accertamento in fatto non sindacabile dai giudici di legittimità ove adeguatamente motivato, abbia qualificato come “inesigibile una condotta alternativa rispetto a quella concretamente adottata dall'imputato” (così, Cass. Pen. n. 9264/14).


La crisi di liquidità come causa di forza maggiore. In quest'ottica, l'impossibilità per l'imputato di reperire in altro modo le risorse necessarie ad adempiere all'obbligo tributario, può essere qualificata come un'esimente riconducibile alla forza maggiore (Cass. Pen. n. 19426/14).
Un'apertura della Cassazione solo parziale: le precarie condizioni economiche non costituiscono, di per sé solo, un caso di forza maggiore idoneo ad escludere il reato, perché la crisi di liquidità economica, nell'ambito dell'attività di impresa, rappresenta un evento tutt'altro che imprevedibile e come tale insuperabile (così, Cass. Pen. n. 14953). Serve la prova, insomma, che tale crisi non sarebbe stata altrimenti fronteggiabile con il ricorso ad idonee misure, da valutarsi caso per caso. L'omissione di cui agli artt. 10-bis o 10-ter deve essere derivata, in conclusione, da un evento del tutto estraneo alla sfera di controllo del soggetto agente, cioè da una imprevista e imprevedibile indisponibilità del denaro necessario, non correlata in alcun modo alla condotta gestionale dell'agente.
Per altro verso, si è escluso che la crisi di liquidità dell'imprenditore possa avere rilevanza sotto il profilo dello stato di necessità. La pronuncia n. 15416/2014 ha chiarito come “il fatto che le obbligazioni tributarie siano rimaste inadempiute per l'esigenza di adempiere prioritariamente alle obbligazioni di pagamento delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti” non possa configurare la circostanza scriminante dello stato di necessità, come invocato in quella vicenda processuale dall'imputato: l'art. 54 c.p. esclude, infatti, “la punibilità per chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona; laddove, con l'espressione ‘danno grave alla persona', il legislatore ha inteso riferirsi ai soli beni morali e materiali che costituiscono l'essenza stessa dell'essere umano”, e non anche beni, pur costituzionalmente rilevanti, come il diritto al lavoro.

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