Danno azionabile contro amministratori e sindaci: il criterio del “patrimonio netto fallimentare”

Gabriella Covino
10 Settembre 2015

La questione della quantificazione del danno imputabile ad un amministratore o ad un sindaco nell'azione di responsabilità promossa da una curatela fallimentare rappresenta da sempre un tema controverso, non potendosi fare applicazione del c.d. criterio del patrimonio netto fallimentare per il solo fatto che manchino le scritture contabili. Questa mancanza, se pur addebitabile agli organi sociali, non giustifica da sé sola l'individuazione e la liquidazione del danno da risarcire in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l'attivo accertati in ambito fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato solo ai fini della liquidazione equitativa del danno, ove ne ricorrano le condizioni.
Premessa

La questione della quantificazione del danno imputabile ad un amministratore o ad un sindaco nell'azione di responsabilità promossa da una curatela fallimentare rappresenta da sempre un tema controverso, anche perché manca una disciplina specifica di riferimento.

Di qui e quale primo passo, occorre fare riferimento alle norme di portata generale dettate dal legislatore in materia di danno risarcibile, rammentandosi che l'art. 1223 c.c. fissa il contenuto dell'obbligazione risarcitoria nella perdita subita (c.d. danno emergente) e nel mancato guadagno (c.d. lucro cessante) che siano conseguenza immediata e diretta di un comportamento illecito.

Facendo propri questi rilievi e con riferimento al caso specifico, la giurisprudenza di legittimità è pervenuta alla conclusione, generalmente condivisa, per cui il danno risarcibile dev'essere determinato sulla base delle conseguenze immediate e dirette delle violazioni contestate ad amministratori o sindaci e che tale danno vada calcolato in misura pari alla diminuzione patrimoniale effettivamente sofferta dalla società poi dichiarata fallita.

In altre parole, al fine di procedere alla verifica di quale sia la concreta conseguenza di una condotta amministrativa o sindacale pregiudizievole, è necessario scindere l'accertamento del rapporto tra comportamento ed evento dannoso dall'accertamento del danno risarcibile, attraverso una comparazione tra la situazione che si è verificata in conseguenza dei fatti scrutinati e la situazione che si sarebbe verificata in loro assenza.

Con il che, il danno risarcibile da amministratori e sindaci è quello causalmente riconducibile alla loro condotta colposa o dolosa ed entro tale limite comprende, secondo i principi generali, il danno emergente ed il lucro cessante, dovendo essere in concreto commisurato al pregiudizio che la società non avrebbe subito se un determinato comportamento illegittimo, attivo od omissivo, non fosse stato posto in essere.

Criteri di quantificazione del danno: inquadramento

Alla luce del quadro generale di riferimento delineato nel paragrafo che precede, va evidenziato come, nel tempo, si siano affermati e siano stati smentiti numerosi orientamenti sul tema della quantificazione del danno nel corso di un'azione di responsabilità fallimentare.

Ciò premesso, ad ogni modo s'impone una prima necessaria distinzione a seconda del tipo di contestazione che venga mossa da una curatela fallimentare.

Nel caso in cui ad amministratori e sindaci siano imputate condotte distrattive non si pongono problemi particolari, giacché il danno normalmente coincide con l'importo o con il valore del bene distratto. E lo stesso discorso può valere per le ipotesi in cui siano individuate e censurate singole operazioni, come ad esempio nei giudizi in cui ai convenuti sia imputato il compimento di operazioni estranee rispetto all'oggetto sociale o in conflitto d'interessi, ovvero comunque illecite. Se infatti si fornisce la prova dell'ammontare delle risorse dissipate nelle specifiche operazioni oggetto di causa, allora può ritenersi che il curatore abbia adempiuto il proprio onere, senza che vi siano ragioni per dubitare che la quantificazione del pregiudizio risarcibile in misura pari al danno che dall'operazione sia direttamente dipeso sia soluzione perfettamente in linea con i criteri sanciti dall'art. 1223 c.c.

Molto più complessa si profila, invece, la situazione quando oggetto delle censure mosse ad amministratori e sindaci sia un'attività protratta nel tempo, eventualmente articolatasi in diversi anni ed in numerose attività, non tutte dannose, ma difficilmente separabili le une dalle altre.

E' questa, peraltro, la situazione che ricorre con maggiore frequenza, vale a dire quella della responsabilità degli organi sociali per l'indebita prosecuzione dell'attività sociale in presenza di una causa di scioglimento della società e per il conseguente aggravamento del dissesto, contemplata un tempo dall'art. 2449 c.c. e, dopo la riforma, dal combinato disposto degli artt. 2485 e 2486 c.c.

Rispetto a tale specifica ipotesi si è fatto, nel tempo, ricorso sostanzialmente a tre criteri: il criterio tradizionale del c.d. patrimonio netto fallimentare, il criterio della c.d. differenza tra patrimoni netti (i.e., quello alla data di ritenuta perdita del capitale sociale e quello fallimentare) ed il criterio equitativo.

Segue: il criterio del c.d. patrimonio netto fallimentare

Il criterio tradizionale del c.d. patrimonio netto fallimentare identifica il danno imputabile agli amministratori ed ai sindaci nella differenza tra attivo (realizzato e realizzabile) ed ammontare dei crediti ammessi nello stato passivo patrimoniale accertato nel corso della procedura concorsuale.

Questo metodo manca di oggettiva coerenza con le disposizioni codicistiche in materia di risarcimento del danno, giacché si limita a determinare il danno tramite un calcolo automatico, non tenendo conto del nesso di causalità tra la condotta degli amministratori o dei sindaci e il danno effettivamente provocato, scontando il limite di confondere o, quanto meno, sovrapporre due concetti tra loro ontologicamente differenti, vale a dire il pregiudizio risarcibile ed il risultato negativo gestionale, rendendo imputabili poste passive fisiologiche e, in ultima battuta, imputando sostanzialmente il disvalore conseguente ad una vendita fallimentare dei beni aziendali.

Tutto ciò collide con il principio per cui il pregiudizio derivante da specifici atti illegittimi imputabili agli amministratori od ai sindaci non dev'essere confuso con il risultato negativo della gestione patrimoniale della società nel suo complesso, sfociata poi nel dissesto e nell'insolvenza, e per cui quello stesso risultato negativo non può essere fatto automaticamente coincidere con l'entità del danno risarcibile.

Di qui, la finale constatazione che dovrebbe accollarsi agli amministratori od ai sindaci il danno che risulti conseguenza immediata e diretta delle commesse violazioni nella misura equivalente al detrimento patrimoniale effettivamente dipendente dalla loro condotta illecita, ed a prescindere dalle conseguenze concrete (più o meno favorevoli) che caso per caso questo criterio di valutazione comporti per ciascuno di essi; ciò in quanto lo squilibrio patrimoniale di una società insolvente può avere, e per lo più ha, cause molteplici, non necessariamente tutte riconducibili al comportamento illegittimo dei gestori e dei controllori della società. La sua concreta misura dipende spesso non tanto dal compimento di uno o più atti illegittimi, quanto dalla gestione nel suo complesso e dalle scelte discrezionali in cui questa si traduce. L'automatismo che discende dall'applicazione del criterio del c.d. patrimonio netto fallimentare non solo conduce a risultati che empiricamente paiono poco rispondenti all'effettiva realtà dei fatti, ma soprattutto si pone in contraddizione con i principi civilistici in materia di responsabilità e risarcimento del danno.

Segue: il criterio dei c.d. netti patrimoniali

I limiti descritti in rapporto al criterio del c.d. patrimonio netto fallimentare hanno condotto nel tempo dottrina e giurisprudenza ad assumere un atteggiamento più cauto, ritenendo necessaria la verifica del risultato economico delle singole operazioni pregiudizievoli per la società, di volta in volta poste in essere dagli amministratori ed eventualmente agevolate dall'omesso controllo dei sindaci in violazione dei rispettivi doveri giuridici, con la finale conseguenza di evidenziare che, per poter affermare la responsabilità di amministratori e sindaci, deve essere fornita la prova dell'efficienza causale dell'attività amministrativa e di controllo in relazione alla situazione acclarata, nonché dell'ammontare del danno determinato in ciascun esercizio sociale in dipendenza dell'indebito protrarsi della gestione. In altri e più concreti termini, il danno non può consistere nella mera differenza tra l'attivo ed il passivo fallimentare, ma deve valutarsi in concreto quanta parte del patrimonio sociale perduto sia causalmente imputabile alla condotta dell'amministratore o del sindaco.

Su questi presupposti, è stato elaborato il differente criterio dei c.d. netti patrimoniali, il quale comporta una comparazione tra la situazione patrimoniale alla data di ritenuta perdita del capitale sociale e la situazione patrimoniale fallimentare, considerando quale pregiudizio imputabile la differenza negativa che si registra, al netto degli oneri che sarebbero comunque maturati in caso di immediata messa in liquidazione della società e delle conseguenze che non avrebbero potuto essere soggettivamente percepite da parte di un diligente amministratore o sindaco.

Se può dirsi che il criterio dei netti patrimoniali sia più rispondente alla regola della natura immediata e diretta del danno risarcibile, resta pur sempre il fatto che esso rischia d'essere ancora approssimativo, principalmente in quanto alcuni cespiti dell'attivo sono comunque destinati a svalutarsi una volta avviata la procedura liquidatoria o concorsuale, senza che ciò possa ritenersi imputabile agli organi sociali, ed in quanto, viceversa, alcuni elementi del passivo – si pensi agli interessi ed agli oneri finanziari – possono incrementarsi senza che ciò dipenda da scelte censurabili degli amministratori. Ed è difficilmente negabile, per altro verso, che il criterio in esame potrebbe risultare incoerente con il novellato sistema legislativo societario, giacché l'art. 2486 c.c., a differenza del previgente art. 2449 c.c., non impedisce tout court la gestione successiva alla causa di scioglimento, ma la saziona solo se essa non sia finalizzata alla “conservazione dell'integrità e del valore del patrimonio sociale. Dunque quel che è vietato è un'attività, non singoli atti gestori od operazioni, cioè appunto l'attività gestoria che non abbia finalità soltanto conservative ma comporti, come si dice, l'assunzione di ‘nuovo rischio “imprenditoriale”.

Sulla base di queste considerazioni, ancora oggi sostenute da una parte della dottrina, si è affermata una tesi più rigorosa, secondo la quale il danno risarcibile dovrebbe essere sempre accertato nel dettaglio, mediante scrutinio delle singole operazioni successive al momento in cui gli organi sociali avrebbero dovuto arrestare l'attività sociale.

In questa prospettiva, va ricordata una decisione della Corte di Cassazione (23 giugno 2008, n. 17033) con cui è stato, per la prima volta, messo in discussione il criterio dei netti patrimoniali, sull'espresso presupposto che, “nel caso in cui l'azione di responsabilità nei confronti degli amministratori di una società trovi fondamento nella violazione del divieto di intraprendere nuove operazioni, a seguito dello scioglimento della società derivante dalla riduzione del capitale sociale al di sotto dei limiti previsti dall'art. 2447 c.c., non è giustificata, in mancanza di uno specifico accertamento in proposito, la liquidazione del danno in misura pari alla perdita incrementale derivante dalla prosecuzione dell'attività, poiché non tutta la perdita riscontrata dopo il verificarsi della causa di scioglimento può essere riferita alla prosecuzione dell'attività medesima, potendo in parte comunque prodursi anche in pendenza della liquidazione o durante il fallimento, per il solo fatto della svalutazione dei cespiti aziendali, in ragione del venir meno dell'efficienza produttiva e dell'operatività dell'impresa”.

Evidenti sono le implicazioni e le conseguenze di quest'impostazione: se devono ritenersi risarcibili soltanto i danni che specificamente discendono da operazioni ben individuate, compiute dagli amministratori dopo il verificarsi di una causa di scioglimento in violazione del dovere di agire soltanto per la conservazione del patrimonio sociale, allora al curatore dovrebbe spettare l'onere di dimostrare non soltanto che l'attività sociale sia proseguita nonostante la perdita del capitale e che il dissesto si sia aggravato in conseguenza di tale prosecuzione, ma anche quali siano l'oggetto e le conseguenze di ciascuna delle operazioni imputate agli amministratori; tutto ciò a pena di reiezione della domanda, gravando pacificamente sull'attore l'onere della prova in merito alla condotta illecita, al danno e al relativo nesso causale.

Non è difficile evidenziare i rischi cui una simile impostazione, in apparenza maggiormente rispettosa del principio dettato dall'art. 1223 c.c., finisce in concreto per esporre l'interprete.

Come la migliore dottrina non ha mancato di evidenziare, la soluzione proposta dalla Cassazione dimentica non solo la natura complessa e dinamica dell'impresa, che difficilmente consente un'operazione di parcellizzazione delle singole operazioni, ma anche il fatto che il danno raramente è commisurato con esattezza all'incidenza negativa di singole operazioni e si configura invece, il più delle volte, come pregiudizio discendente dalla più ampia e generale scelta degli amministratori di proseguire nell'attività ordinaria – che ben può alternare senza soluzione di continuità condotte conservative e iniziative imprenditoriali – dopo il verificarsi di una causa di scioglimento. Con il che, dovrebbe aversi riguardo all'attività complessiva dei gestori e dei controllori della società condotta in violazione alle prescrizioni di legge, ma non già ai singoli atti, con la conseguenza che l'onere della prova gravante sul curatore per la quantificazione del danno risarcibile non andrebbe circoscritto a singoli atti, bensì dovrebbe avere ad oggetto il risultato complessivo di condotte attuate in difformità alle prescrizioni di legge, alla cui definizione concorrono operazioni tanto di segno negativo quanto di esito positivo, anche se non attribuibili direttamente ad atti degli amministratori, ma comunque dipendenti dalla prosecuzione dell'attività d'impresa.

Tutto ciò porta allora ad una prima, importante conclusione. Ove si contesti ad amministratori e sindaci l'aggravamento del dissesto, non si dovrebbe cercare, ad ogni costo, una regola di calcolo generale, ma bisognerebbe probabilmente procedere, anche su base equitativa ai sensi dell'art. 1226 c.c., ad una simulazione di “liquidazione virtuale”, accertando se e quali oneri passivi sarebbero comunque maturati anche in caso di tempestivo arresto dell'attività aziendale, onde calcolare esattamente il pregiudizio da indebita prosecuzione e collegarlo causalmente alla condotta dei soggetti ritenuti responsabili.

La recente applicazione selettiva del criterio del c.d. patrimonio netto fallimentare

Fermi i limiti che sono stati indicati, il metodo di calcolo del c.d. patrimonio netto fallimentare ha continuato, ancora di recente, a trovare un suo riconoscimento in alcune situazioni specifiche, vale a dire in presenza di contabilità tenuta in modo irregolare, in sua completa assenza od ancora in ipotesi di configurabilità di una contestazione di causazione del dissesto (anche, ad esempio, per avere compiuto per un lungo arco di tempo operazioni in data successiva alla perdita del capitale sociale).

Ed è alle prime due fattispecie che occorre avere specifico riguardo, anche perché, ai fini della quantificazione del danno, qualora sia oggettivamente impossibile valutare l'esatto disavanzo della società al momento della dichiarazione di insolvenza a causa di carenze gestionali imputabili agli stessi organi responsabili, potrebbe essere ritenuto legittimo il ricorso al criterio equitativo di cui all'art. 1226 c.c. e, nell'applicazione di tale criterio, la considerazione del parametro rappresentato dalla differenza tra attivo e passivo della procedura concorsuale.

Ora, alla luce della constatazione per cui la mancanza o la irregolare tenuta delle scritture contabili non è soltanto segno di grave inadempimento degli amministratori o dei sindaci, ma può anche generare l'impossibilità per il curatore di ricostruire le vicende societarie e di ricavarne l'effettivo danno imputabile alla condotta dei responsabili, occorre domandarsi se ed a quali condizioni possa ancor oggi trovare applicazione il criterio del c.d. patrimonio netto fallimentare.

Sul punto, è possibile riscontrare l'esistenza di due orientamenti.

Il primo in base al quale la totale mancanza di contabilità sociale, o la sua tenuta in modo sommario o non leggibile, è di per sé giustificativa della condanna di un amministratore o di un sindaco al risarcimento del danno, giacché la violazione del dovere della regolare tenuta delle scritture contabili, essendo idonea a tradursi in un pregiudizio per il patrimonio sociale e non consentendo all'attore in responsabilità di dimostrare il nesso di causalità, giustifica l'inversione dell'onere probatorio di questo nesso e, quindi, l'attribuzione all'amministratore od al sindaco che non sia a lui imputabile il dissesto (Cass., 4 aprile 2011, n. 1375; Cass., 11 marzo 2011, n. 5876).

Il secondo in base al quale l'applicazione del creditore del “netto fallimentare” è giustificabile se e nella misura in cui, all'esito di un giudizio presuntivo che poggi su di una rigorosa ricostruzione cronologica e di una valutazione eziologica delle vicende causative del dissesto, il giudice ritenga che la differenza tra attivo e passivo fallimentare sia il frutto di comportamenti illegittimi posti in essere dagli organi sociali, integranti violazione dell'obbligo di regolare tenuta delle scritture contabili e del divieto di proseguire l'attività aziendale in presenza di una causa di scioglimento legale (Cass., 8 febbraio 2000, n. 1375; Cass., 17 settembre 1997, n. 9252).

L'intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione sul criterio del c.d. patrimonio netto fallimentare

Il contrasto giurisprudenziale appena evidenziato ha portato ad interpellare le Sezioni Unite della Corte di Cassazione affinché chiarissero, data l'importanza della questione di diritto e le sue ricadute su numerose controversie giudiziali, le condizioni e i limiti di applicabilità del criterio del c.d. patrimonio netto fallimentare nelle azioni di responsabilità promosse da una curatela fallimentare; e ciò anche considerato il principio, espresso nella diversa materia della responsabilità medica, per cui la difettosa tenuta d'una cartella clinica consente, ove risulti provata l'idoneità della condotta del medico a provocare l'evento lesivo, il ricorso alla presunzione sulla sussistenza del nesso causale, esattamente come accade in ogni altra situazione in cui la prova di un fatto non possa essere fornita per un comportamento ascrivibile alla parte contro la quale questo fatto viene contestato.

Nella situazione appena descritta, era lecito chiedersi quale avrebbe potuto essere il giudizio che le Sezioni Unite avrebbero espresso e, quindi, quali indicazioni sarebbero state fornite in una materia che è molto delicata e che investe una pluralità di interessi, anche confliggenti.

Non essendo opportune, anzi utili, prognosi empiriche, si poteva unicamente esprimere l'auspicio che le Sezioni Unite contemperassero le differenti, e disomogenee, posizioni giuridiche e sostanziali, evitando di trasformare una responsabilità colpevole (qual è quella amministrativa e sindacale) in una responsabilità oggettiva, con sostanziale esclusione della possibilità di fornire una prova contraria che spezzi il nesso causale tra il fatto (assenza od irregolare tenuta della contabilità) e la conseguenza (fallimento della società ed imputazione dello stato passivo fallimentare).

In quest'ottica, i giudici di legittimità (sentenza n. 9100/2015), nel comporre il contrasto interpretativo sul quale sono stati chiamati a pronunciarsi, hanno anzi tutto correttamente constatato che i doveri imposti dalla legge, dallo statuto e dall'atto costitutivo ad un amministratore sono molteplici, risultando in alcuni casi definiti (ad esempio, rispetto alla tenuta delle scritture contabili ed al divieto di agire in concorrenza sleale) ed in altri, e maggiori casi, non definiti, dipendendo in larga misura dalla circostanza che l'amministratore è preposto alla gestione dell'attività aziendale e pertanto deve compiere con diligenza tutto quanto è necessario perché questa gestione sia corretta.

Di qui, la successiva constatazione per cui è logico parlare di danno, oltre che di nesso tra questo e la condotta amministrativa, soltanto se sia prima chiarito quale sia il comportamento contestato al gestore di un'impresa e quale violazione questo comportamento abbia concretamente integrato, con il conseguente e corretto corollario per cui l'inadempimento di un'obbligazione c.d. di comportamento non può desumersi da qualunque inadempimento, ma soltanto da quello che si ponga in rapporto di efficienza causale o concausale con il danno di cui si chiede la liquidazione.

Su questa base, le Sezioni Unite hanno quindi sindacato se la mancanza di scritture contabili della società, pur se dipendente da una condotta negligente amministrativa, sia da sé sola idonea a consentire che il danno risarcibile vada individuato e liquidato in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l'attivo accertati in ambito fallimentare, dando una risposta sostanzialmente negativa sul presupposto per cui, anche in questo caso specifico, non sarebbe logicamente corretto imputare a titolo risarcitorio quote di perdite patrimoniali che potrebbero essere maturate prima della manifestazione di una situazione di crisi e quote di perdite patrimoniali posteriori che comunque sarebbero insorte anche in caso di immediato arresto dell'attività aziendale.

Conclusioni

Innanzi al principio di diritto statuito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione una curatela non potrà più eccepire, puramente e semplicemente, che l'assenza delle scritture contabili basti, di per sé, ad impedire di riscostruire, attraverso altre fonti, le principali vicende della società fallita, con la conseguenza che il criterio del c.d. patrimonio netto fallimentare possa essere utilizzato soltanto ai fini del liquidazione equitativa del danno, ove ne ricorrano le condizioni e purché siano indicate le ragioni che non hanno permesso l'accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell'amministratore.

E ciò non tanto per ragioni di equità, quanto invece per rispetto dei principi della responsabilità civile, ammettendosi un'inversione dell'onere della prova (che ha ad oggetto la dimostrazione della non imputabilità del deficit fallimentare) soltanto se la mancanza o l'irregolare tenuta delle scritture contabili sia ascrivibile a dolo o colpa dell'amministratore o del sindaco e soltanto se sia plausibilmente sostenibile, in base ad un giudizio presuntivo fondato su elementi gravi, precisi e concordanti da condursi anche attraverso un'attenta analisi delle poste iscritte nello stato passivo fallimentare in termine di causa generatrice e tempo di generazione, che la condotta amministrativa o sindacale sia la causa esclusiva, o quanto meno prima, del dissesto sociale.

In altre parole, l'assenza o l'irregolare tenuta delle scritture contabili non può, da sé sola, far venire meno non solo uno specifico onere d'allegazione in capo a colui che agisce in responsabilità, ma anche e soprattutto il principio della necessità dell'individuazione di un preciso nesso di causalità tra il comportamento illegittimo di cui il soggetto è chiamato a rispondere e le conseguenze che ne siano derivate nella sfera giuridica altrui.

Un diverso automatismo non solo condurrebbe a risultati che empiricamente risultano poco rispondenti all'effettiva realtà dei fatti, ma soprattutto si porrebbe in insanabile contrasto con i principi che regolano la responsabilità civile.

Tutto ciò, naturalmente, non esclude l'applicazione del criterio del “patrimonio netto fallimentare” come criterio di valutazione ai fini del risarcimento del danno in via equitativa (ai sensi dell'art. 1226 c.c.); si impone, però, d'accertare l'effettiva impossibilità di addivenire ad una ricostruzione degli specifici effetti pregiudizievoli procurati al patrimonio sociale dall'illegittimo comportamento degli organi della società, ciascuno distintamente valutato e, comunque, la plausibilità logica nel caso concreto dell'imputazione causale dell'intero sbilancio patrimoniale della società a tale comportamento.

Guida all'approfondimento

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