L’holding persona fisica: responsabilità e fallibilità

Enrico Mugnai
11 Luglio 2016

L'assoggettamento a dichiarazione di fallimento di una holding persona fisica richiede l'accertamento in capo a tale soggetto dei profili paradigmatici dello status di imprenditore individuale (esercizio in proprio dell'attività mediante spendita del nome, economicità della gestione, professionalità e organizzazione imprenditoriale).
Massima

L'assoggettamento a dichiarazione di fallimento di una holding persona fisica richiede l'accertamento in capo a tale soggetto dei profili paradigmatici dello status di imprenditore individuale (esercizio in proprio dell'attività mediante spendita del nome, economicità della gestione, professionalità e organizzazione imprenditoriale). L'esercizio abusivo dell'attività di direzione e coordinamento da parte dell'holder può, tutt'al più, costituire fonte di responsabilità ex art. 2497 c.c., ma non comporta, di per sé, l'assunzione in capo a tale soggetto della qualifica di imprenditore commerciale.

Il caso

Con ricorso presentato ai sensi dell'art. 6 l. fall., la ricorrente chiedeva al Tribunale di voler accertare e dichiarare il fallimento del debitore. A fondamento della propria pretesa, l'istante deduceva:

i) di essere creditrice di parte resistente in forza di un titolo esecutivo (decreto ingiuntivo) emesso dal Tribunale di Bari, per un importo pari ad euro 1.695.550,00;

ii) che il debitore rivestiva la qualifica di holding personale (holder) in quanto soggetto esercente attività di direzione e coordinamento sulle società direttamente o indirettamente controllate;

iii) che la predetta attività era svolta con modalità tali da integrare un'attività di impresa commerciale e che, pertanto, sussistevano i presupposti ex art. 1 l. fall., per l'assoggettabilità a fallimento del debitore.

In particolare, il ricorrente deduceva in via presuntiva lo svolgimento in proprio di un'attività imprenditoriale quale holder da una serie di circostanze indiziarie, rappresentate in sintesi dal fatto che il soggetto nei confronti del quale era richiesta la pronuncia declaratoria del fallimento:

  • deteneva numerose partecipazioni (sia di maggioranza che di minoranza) in società di capitali, nelle quali, tra l'altro, ricopriva diverse cariche operative;
  • aveva posto in essere operazioni anche di notevole rilevanza economica tramite una società controllata;
  • nel procedimento di opposizione al decreto ingiuntivo, aveva “ammesso” che la somma mutuata “gli serviva per proprie operazioni speculative non episodico-occasionali e di ingente valore e per mantenere la fruttuosità dei propri pregressi investimenti”;
  • si serviva di una stabile struttura organizzativa per l'esercizio dell'attività di direzione unitaria; struttura che era ubicata nel luogo ove avevano sede molte delle società allo stesso riconducibili;
  • perseguiva, grazie all'economicità aggiuntiva dovuta all'attività di direzione e coordinamento, un fine di lucro autonomo rispetto a quello implicito nelle singole imprese del gruppo.

La predetta tesi veniva integralmente contesta dal debitore, il quale costituendosi in giudizio deduceva ed eccepiva:

i) di non aver mai svolto attività imprenditoriale e di non essere mai stato iscritto nel Registro delle imprese;

ii) in ogni caso: a) di non aver mai assunto in proprio iniziative di natura imprenditoriale (evidenziando, tra l'altro, che, le operazioni contestate erano state poste in essere dalle società da lui partecipate e che, pertanto, il suo nome compariva non in proprio bensì in qualità di soggetto che ricopriva nelle medesime società cariche operative e di rappresentanza); b) di non aver mai contratto in proprio debiti nello svolgimento di attività imprenditoriali, nemmeno con riferimento al credito di parte ricorrente.

Il Tribunale di Milano, chiamato a decidere sull'istanza, rigettava il ricorso per carenza del requisito soggettivo di cui all'art. 1 l. fall., ritenendo non sufficientemente dimostrata, nel caso di specie, la sussistenza di alcuno dei profili paradigmatici richiesti dalla giurisprudenza di legittimità per l'attribuzione della qualifica di imprenditore commerciale al soggetto, persona fisica, che esercita attività di direzione e coordinamento e, dunque, per la configurabilità di una holding individuale fallibile. In particolare, il Collegio evidenziava, sul piano dell'imputabilità formale, come parte ricorrente si fosse limitata a documentare l'assunzione da parte del convenuto di cariche e partecipazioni in diverse società del “gruppo”, senza però fornire alcuna precisa indicazione in merito agli atti negoziali che lo stesso avrebbe posto in essere in proprio e con spendita del nome. Parimenti, i giudici rilevavano che nessuna indicazione era stata fornita in ordine ai requisiti della professionalità, organizzazione ed economicità della gestione con cui l'holder avrebbe esercitato l'attività di direzione e coordinamento.

Le questioni giuridiche

Con il provvedimento in commento i giudici milanesi hanno preso posizione in merito alla tematica, di notevole interesse pratico-applicativo, oltreché teorico, nell'ambito della disciplina dei gruppi d'imprese, dell'assoggettabilità a fallimento della holding personale.

A questo proposito, il Tribunale adito, ha chiarito, in termini generali, che l'assoggettabilità a fallimento di una holding persona fisica richiede la dimostrazione, oltre che dell'illegittimità dell'esercizio dell'attività di direzione e coordinamento (posta in essere, cioè, in violazione, cioè, dei principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale, v. art. 2497 c.c.), del carattere imprenditoriale di siffatta attività.

In particolare, sul presupposto che il mero esercizio abusivo dell'attività di eterodirezione “non comporta di per sé lo status di imprenditore fallibile dell'holder”, rilevando tutt'al più sul piano meramente risarcitorio (v. art. 2497 c.c.), l'attenzione del collegio giudicante si è concentrata sull'individuazione dei requisiti cui deve ritenersi subordinata l'attribuzione del predetto stato alla holding persona fisica. In questa prospettiva, i giudici milanesi hanno aderito all'orientamento giurisprudenziale largamente prevalente (inaugurato con la celebre pronuncia della Corte di Cassazione, 26 febbraio 1990, n. 1439 nel c.d. “caso Caltagirone” e successivamente accolto dalla giurisprudenza sia di merito che di legittimità), in base al quale acquista la qualifica di imprenditore commerciale, divenendo in quanto tale soggetta alle disposizioni sul fallimento, la holding persona fisica che abbia:

a) esercitato un'attività imprenditoriale in nome proprio e, quindi, un'attività, anche negoziale, con spendita del nome, in cui si sia avvalsa organizzativamente e finanziariamente di vari soggetti imprenditoriali (es. società commerciali), procacciando clienti, negoziando con i creditori, impartendo direttive, influendo sulle scelte gestionali, concedendo incarichi, procurando finanziamenti alle società “del gruppo”, rilasciando fideiussioni personali e recuperando liquidità dalle società distribuendola all'interno del “gruppo”, etc.;

b) svolto questa attività con economicità e con perseguimento dell'utile, volto quest'ultimo sia all'incremento del valore delle proprie partecipazioni nelle società, sia all'incremento della capitalizzazione del gruppo, nonché del patrimonio personale;

c) esercitato questa attività con professionalità e organizzazione imprenditoriale, avvalendosi stabilmente di una struttura, composta eventualmente anche di personale dipendente.

Osservazioni

Il provvedimento in commento offre lo spunto per approfondire alcune rilevanti questioni che si pongono in relazione alla situazione, assolutamente ricorrente nella prassi e più volte fatta oggetto di attenzione da parte della giurisprudenza, in cui al vertice di un gruppo di società sia individuabile un soggetto persona fisica, al quale sia riconducibile un'attività di direzione “unitaria” sulle società medesime.

Rispetto a tale fattispecie astratta, appare opportuno, anzitutto, approfondire, sul piano del diritto societario, se la disciplina dettata in tema di direzione e coordinamento, letteralmente riferibile alle sole “società” o “enti” (cfr. art. 2497 c.c.) risulti, in effetti, applicabile, ed in quali termini, anche alla persona fisica “capogruppo”.

In una diversa prospettiva, occorrerà, quindi, interrogarsi, nell'ambito di un ragionamento più ampio relativo alle forme ed alla tecniche di tutela rispetto a fenomeni di “dominio” ed abuso della personalità giuridica, se ed a quali condizioni la holding persona fisica risulti soggetta alla disciplina del fallimento dell'imprenditore commerciale.

Responsabilità dell'holder

Con riferimento ai profili di diritto societario, non sembra, anzitutto, potersi dubitare che una persona fisica possa esercitare (in maniera professionale e organizzata) l'attività di direzione unitaria di più imprese societarie partecipate e che a tale fattispecie debba riconoscersi “rilevanza” giuridica [cfr. Benedetti, La legittimazione attiva e passiva all'azione risarcitoria ex art. 2497, 1 co., c.c.: conferme giurisprudenziali e spunti di riflessione (nota a Trib. Milano, 20 dicembre 2013) in Riv. dir. comm., 2015, 365 ss.; Valzer, Abuso di eterodirezione e regimi di responsabilità. La recente giurisprudenza del Tribunale di Milano, in corso di pubblicazione; Sbisà, sub art. 2497, commi 1-2, in Commentario alla riforma delle società, diretto da Marchetti-Bianchi-Ghezzi-Notari, Milano, 2012, 70; Prestipino, La responsabilità risarcitoria della persona fisica capogruppo, in Giur. comm., 2011, 180 ss., ove ulteriori riferimenti bibliografici].

Se questo è vero, non altrettanto pacifica è, invece, la questione interpretativa che viene a porsi con riguardo all'individuazione del regime di responsabilità applicabile all'holder in caso di esercizio illegittimo dell'attività di direzione unitaria.

Al riguardo, assume rilievo problematico, in particolare, il tenore letterale del comma 1 dell'art. 2497 c.c., a mente del quale, come noto: “le società o gli enti che, esercitando attività di direzione e coordinamento di società agiscono nell'interesse imprenditoriale proprio o altrui in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società medesime, sono direttamente responsabili nei confronti dei soci di queste per il pregiudizio arrecato alla redditività ed al valore della partecipazione sociale, nonché nei confronti dei creditori sociali per la lesione cagionata all'integrità del patrimonio della società”. Come si vede, infatti, l'incipit della clausola generale di responsabilità in materia di eterodirezione di società fa riferimento, sul piano della legittimazione passiva, alle sole “società” ed “enti” che esercitano attività di direzione e coordinamento; di qui il problema di capire se il mancato riferimento alle persone fisiche sia espressione della volontà del legislatore di escluderle dall'ambito soggettivo di applicazione della norma, ovvero sia piuttosto da ricondurre ad un'esigenza di “economia lessicale” (Giovannini, La responsabilità per attività di direzione e coordinamento nei gruppi di società, Milano, 2007, 189).

A favore della prima conclusione, è stato evidenziato che l'originaria formulazione dell'art. 2497 c.c., imputava la responsabilità da abusivo esercizio di direzione unitaria a “chi” esercitavaa qualunque titolo attività di direzione e coordinamento di società”. L'espunzione del pronome “chi” dalla versione definitiva del primo comma della disposizione in esame, dovrebbe quindi interpretarsi come indice inequivoco della volontà del legislatore di limitare scientemente l'ambito di operatività della norma ai soli soggetti giuridici collettivi, con esclusione quindi delle persone fisiche (nel senso indicato, cfr., ad esempio, Dal Soglio, sub art. 2497, in Il nuovo diritto delle società, a cura diMaffei Alberti, Padova, 2005, 2329; Montalenti, I gruppi di società, in Aa.Vv., Le società per azioni, in Trattato di diritto commerciale, diretto da Cottino, Padova, 2010, 1041 s.; Galgano, sub art. 2497, in Direzione e coordinamento di società, Commentario al Codice Civile Scialoja-Branca-Galgano, Bologna, 2014, 63). Conclusione, quest'ultima, in favore della quale deporrebbero una serie di ulteriori dati normativi, evidenziando parte della dottrina che:

  • il decreto correttivo (D.Lgs. n. 37/2004) ha sostituito l'espressione “società o enti” al generico riferimento a “chi esercita attività di direzione e coordinamento” in tutte le norme del capo IX in cui quest'ultimo era rimasto;
  • con una norma di interpretazione autentica (contenuta nell'art. 19, comma 6, D.L. n. 78/2009), il Legislatore ha specificato che, all'art. 2497, comma 1, c.c., per “enti” devono intendersi “soggetti giuridici collettivi, diversi dallo Stato, che detengono la partecipazione sociale nell'ambito della propria attività imprenditoriale ovvero per finalità di natura economica o finanziaria”, vanificando così ogni tentativo di ricondurre la nozione di “persona fisica” entro quella di “ente”.

Fermo quanto precede, per gli interpreti che aderiscono alla tesi “restrittiva” sopra esposta, rimane il problema di individuare il diverso titolo in base al quale ricostruire la responsabilità della persona fisica che, nell'esercizio della direzione unitaria, abbia arrecato un pregiudizio ai soci e/o ai creditori delle società eterodirette. In dottrina sono state prospettate, in particolare, due possibili soluzioni:

  1. secondo un primo orientamento l'azione esperibile nei confronti dell'holder persona fisica sarebbe “un'azione di diritto comune, basata sull'art. 2043 c.c.” (Galgano, Il nuovo diritto societario, in Trattato di dir. comm. e dir. pubb. dell'econ., diretto da F. Galgano, Padova, 2003, 169 s.; Id., I gruppi nella riforma delle società di capitali, in Contr. imp., 2002, 1021; Sbisà, sub art. 2497, commi 1-2, in Direzione e coordinamento di società, Commentario alla riforma delle società, diretto da Marchetti-Bianchi-Ghezzi-Notari, Milano, 2012, 70; Cottino, Diritto societario, a cura di Cagnasso, Padova, 2011, 722. Contra: Benedetti, La legittimazione, cit., 371 ss.). Siffatta soluzione è stata, tuttavia, criticata alla luce della disparità di trattamento che verrebbe a configurarsi tra soci e/o creditori danneggiati dal comportamento della holding personale e soci e/o creditori danneggiati dall'identica attività posta in essere da un soggetto giuridico collettivo (società o ente). In particolare, posta la preferibile ricostruzione in termini contrattuali della natura della responsabilità ex art. 2497 c.c., è stato sostenuto che, aderendo a siffatto orientamento, i soci e/o i creditori che agissero contro la società (o ente) capogruppo risulterebbero notevolmente agevolati, sul piano dell'onere probatorio, rispetto ai corrispondenti soggetti danneggiati dal medesimo comportamento della holding personale, i quali si troverebbero nella ben più gravosa situazione di dover dimostrare la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della responsabilità ex art. 2043, c.c. per poter ottenere il ristoro del pregiudizio subìto (in favore della ricostruzione in termini “contrattuali” della responsabilità da abuso di direzione e coordinamento, cfr. Pavone La Rosa, Nuovi profili della disciplina dei gruppi societari, in Riv. soc., 2003, 770; Sacchi, Sulla responsabilità da direzione e coordinamento nella riforma delle società di capitali, in Giur. comm., 2003, I, 670-671; G. Scognamiglio, Poteri e doveri degli amministratori nei gruppi di società dopo la riforma del 2003, in Profili e problemi dell'amministrazione nella riforma delle società, a cura di G. Scognamiglio, 195; Abbadessa, La responsabilità della società capogruppo verso la società abusata: spunti di riflessione, in Banca, borsa, tit. cred., 2008, I, 283; Montalenti, I gruppi di società, in Trattato di diritto commerciale, diretto da Cottino, IV, I, Le società per azioni, 1065; Tombari, Diritto dei gruppi di imprese, cit., 36; Benedetti, La responsabilità da etero direzione abusiva della capogruppo. Natura contrattuale o aquiliana? Eventuale carattere sussidiario?, in Giur. comm., 2013, II, 523 e ss.; Rescigno, Eterogestione e responsabilità nella riforma societaria fra aperture ed incertezze: una prima riflessione, in Società, 2003, 335. Nella giurisprudenza recente, cfr. Trib. Milano, 7 maggio 2014; Trib. Milano 17 giugno 2011; Trib. Milano, 25 luglio 2008; Trib. Milano, 13 febbraio 2008).
  2. secondo un'altra tesi, invece, la responsabilità della holding persona fisica andrebbe ricostruita ed accertata non già sulla base del primo, ma del secondo comma dell'art. 2497 c.c., a mente del quale risponde solidalmente con la capogruppo chi ha “comunque preso parte al fatto lesivo” e, nei limiti del vantaggio conseguito, “chi ne abbia consapevolmente tratto beneficio” (cfr., in luogo di molti, Galgano, sub art. 2497, cit., 63 s.; Cottino, op. cit., 722; Sacchi, Sulla responsabilità da direzione e coordinamento nella riforma delle società di capitali, in Giur. comm., 2003, I, 661; Dal Soglio, op. cit., 2329 s.).

Al riguardo, è stato però fatto correttamente notare, in senso critico, che la responsabilità solidale di cui al secondo comma dell'art. 2497 c.c., per poter operare, presuppone “che vi sia già a monte una società o un ente responsabile a cui va ad aggiungersi, in via sussidiaria, la responsabilità solidale dell'obbligato” (Giovannini, op. cit., 190), per cui laddove non fosse possibile imputare ad alcun soggetto la responsabilità “diretta” da abusivo esercizio di direzione e coordinamento ai sensi dell'art. 2497, comma 1, verrebbe a mancare il presupposto primo ed irrinunciabile della fattispecie di responsabilità da “concorso” prevista e disciplinata dall'art. 2497, comma 2, c.c. (in questo senso si veda, ad esempio, Benedetti, La legittimazione, cit., 367 ss.; Giovannini, op. cit., 187 ss.; Badini Confalonieri, sub art. 2497, in Il nuovo diritto societario, Commentario diretto da Cottino, Bonfante, Cagnasso, Montalenti, Bologna, 2004, 2167 s. Contraria a riconoscere all'art. 2497, secondo comma, c.c. la portata di norma fondante la responsabilità della holding capogruppo, seppur con differenti motivazioni, Scognamiglio, sub art. 2497, in Commentario del codice civile, a cura di Santosuosso, Torino, 2015, 1137 s.; Id, “Clausole generali”, principi di diritto e disciplina dei gruppi di società, in Riv. dir. priv., 2011, 547).

Peraltro, come è stato opportunamente evidenziato (Benedetti, La legittimazione, cit., 368 s.), nel caso di gruppi di società eterodirette da una persona fisica, l'imputazione della responsabilità principale ad un ente collettivo ai sensi del comma 1 dell'art. 2497, potrebbe avvenire in ipotesi limitate. In questi casi, infatti, la holding personale potrebbe rispondere a titolo di concorso soltanto nelle ipotesi in cui vi sia: a) una sub-holding dalla medesima eterodiretta, che eserciti, a sua volta, un proprio potere di direzione strategica verso le società subordinate; b) un ente collettivo non controllato dall'holder, che risulti contitolare con quest'ultimo dell'attività congiunta di direzione e coordinamento.

Qualora, viceversa, non sia possibile imputare la responsabilità principale ad un ente collettivo [come, ad esempio, nel caso dei gruppi c.d. a raggiera nei quali le società eterodirette dal socio di controllo persona fisica non instaurano tra loro, almeno di regola, reciproci rapporti di direzione-dipendenza e, pertanto, “non solo manca un soggetto societario che eserciti attività di direzione e coordinamento, ma manca persino (…) una società che possa considerarsi posta (anche solo apparentemente) in una posizione sovraordinata rispetto alle altre” (Prestipino, op. cit., 114)], la responsabilità da concorso ex art. 2497, comma 2, c.c., non potrebbe operare, con la conseguenza che, salvo configurare una responsabilità di tipo aquiliano sulla base dell'opzione interpretativa indicata sub i), resterebbe privo di sanzione il comportamento dell'holder che abbia illegittimamente esercitato l'attività di eterodirezione.

In considerazione, tra l'altro, dei rilievi critici sopra sinteticamente richiamati, in dottrina trova, quindi, ampio e condivisibile accoglimento il diverso orientamento favorevole ad applicare analogicamente alle persone fisiche capogruppo il disposto normativo di cui all'art. 2497, comma 1, c.c., sulla base di un'interpretazione costituzionalmente orientata del complesso normativo di cui trattasi. A sostegno di questo indirizzo, confermato anche da alcune pronunce di merito (nel senso dell'applicabilità dell'art. 2497 c.c. alla persona fisica, cfr. Trib. Milano, 7 maggio 2014, ord.; Trib. Milano, 20 dicembre 2013, ord.; Trib. Venezia, 11 ottobre 2012; Trib. Roma, 21 novembre 2011), sono state, in particolare, addotte differenti motivazioni:

  • secondo alcuni autori l'esclusione della holding persona fisica dall'ambito soggettivo di applicazione dell'art. 2497, comma 1, c.c., si porrebbe in contrasto con il principio di uguaglianza e con il diritto d'azione (artt. 3 e 24 Cost.), i quali devono essere riconosciuti e garantiti tanto ai soci e/o creditori delle società soggette alla direzione unitaria esercitata dalla persona fisica quanto a quelli delle società soggette all'eterodirezione di un soggetto collettivo. In particolare, sotto questo profilo, è stato osservato come “una lettura costituzionalmente orientata della normativa conduca a rigettare l'ingiustificata disparità di trattamento che, a fronte del medesimo fenomeno e della medesima attività dannosa, investirebbe i soci e i creditori delle società eterodirette da unapersona fisica rispetto a quelli di società dirette da un ente a struttura societaria o associativa” (in questi termini v. Valzer, op. cit., in corso di pubblicazione). Qualora, infatti, si limitasse ai soli soci e/o creditori delle società soggette all'attività di direzione e coordinamento esercitata da un soggetto collettivo la possibilità di agire ex art. 2497, comma 1, c.c., contro la capogruppo, verrebbe a configurarsi una violazione del principio di parità di accesso alla tutela giurisdizionale espresso dall'art. 24 Cost. rispetto ai soci e/o creditori danneggiati dal comportamento della holding personale, ai quali, invece, tale possibilità non sarebbe riconosciuta (sul punto, cfr. Benedetti, La legittimazione, cit., 374 s. In giurisprudenza, cfr. Trib. Milano, 20 dicembre 2013, ord.).
  • altri autori, invece, sul presupposto che l'art. 2497, comma 1, c.c., disciplini, anzitutto, un'attività, intesa come legittima esplicazione dell'iniziativa economica privata (art. 41 Cost., cfr., su tutti, Pavone La Rosa, op. cit., 766), considerano tendenzialmente irrilevanti, ai fini dell'applicazione della disciplina di cui agli artt. 2497 e ss., c.c., le caratteristiche soggettive del “centro di imputazione” di siffatta attività. Pertanto, laddove una persona fisica abbia organizzato la propria influenza su una pluralità di società partecipate, in modo da farle assumere la consistenza di una vera e propria attività di direzione e coordinamento delle stesse, dovranno - e non potranno che - applicarsi le medesime “(…) regole di comportamento e di responsabilità per i danni arrecati (…)”, previste e disciplinate per la holding collettiva (in questo senso cfr., ad esempio Scognamiglio, sub art. 2497, in Commentario del codice civile, cit., 1138).

Fallibilità della holding persona fisica

Tanto chiarito con riferimento all'ambito soggettivo di applicazione dell'art. 2497 c.c., sembra corretto introdurre ed inquadrare l'ulteriore e connessa tematica della fallibilità della holding persona fisica, muovendo dalla considerazione, di carattere, per così dire, preliminare, per cui, nel nostro ordinamento, non può ritenersi sussistente una responsabilità patrimoniale, di carattere principale o sussidiario, della società o dell'ente capogruppo per i debiti delle società soggette a direzione e coordinamento, fondata sull'unico presupposto dell'appartenenza di quest'ultime al “gruppo” (in giurisprudenza, v., da ultimo, Cass. Civ, 12 giugno 2015, n. 12254, in questo portale, con nota di Mugnai-Cellini, Responsabilità della capogruppo per l'insolvenza delle società eterodirette).

In termini generali, risulta, infatti, pacifico che, pur in presenza di attività di direzione e coordinamento, le società del gruppo continuino a rappresentare centri autonomi di imputazione di rapporti giuridici, con la conseguenza che ciascuna delle predette società “è, di fronte ai terzi, un soggetto di diritto distinto da ogni altra società del medesimo gruppo, ciascuna responsabile dei debiti da essa assunti, non responsabile dei debiti assunti dalle altre società, che per esse sono, giuridicamente, debiti altrui” (in tal senso, si veda, in luogo di molti, Galgano, in Direzione e coordinamento di società, cit., 4).

Tale principio, peraltro, trova piena applicazione, anche con riguardo alla società (o all'ente) che esercita attività di direzione e coordinamento. Pertanto, sempre in termini generali, anche la holding capogruppo, sia essa società od ente, deve considerarsi “terza rispetto ai rapporti giuridici che le società controllate abbiano posto in essere; sicché coloro che abbiano acquistato ragioni di credito nei loro confronti non hanno titolo per invocare la responsabilità patrimoniale della capogruppo” (in tal senso, si veda sempre Galgano, in Direzione e coordinamento di società, cit., 4). Ed in questo senso, la Corte di Cassazione ha chiarito che la partecipazione di una società ad un contesto organizzativo, finanziario e commerciale (quale, tipicamente, un gruppo di imprese) “non ne annulla tuttavia le capacità economiche e reddituali e la conseguente attitudine a far fronte regolarmente alle proprie obbligazioni” (in tal senso, cfr. Cass. 21 aprile 2011, n. 9260; Cass. 18 novembre 2010, n. 23344; App. Napoli, 1 agosto 2014, con nota di Angiolini, in Fall., 6, 2015, 677 ss.).

Il quadro sopra descritto, per quanto più interessa, non sembra, in termini generali ed astratti, destinato a mutare neppure allorquando, la società eterodiretta sia sottoposta ad una procedura concorsuale: anche in tale ipotesi, infatti, secondo un orientamento assolutamente pacifico, sia in dottrina che in giurisprudenza, la società continua a rappresentare una distinta massa patrimoniale rispetto alle altre società del gruppo e, di conseguenza, la capogruppo non risponde delle obbligazioni della società “dipendente” soggetta a procedura (v. Galgano, Direzione e coordinamento di società, cit., 74).

Ciò premesso, è noto come parte della giurisprudenza, da ben prima della riforma societaria e dell'introduzione del corpus normativo di cui agli artt. 2497 e ss., sia sovente ricorsa, in sede fallimentare, a tecniche di “reazione” finalizzate a sanzionare i fenomeni di “abuso delle personalità giuridica” da parte di holders/domini persone fisiche, attraverso il coinvolgimento patrimoniale diretto e/o indiretto di quest'ultimi nel fallimento delle società eterodirette/dominate.

Se questo è vero, alla luce della riforma del diritto societario e delle modifiche apportate alla legge fallimentare, è possibile e opportuno distinguere, all'interno del formante giurisprudenziale, tra due diverse impostazioni, ispirate a schemi e modelli di responsabilità distinti e non sovrapponibili: da un lato, sul presupposto della responsabilità patrimoniale in estensione ex art. 147 l. fall., si inscrivono le pronunce in tema di c.d. “super società di fatto”, ove, per quanto qui interessa, il fallimento dell'holder consegue quale effetto del fallimento della società di fatto ed occulta che si assume essere partecipata dalla società di capitali eterodiretta fallita; dall'altro, si collocano le pronunce ove, invece, il risultato perseguito è quello di attribuire la qualità di imprenditore commerciale all'holder, al fine di poterne dichiarare il separato fallimento individuale e creare il presupposto per il suo coinvolgimento patrimoniale “indiretto” mediante il successivo esperimento di azioni di carattere risarcitorio da parte del curatore della società dominata (in questo senso, cfr. Fimmanò, Supersocietà di fatto ed estensione di fallimento alle società eterodirette, in ilcaso.it, 2016, 8 ss.; Rondinone, Tecniche di coinvolgimento di domini e holders nel fallimento delle imprese etero dirette e “superamento” della spendita del nome, in Riv. Soc., 2015, 1076).

La sentenza in commento si colloca chiaramente in questo secondo indirizzo, il quale, in assoluta coerenza con il sistema disciplinato dall'art. 2497 c.c., prevede il coinvolgimento dell'holder sulla base di una responsabilità esclusivamente risarcitoria, non dando luogo a forme surrettizie di responsabilità per i debiti della società eterodiretta fallita.

Come correttamente osservato (Giovannini, op. cit., 203 ss.), il procedimento logico alla base della pronuncia che si annota appare articolato nei seguenti passaggi fondamentali:

i) preliminare definizione della nozione di holding, pura o mista, attraverso il riferimento alla nozione di attività di direzione unitaria (in argomento cfr. Giovannini, op. cit.; 203; Rondinone, op. cit., 1077, ove ulteriori riferimenti);

ii) qualificazione della holding come impresa commerciale (come tale soggetta al fallimento; cfr., tra i tanti, con diversità di argomentazioni, Galgano, Diritto commerciale. L'imprenditore, Bologna, 2013, 44 ss.; Campobasso, Diritto commerciale. Diritto dell'impresa, 1, Torino, 2013, 26 s.; Ferrara-Corsi, Gli imprenditori e le società, Milano, 1999, 33 s.; Vella, Le società holding, Milano, 1993, 156 ss. In argomento si veda, inoltre, Giovannini, op. cit., 204 per ulteriori riferimenti. In senso tendenzialmente contrario alla possibilità di qualificare in termini di imprenditorialità l'attività di holding, v. Rondinone, op. cit., 1109 e ss.);

iii) configurabilità della holding persona fisica (v. supra sub A);

iv) individuazione dei requisiti che l'attività della holding persona fisica deve possedere per acquistare il carattere dell'imprenditorialità (sulla base di una valutazione che presuppone ma non si esaurisce nella dimostrazione dell'esercizio dell'attività di direzione e coordinamento; cfr. Scognamiglio, sub art. 2497, cit., 1140): professionalità, organizzazione, spendita del nome ed economicità.

In questa prospettiva, l'aspetto maggiormente problematico riguarda sicuramente l'individuazione dei requisiti che devono sussistere per poter attribuire alla persona fisica che esercita attività di direzione e coordinamento la qualifica di imprenditore commerciale, quale presupposto soggettivo necessario per l'assoggettabilità a fallimento, ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 1 l. fall.

Sul punto, il Tribunale di Milano, con il provvedimento che si annota, mostra di aderire al consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale la holding individuale, sia essa pura (ossia di sola gestione del gruppo) ovvero operativa (avente cioè natura pure ausiliaria o finanziaria), assume la qualifica di imprenditore commerciale (fallibile), qualora abbia esercitato l'attività di direzione e coordinamento:

i) in nome proprio, ad esempio tramite un'attività, anche negoziale, con spendita del nome, in cui si sia avvalsa organizzativamente e finanziariamente di vari soggetti imprenditoriali (es. società commerciali), procacciando clienti, negoziando con i creditori, impartendo direttive, influendo sulle scelte gestionali, concedendo incarichi, procurando finanziamenti alle società “del gruppo”, rilasciando fideiussioni personali e recuperando liquidità dalle società distribuendola all'interno del “gruppo”, etc.;

ii) mediante un'organizzazione imprenditoriale distinta ed autonoma rispetto a quella delle società controllate;

iii) in materia professionale, cioè in modo abituale e non occasionale;

iv) perseguendo un'economicità aggiuntiva o, comunque, un incremento economico per il gruppo e le sue componenti collegabile alla predetta attività (in questi termini, per la prima volta, Cass., 26 febbraio 1990, n. 1439, in Riv. dir. comm., 1991, II, 515, con nota di Libonati, Partecipazione in società ed esercizio di attività economica in forma d'impresa. Conformi, nella successiva giurisprudenza di legittimità: Cass., 18 novembre 2010, n. 23344; Cass., Sez. Un., 29 novembre 2006, n. 25275; Cass., 13 marzo 2003, n. 3724, in Giur. it., 2004, 562, con nota di Weigmann; Cass., 9 agosto 2002, n. 12113, in Fall., 2003, 6, 609 ss. Nella giurisprudenza di merito recente, Trib. Pordenone, 13 giugno 2014; Trib. Roma, 19 dicembre 2012; App. Milano, 17 luglio 2008, decr., in Fall., 2, 2009, 169 ss., con nota critica di Penta, La fallibilità dell'holder persona fisica; Trib. Napoli, 8 gennaio 2007, sebbene la fattispecie riguardi il fallimento di una holding di fatto tra persone fisiche; App. Bologna, 23 maggio 2007, in Soc., 2008, 316 ss., con nota di Angiolini; Trib. Genova, 26 settembre 2005, decr., in Fall., 2006, 4, 424 ss., con nota di Blatti-Minutoli, Il fallimento della holding personale tra nuovo diritto societario e riforma della legge fallimentare).

A fronte di tale impostazione “tradizionale”, inaugurata dal richiamato arresto della Suprema Corte del 1990 ed espressamente ripresa dalla pronuncia in commento, occorre, tuttavia, dare evidenza di come parte della giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, abbia progressivamente mostrato di intendere in modo meno rigoroso i requisiti ex art. 2082 c.c. richiesti per l'accertamento in capo all'holder della qualifica di imprenditore commerciale, ritenendo, in particolare, non strettamente necessaria la spendita del nome dell'holder (cfr., con diversità di argomentazioni, App. Napoli, 1 agosto 2014; Trib. Milano, 11 aprile 2011, in Fall., 10, 2011, 1229 ss., con nota di Menti, Fallisce un'altra holding personale: anzi no, è un noto imprenditore occulto; Trib. Ancona, 10 agosto 2009 e App. Ancona, 5 marzo 2010, in Giur. comm., 2011, II, 633 ss. e 643 ss., con nota di Prestipino, Brevi osservazioni sulla fallibilità della holding individuale; Trib. Vicenza, 23 novembre 2006, in Fall., 2007, 4, 415 ss., con nota di Fimmanò, Dal socio tiranno al dominus abusivo; Trib. Padova, 2 novembre 2001, in Soc., 2002, 5, 583 ss., con nota di Porcari; Trib. Messina, 8 aprile 1999; App. Catania, 18 gennaio 1997, ord., in Fall., 1997, 6, 625 ss., con nota di Lo Sinno, Holding personale e fallimento; Trib. Messina, 15 febbraio 1996. Nella giurisprudenza di legittimità v. Cass., 18 novembre 2010, n. 23344. Meno netta la posizione assunta di recente dal Trib. Torre Annunziata, 18 marzo 2013, secondo cui “l'elemento della spendita del nome non deve estrinsecarsi necessariamente nel compimento di atti negoziali in nome proprio da parte dell'imprenditore-holder, ma impone semplicemente la esternazione da parte di quest'ultimo del suo ruolo di dominus”).

Con riferimento a tale ultimo profilo, è stato infatti evidenziato che non tutte le tipologie di holding si prestano all'esercizio di un'attività di tipo negoziale, per così dire, “esteriorizzata” rispetto al gruppo. In questo senso è stato osservato che, quantomeno con riferimento all'attività direttiva tipica della holding, il requisito della spendita del nome “è pressoché impossibile a verificarsi, e finisce anzi col contraddire la premessa teorica dell'imputazione d'impresa in forza dell'esercizio mediato di essa, il quale per definizione non può implicare la spendita del nome negli atti che la compongono, visto che questi sono strutturalmente posti in essere in nome delle società controllate. Dalla definizione dell'art. 2082 codice civile non emerge del resto in alcun modo che l'attività imprenditrice debba necessariamente essere dedotta su un piano negoziale ai fini dell'assunzione della qualità di imprenditore da parte del soggetto che la esercita (…)” (Trib. Messina, 15 febbraio 1996, ma, nel senso indicato, v. anche Trib. Padova, 2 novembre 2001; Trib. Messina, 8 aprile 1999 e App. Catania, 18 gennaio 1997).

Sul presupposto, tra l'altro, che un holder “avveduto” difficilmente spenderebbe il proprio nome nell'esercizio dell'attività di direzione unitaria, assumendo così il rischio di perdere il “beneficio” dell'esenzione da fallimento, è stato dunque affermato il principio per cui, ai fini dell'attribuzione della qualifica di imprenditore (e, quindi, dell'assoggettabilità a fallimento) alla holding personale, “ciò che rileva non è l'imputazione diretta od indiretta degli atti di impresa al dominus, ma il dato fattuale, o giuridico, del governo della condotta unitaria (in questi termini Trib. Ancona, 10 agosto 2009; in dottrina, cfr. Rondinone, op. cit., passim, secondo il quale la spendita del nome deve considerarsi lo strumento necessario per l'imputazione degli effetti volontari degli atti giuridici e, dunque, per l'assunzione delle obbligazioni, mentre è irrilevante ai fini dell'imputazione dell'attività anche di impresa e correlativamente degli effetti eteronomi correlati al suo esercizio, ad esempio, l'assoggettamento allo statuto dell'imprenditore commerciale).

Per quanto attiene, poi, agli ulteriori requisiti prescritti dall'art. 2082 c.c., occorre altresì dare conto di orientamenti giurisprudenziali favorevoli ad accogliere nozioni, per così dire, “attenuate” dei medesimi. In questa prospettiva, rispettivamente con riferimento ai profili dell' “autonoma organizzazione” e dell'“economicità”, è stato, in particolare, statuito che:

  • il carattere tipico dell'attività di direzione e coordinamento (ossia unicamente l'imposizione di direttive alle società del gruppo) non richiede l'utilizzo di strutture particolarmente complesse, ben potendo invece, siffatta attività, essere svolta anche mediante un'organizzazione “semplice e rudimentale” (in questo senso, v. Trib. Torre Annunziata, 18 marzo 2013. Analogamente cfr. Trib. Padova, 2 novembre 2001, secondo cui “nella holding pura, l'imprenditore holder si avvale senza intermediazioni dei mezzi costituiti dalle imprese da lui dirette e coordinate, trattandosi di impresa mediata, e senza che gli serva, in certi casi estremi, più di che un telefono cellulare”; Trib. Messina, 8 aprile 1999, secondo cui il requisito dell'organizzazione risulta integrato anche solo fornendo la dimostrazione che l'holder si è avvalso di “un luogo fisico ove prendere le decisioni relative al coordinamento delle attività gestite, mentre per le attività finanziarie, oggi, sarebbe addirittura sufficiente un computer che consenta l'accesso ai servizi detti di home banking, forniti dalla maggior parte degli istituti di credito”; App. Catania, 18 gennaio 1997);
  • ai fini dell'attribuzione all'holder della qualifica di imprenditore, non è necessaria la dimostrazione del perseguimento di un risultato economico ulteriore rispetto a quello delle singole componenti del gruppo. A sostegno di questa conclusione, è stato osservato che lo scopo di lucro perseguito dall'holder tramite l'esercizio dell'attività di direzione e coordinamento “può coincidere, nei fatti, con lo scopo di lucro delle singole società, indirettamente ridondante negli effetti (positivi e negativi) nel patrimonio dell'imprenditore holder” (in questi termini, cfr. Trib. Padova, 2 novembre 2001, con nota di Porcari. Nello stesso senso sembra deporre anche Trib. Milano, 11 aprile 2011, nella parte in cui considera quali strumenti utilizzati dall'holder per l'esercizio dell'attività di direzione e coordinamento alcune società “che egli ha ammesso […] essere state da lui create ed essere a lui riferibili”).

Tanto precisato con riferimento alla ricostruzione giuridica approfondita dalla sentenza in commento, merita da ultimo ricordare come il tema della fallibilità dell'holder, secondo quanto sopra anticipato, è stato spesso affrontato e “declinato” dalla giurisprudenza nella diversa prospettiva della c.d. “super società di fatto”, ove l'abuso dello schermo della personalità giuridica da parte del socio viene ad essere sanzionato, sul piano fallimentare, attraverso l'individuazione di un'impresa societaria comune (di fatto o occulta) tra la società di capitali già dichiarata fallita e l'holder di quest'ultima (sul punto v., Cass., 13 giugno 2016, n. 12120; Cass., 21 gennaio 2016, n. 1095. Per alcuni riferimenti alla giurisprudenza di merito che ha aderito a tale indirizzo, v. Trib. Milano, 28 marzo 2013; Trib. Salerno, 11 giugno 2012, decr.; Trib. Venezia 12 ottobre 2012; Trib. Vibo Valentia, 10 giugno 2011).

Al riguardo, occorre evidenziare come la possibilità di procedere alla dichiarazione di fallimento in estensione dell'holder, ai sensi del combinato disposto dell'art. 147, commi 1 e 5, l. fall., quale socio illimitatamente responsabile della c.d. “supersocietà”, si presta a molteplici obiezioni sia alla luce del diritto societario che della disciplina fallimentare (sul punto v. esaustivamente, Rondinone, op. cit., 1046 ss.; Fimmanò, Supersocietà di fatto, cit., passim, ove ulteriori riferimenti in dottrina e giurisprudenza).

La tematica è estremamente complessa ed esula dal presente approfondimento. Nell'ottica, tuttavia, di chiarire il rapporto tra la predetta ricostruzione e la fattispecie di responsabilità prevista e disciplinata dall'art. 2497 c.c., sembra opportuno evidenziare come l'eventuale estensione del fallimento della c.d. “supersocietà” all'holder presuppone in ogni caso la configurazione ed il rigoroso accertamento dei parametri organizzativi ed essenziali del contratto di società tra quest'ultimo e la società “palese” cui sia formalmente riconducibile l'attività di impresa (v., Cass., 13 giugno 2016, n. 12120).

Se questo è vero, appare legittimo dubitare che siffatta “configurazione fallimentare della responsabilità” (v., in questi termini, Cass., 13 giugno 2016, n. 12120) possa ricorrere ed essere utilizzata quale strumento di tutela e di sanzione rispetto a fenomeni di abuso riconducibili allo schema dell'art. 2497 c.c.

Secondo quanto condivisibilmente osservato, infatti, l'abuso dell'attività di eterodirezione in danno della società partecipata, ponendosi per definizione in conflitto con l'interesse sociale di quest'ultima, sembra escludere - anche astrattamente - la sussistenza dell'affectio societatis tra la persona giuridica medesima ed il suo socio, ossia la configurabilità di un vincolo societario tra i due basato sul perseguimento di un interesse comune (in questi termini, v., Fimmanò, Supersocietà di fatto, cit., 33 ss. In argomento, cfr. Rondinone, op. cit., 1045 ss., ove ulteriori riferimenti bibliografici; Dell'Osso, Periclitanti discrimina: tra società di fatto (tra società di capitali e persone fisiche), società apparente ed holding individuale, in Banca, borsa, tit. cred., 2013, 468 ss.; Cavalli, I presupposti del fallimento, in Il fallimento, Trattato di diritto commerciale, diretto da Cottino, Padova, 2009, 103 ss.; Di Sabato, Diritto delle società, Milano, 2011, 77 ss.).

In altri termini, si ritiene che, ove anche si ritenga fondata la ricostruzione giuridica posta alla base delle pronunce in tema di c.d. “supersocietà”, lo strumento di diritto fallimentare dalle stesse individuato presupponga ed abbia a riferimento fattispecie (necessariamente) diverse da quelle in cui sia dato riscontrare la sussistenza dei presupposti della fattispecie di responsabilità di cui all'art. 2497 c.c.

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