La disciplina delle società di comodo al banco di prova

19 Novembre 2014

Tra i temi caldi al vaglio d'attuazione della Delega Fiscale, vi è anche l'attuale disciplina delle società non operative che, a vent'anni dal suo ingresso nell'ordinamento italiano, appare complicata, poco chiara, soprattutto in una congiuntura economica che acuizza le distonie create dal Legislatore in ambito fiscale. L'approfondimento propone un'analisi della disciplina delle società di comodo incentrata su alcuni punti oscuri che un Fisco “vivente” non può più trascurare.

Tra i temi al vaglio d'attuazione della delega fiscale c'è anche l'attuale disciplina delle società non operative, che è da oltre venti anni presente nel nostro ordinamento.

Quella sulle società di comodo è una norma che è nata con dei “difetti genetici” che il tempo non ha cancellato ma anzi ha fatto emergere in modo sempre più evidente, sottolineando l'inadeguatezza della stessa rispetto alle finalità che avevano spinto il legislatore a concepirla e rispetto all'evoluzione che nel frattempo ha avuto la normativa sul reddito di impresa.

Spesso le norme tributarie possono essere di non facile applicazione a causa di tecnicismi di calcolo più o meno sofisticati, mentre altre volte, a questa difficoltà se ne aggiunge un'altra legata alla mancata chiarezza dell'ambito di applicazione della stessa e delle fattispecie che con essa il legislatore vuole disciplinare.

Con la norma sulle società di comodo, ci troviamo di fronte proprio a quest'ultimo tipo di difficoltà: l'applicazione di una norma nel cui testo non sono esplicitate le finalità con essa perseguite dal legislatore e che, tra l'altro, ha subito nel tempo un cambiamento genetico che ha fatto perdere di vista l'obiettivo che il legislatore voleva raggiungere con la sua introduzione nel nostro ordinamento, stando a quanto si legge nella relazione di accompagnamento.

La legge, nata 20 anni fa, considerava originariamente di comodo le società con meno di cinque dipendenti e proventi inferiori a 800 milioni di lire; successivamente, dal 1996 ad oggi, la legge qualifica di comodo le società i cui ricavi e proventi risultano essere inferiori ad un importo calcolato applicando dei coefficienti all'importo degli asset della società iscritti nell'attivo dello stato patrimoniale, o comunque dalla stessa utilizzati.

La Relazione di accompagnamento alla legge di modifica del ‘96 precisa che la norma vuole colpire l'uso improprio della struttura societaria, impiegata per consentire l'anonimato degli effettivi proprietari dei beni ad essa intestati e la deduzione di costi che hanno poco a che fare con l'attività di impresa.

L'obiettivo del Legislatore sostanzialmente era quindi colpire quei fenomeni in cui la struttura societaria veniva creata per intestarle dei beni che, in effetti venivano utilizzati per finalità estranee all'esercizio di un'attività di impresa, ovvero, per colpire quelle società che, pur avendo accumulato utili distribuibili, invece di distribuire dividendi tassabili in capo ai soci, effettuano direttamente gli acquisti di quei beni (tipicamente imbarcazioni, autovetture, case o altri beni suscettibili di un utilizzo privato da parte dei soci) che alla fine utilizzano i soci, generando così un salto d'imposta.

Tuttavia per perseguire l'obiettivo sopra sintetizzato, il Legislatore ha definito criteri selettivi meramente quantitativi e non qualitativi, che non sono idonei ad individuare le fattispecie che il legislatore avrebbe dovuto colpire, andando a penalizzare ingiustamente situazioni che nulla hanno a che fare con intestazioni di comodo di beni a società, o utilizzo di beni da parte delle stesse per finalità extra imprenditoriali.

Si definiscono infatti di "comodo" tutte le società commerciali (di persone e di capitali) che non superano il test di operatività così come descritto dall'art. 30, Legge n. 724/1994, e cioè le società i cui ricavi e proventi risultano essere inferiori ad un importo calcolato applicando dei coefficienti all'importo degli asset della società iscritti nell'attivo dello stato patrimoniale, o comunque dalla stessa utilizzati.

Gli effetti che ne derivano sono particolarmente penalizzanti:

• l'aliquota IRES passa dal 27,5% al 38% e viene calcolata su una base imponibile teorica;

• viene inibita la possibilità di eseguire compensazioni orizzontali con il credito IVA;

• viene inibita la possibilità di chiedere il rimborso dell'IVA a credito;

• l'IVA sugli acquisti può risultare indetraibile;

• l'IRAP è applicata su una base imponibile teorica.

Con il meccanismo di calcolo stabilito per individuare le cosiddette società di comodo, questa disciplina viene ad essere applicata anche a quelle società che, per altri motivi, non legati ad un uso improprio dei beni da esse posseduti, non riescono a raggiungere l'importo minimo dei ricavi e proventi conseguiti.

Il numero di queste società che si trovano, loro malgrado, a subire ingiustamente la disciplina restrittiva delle società di comodo, è cresciuto sempre di più negli ultimi tempi con il persistere della grave crisi economica che sta attanagliando da ormai da più sei anni il nostro Paese e l'intera Europa.

Alla crisi economica, si aggiungono poi altri elementi propri del calcolo dei ricavi minimi a rendere poco aderenti alla realtà i risultati che emergono dall'applicazione di questa norma.

Si fa riferimento ad esempio alle società immobiliari che, oltre a doversi confrontare con un mercato in forte recessione che vede decrementare il prezzo di vendita e di locazione degli immobili e vede aumentare il numero degli immobili sfitti o dei contratti di locazione di cui i conduttori chiedono la risoluzione o l'abbattimento del canone originariamente pattuito, devono procedere al calcolo dei ricavi minimi per superare il test di operatività applicando dei coefficienti, che sono stati fissati dal legislatore circa 20 anni fa e non sono stati mai aggiornati, ad un importo degli immobili rivalutato in base ad una legge che risale ad un periodo (anno 2008) in cui il mercato immobiliare era ancora vivace.

Per queste società, è praticamente impossibile riuscire a superare il test di operatività, eppure esse non possono certamente essere considerate società non operative che non hanno cioè un interesse effettivo allo svolgimento di un'attività commerciale.

E sono proprio questi i difetti genetici della normativa sulle società di comodo:

  1. la previsione al suo interno di un meccanismo di selezione dei soggetti a cui applicare la norma, di tipo solo quantitativo (importo dei ricavi minimi calcolati applicando dei coefficienti agli assets della società), senza introdurre una selezione di tipo qualitativo (esistenza o meno all'interno della società di assets suscettibili di un uso estraneo all'attività di impresa);
  2. applicazione di coefficienti fissi senza la previsione di un loro aggiornamento periodico per rendere i risultati emergenti dalla loro applicazione aderenti alla realtà economica del momento.

Questi difetti genetici, come anticipato, si sono nel tempo accentuati, anche a seguito dell'interpretazione fornita dall'Agenzia delle Entrate nelle varie Circolari che si sono succedute nel tempo e nelle risposte fornite agli interpelli disapplicativi.

E proprio all'interpretazione dell'Agenzia delle Entrate, chiamata a disapplicare la norma nei casi in cui il mancato raggiungimento dei ricavi minimi non fosse stato riconducibile ad un uso distorto della figura giuridica, ovvero, alla volontà di assoggettare i beni ad un regime fiscale più vantaggioso rispetto a quello delle persone fisiche, o per mascherare la reale capacità contributiva dei soci, o ancora per evitare la tassazione gravante sulla distribuzione dei dividendi, che è inizialmente attribuibile la mutazione genetica che questa norma ha subito nel tempo.

Al riguardo, dalla lettura di detti documenti di prassi emergere con chiarezza l'evoluzione che c'è stata nell'applicazione della norma.

Infatti, mentre nella Circolare dell'Agenzia delle Entrate n. 5/E del 2 febbraio 2007 si legge che “La disciplina delle società non operative è stata introdotta nel nostro ordinamento allo scopo di contrastare le c.d. società di comodo e, in particolare, per disincentivare il ricorso all'utilizzo dello strumento societario come schermo per nascondere l'effettivo proprietario di beni, avvalendosi delle più favorevoli norme dettate per le società”, e nella Circolare dell'Agenzia delle Entrate n. 25/E del 4 maggio 2007 si afferma che “L'obiettivo delle norme in esame è quello di contrastare le società non operative che non abbiano cioè un interesse effettivo allo svolgimento di attività commerciali”, significativamente diverso è il tenore delle successive Circolari e Risoluzioni.

Nella Circolare Agenzia delle Entrate n. 44/E del 9 luglio 2007 si legge infatti che “Occorre considerare che la normativa in questione nasce anzitutto con l'intento di contrastare soggetti societari costituiti con l'obiettivo di mettere i beni a disposizione dei soci e non utilizzarli nello svolgimento di una effettiva attività imprenditoriale. Allo stesso modo la normativa intende scoraggiare la permanenza in vita di società costituite senza finalità elusive, ma prive di obiettivi imprenditoriali concreti e immediati, cioè di società che, per diverse ragioni, non svolgono alcuna attività”.

Ed ancora, nella Circolare dell'Agenzia delle Entrate n. 7/E del 29 marzo 2013, § 6, si legge che “Allo stesso modo, la disciplina in esame intende scoraggiare la permanenza in vita di società, costituite senza finalità elusive, ma prive di obiettivi imprenditoriali concreti e immediati, cioè di società che – per diverse ragioni – non svolgono alcuna effettiva attività imprenditoriale”.

Dalla lettura di questi documenti di prassi emerge quindi in modo chiaro che l'Amministrazione Finanziaria per “società di comodo” non intende più solo quelle società che fungono da schermo per l'intestazione di beni utilizzati dai soci per finalità estranee all'impresa, ma fa confluire in questa categoria tutte quelle società “prive di obiettivi imprenditoriali concreti e immediati”.

Certamente nella legge non c'è traccia di questa nuova definizione di società di comodo, né tantomeno in essa si può rintracciare una definizione del concetto di “obiettivi imprenditoriali concreti e immediati”.

Allora ci si chiede quando un progetto imprenditoriale può essere considerato concreto e immediato, e soprattutto, che competenza deve avere il soggetto chiamato a giudicare se un progetto imprenditoriale risponde a questi requisiti.

È a tutti noto quanto siano diversi tra loro i vari settori in cui si articola il sistema economico del nostro Paese, e quanto siano diverse tra di loro le dinamiche di mercato che regolano ciascun settore.

Ci si accorge quindi che i concetti di concretezza e immediatezza esprimono grandezze non assolute in quanto possono assumere dimensioni diverse nei diversi settori economici.

Basti pensare ad esempio, ai tempi che generalmente sono richiesti nel settore immobiliare per portare a termine un progetto edilizio che debba comportare una variante urbanistica di un terreno: spesso, per la realizzazione dello sviluppo edificatorio di un'area, possono passare diversi lustri dal momento in cui la società acquista il terreno, ma ciò non vuol dire che il progetto difetti di concretezza o immediatezza!

Generalmente la velocità di realizzazione di detti progetti non dipende solo dall'imprenditore, ma dalla formazione della volontà politica dell'Ente territoriale competente che spesso, quando sta per decidere, e quindi quando sembrerebbe che la realizzabilità del progetto sia immediata, a seguito dell'avvicendamento per motivi politici, dei componenti degli organi deliberanti, la decisione viene slittata, e l'iter istruttorio di un progetto può a volte ricominciare.

Al riguardo, non sembra ad esempio condivisibile la risposta ad un quesito contenuta nella Circolare dell'Agenzia delle Entrate n. 44/E del 9 luglio 2007 che recita: “La circostanza che i terreni, oggetto dell'attività caratteristica della società, siano di fatto sottoposti ad un vincolo edificatorio (imposto dalla mancanza di un atto dell'amministrazione comunale previsto da apposita legge regionale), che li renderebbe poco appetibili sul mercato, può costituire una "situazione oggettiva" determinante ai fini della disapplicazione della disciplina sulle società non operative. Ciò nel presupposto che la società stessa abbia acquistato i suddetti terreni prima dell'entrata in vigore della legge regionale. Nel caso contrario in cui la società, che svolge attività di compravendita di terreni edificabili, acquisti un terreno su cui già sussiste il blocco edificatorio, il mancato conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi nella misura prevista dal comma 1 dell'articolo 30 della legge n. 724 del 1994 deriva inequivocabilmente da una consapevole scelta imprenditoriale (e quindi ad una situazione "soggettiva" e non "oggettiva"), tale, di per sé, da non giustificare l'accoglimento dell'istanza di disapplicazione”.

O ancora, basti pensare a tutti quei settori economici in cui la realizzabilità di un progetto, oltre ad essere sottoposta all'alea del buon esito dell'iniziativa tipica di ogni attività imprenditoriale, richieda tempi di ricerca e sperimentazione prolungati nel tempo.

Sembrerebbe quindi ingiusto applicare lo stesso parametro di misurazione del concetto di immediatezza per settori economici diversi.

Ad oggi la totale assenza di un riferimento normativo relativo a questo nuovo concetto di “obiettivi imprenditoriali concreti e immediati” e dei parametri per la loro misurazione, lascia un ampio spazio di discrezionalità in capo al singolo Ufficio chiamato a pronunciarsi sugli interpelli disapplicativi sulle società di comodo, che può generare a sua volta risposte che disciplinano in modo diverso fattispecie uguali.

Ma ancor prima di preoccuparsi della possibilità di misurare in modo obiettivo i requisiti della concretezza e della immediatezza di un progetto imprenditoriale, è doveroso domandarsi se sia giusto adottare questi parametri per selezionare quei contribuenti da assoggettare al regime fiscale particolarmente severo delle società di comodo.

Ci si chiede in particolare come si possono conciliare questi parametri con l'articolo 41 e l'articolo 53 della Costituzione.

Questa modalità di applicazione della norma sulle società di comodo sembra aver perduto qualsiasi riferimento al concetto di capacità contributiva, trasformando così la legge in questione in un efficace strumento per reperire quante più possibili entrate per le casse dell'Erario, calcolate su un reddito teorico senza alcun riferimento alla effettiva capacità del contribuente di contribuire alle spese pubbliche.

Questa “mutazione genetica” avvenuta nell'applicazione della normativa sulle società di comodo, oltre a non avere suscitato la necessità, da parte del legislatore, di emanare una norma di interpretazione autentica, sembrerebbe essere in linea con un'altra norma di successiva emanazione, quella relativa alle società in perdita sistematica che, ferma restando l'identità del suo meccanismo applicativo con la norma sulle società di comodo, si differenzia da quest'ultima in quanto, per selezionare i soggetti a cui applicare la norma, invece di prendere quale parametro di riferimento l'ammontare dei ricavi conseguiti dalle società, prende quale parametro selettivo il reddito, ovvero le perdite, dalle stesse conseguite.

Ma in questo caso, a fronte della giusta esigenza dell'Erario di monitorare quei contribuenti che nell'esercizio di un'attività di impresa invece di generare reddito generano perdite, al fine di verificare se dette perdite scaturiscono da una gestione aziendale fiscalmente non corretta, nell'ordinamento era già presente una norma (articolo 24 del D.L. n. 78/2010) che disponeva nei confronti di questi contribuenti un'attività di intelligence da parte dell'Agenzia delle Entrate per individuare comportamenti fiscalmente a rischio.

Il legislatore, anche in questo caso, ha preferito introdurre nel nostro ordinamento un'altra norma che prevede un meccanismo di calcolo delle imposte su redditi teorici sganciato dalla capacità contributiva dei contribuenti.

Ad oggi quindi, nella legge italiana coesistono tre norme, quella sulle società di comodo, quella sulle società in perdita sistematica e quella sui beni dati in godimento ai soci che hanno molte aree di sovrapposizione che rischiano di generare grande confusione e disorientamento.

Invece oggi più che mai gli operatori economici hanno bisogno di avere leggi chiare negli obiettivi da perseguire e di facile applicazione, per poter pianificare quegli investimenti necessari per superare la grave crisi economica che sta attanagliando il nostro Paese.

In questa prospettiva, non sembrano sufficienti le misure volte ad allungare il periodo di osservazione da tre a cinque anni della normativa sulle società in perdita sistematica per ricondurre il sistema della tassazione delle società nell'alveo dei principi costituzionali della capacità contributiva.

Quello che servirebbe è una maggiore chiarezza degli obiettivi perseguiti dal legislatore, e l'utilizzo di norme che, attraverso parametri selettivi non solo quantitativi, ma anche qualitativi, unitamente ad una adeguata programmazione dell'attività di accertamento, mirino ad eliminare dal sistema, quelle strutture societarie create unicamente per intestare beni destinati a finalità estranee all'esercizio dell'impresa.

Per fare ciò sarebbe auspicabile che venisse meglio riformulata la norma sul godimento dei beni dei soci, e venissero eliminate dall'ordinamento le disposizioni sulle società di comodo e sulle società in perdita sistematica che, facendo riferimento a dei semplici quanto rozzi parametri selettivi di tipo quantitativo, impongono dei regimi fiscali punitivi che sembrano essere concepiti non per realizzare una tassazione dei contribuenti in funzione della loro capacità contributiva, ma per facilitare il reperimento di entrate per l'Erario con il minimo dispendio di energie nell'attività di accertamento.

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