Violazione del divieto di immistione da parte del socio accomandante

Stefania Ticozzi
10 Febbraio 2016

L'ingerenza del socio accomandante nella gestione della società in accomandita semplice - indipendentemente dalle conseguenze di cui all'art. 2320, c.c. - non comporta l'assunzione da parte di quest'ultimo della qualifica di amministratore e, dunque, del potere di rappresentanza della stessa.
Massima

L'ingerenza del socio accomandante nella gestione della società in accomandita semplice - indipendentemente dalle conseguenze di cui all'art. 2320 c.c. - non comporta l'assunzione da parte di quest'ultimo della qualifica di amministratore e, dunque, del potere di rappresentanza della stessa, restando irrilevanti rispetto alla società gli atti di amministrazione compiuti da detto socio accomandante.

Il caso

La pronuncia in commento definisce la vicenda processuale che traeva origine da una domanda (rigettata in primo grado con sentenza poi confermata in secondo grado) di esecuzione in forma specifica di un contratto preliminare di vendita immobiliare concluso da un socio accomandante di società in accomandita semplice in qualità di parte venditrice e di risoluzione del relativo contratto per inadempimento della società, previa dichiarazione di responsabilità del socio ex art. 2320 c.c.

In particolare, a sostegno della tesi secondo la quale il contratto preliminare concluso dal socio accomandante in nome e per conto della società sarebbe stato comunque produttivo di effetti nei confronti di quest'ultima, gli attori/ricorrenti assumevano che, avendo il socio accomandante assunto la responsabilità illimitata e solidale per tutte le obbligazioni sociali secondo quanto disposto dall'art. 2320 c.c., per essersi ingerito nella gestione della società, si era verificato un mutamento della tipologia della società che si era trasformata in una società in nome collettivo irregolare ovvero di fatto con applicazione degli articoli 2297 e 2298 c.c.; in ogni caso, gli stessi invocavano l'istituto dell'apparenza del diritto dal momento che il socio accomandante aveva ingenerato l'affidamento incolpevole degli stessi, facendo presumere un accordo tacito o comunque una ratifica del suo operato da parte del socio accomandatario.

La questione

La Suprema Corte affronta il tema degli effetti dei contratti conclusi dal socio accomandante ingeritosi nell'amministrazione della società in accomandita semplice nei confronti della società stessa.

Come noto, la società in accomandita semplice è caratterizzata dalla compresenza di due categorie di soci: i soci accomandatari, che rispondono illimitatamente e solidalmente per le obbligazioni sociali ed i soci accomandanti che, invece, rispondono delle obbligazioni sociali limitatamente alla quota conferita.

Mentre l'amministrazione interna ed esterna della società può essere affidata esclusivamente ai soci accomandatari (art. 2318 c.c.), i soci accomandanti - per i quali vige un generale divieto di immistione nella gestione della società - possono tuttavia compiere atti di amministrazione e trattare o concludere affari in nome della stessa purché muniti di procura speciale per singoli affari.

I soci accomandanti possono altresì prestare la loro opera sotto la direzione degli amministratori e, se l'atto costitutivo lo consente, dare autorizzazioni e pareri per determinate operazioni e compiere atti di ispezione e sorveglianza; in ogni caso, ai soci accomandanti sono attribuiti poteri di controllo sulla contabilità sociale.

La violazione da parte dei soci accomandanti del divieto di immistione sancito dall'art. 2320 c.c. comporta l'assunzione della responsabilità illimitata e solidale per tutte le obbligazioni sociali passate, presenti e future a qualsiasi titolo imputabili alla società senza che lo stesso assuma la qualifica di socio accomandatario e può comportare altresì l'esclusione del socio accomandante dalla società nonché l'assoggettabilità dello stesso al fallimento per estensione rispetto al fallimento della società ai sensi dell'art. 147 l. fall.

Quid iuris rispetto ai contratti conclusi dal socio accomandante che, privo di procura, abbia speso il nome della società in accomandita semplice?

In altri termini, ci si chiede se la violazione del divieto di immistione consistita nella sottoscrizione di contratti da parte del socio accomandante in nome della società in accomandita semplice comporti quale ulteriore conseguenza quella di impegnare comunque la società nei confronti dei terzi ovvero se responsabile verso i terzi è unicamente il socio accomandante, in ossequio ai principi generali dettati in tema di rappresentanza.

Le soluzioni giuridiche

La Corte di Cassazione risolve la questione sopra enunciata affermando che il contratto concluso dal socio accomandante in carenza di poteri conferiti ai sensi dell'art. 2320 c.c., integra un'ipotesi di contratto concluso dal falsus procurator, come tale inefficace nei confronti della società in accomandita semplice, salvo successiva ratifica da parte di quest'ultima.

Ai sensi del combinato disposto di cui agli articoli 2318 e 2320 c.c., infatti, il socio accomandante privo di procura non ha il potere di agire impegnando la società; mentre la società resterà vincolata laddove il socio accomandante abbia agito in forza di procura speciale per affari determinati (in questo caso risponderà verso i terzi la società con il proprio patrimonio e, in caso di infruttuosa escussione dello stesso, i soci accomandatari) o in forza di procura generale (in questo caso, con la responsabilità della società e dei soci accomandatari concorrerà la responsabilità del socio accomandante dal momento che per escludere le conseguenze di cui all'art. 2320 c.c., è necessaria una procura speciale per singoli affari: sul punto, Cass. 17 maggio 2010, n. 11973; Trib. Padova 6 agosto 2013).

Per costante giurisprudenza di legittimità e di merito, confermata dalla pressoché unanime dottrina, l'art. 2320 c.c. (che - come detto - sanziona il comportamento del socio accomandante che compie affari in nome della società senza specifica procura con la perdita del beneficio della responsabilità limitata verso i terzi) non introduce deroghe alla disciplina generale della rappresentanza senza potere e, pertanto, non determina la responsabilità della società medesima per il contratto stipulato dal falso procuratore, salvo il caso di successiva ratifica che deve rivestire la stessa forma prescritta per il predetto contratto (così, Cass. 19 novembre 2004, n. 21891; Cass. 21 ottobre 1998, n. 10447; Cass. 27 aprile 1994, n. 4019; Cass. 2 dicembre 1983, n. 7204; Cass. 5 marzo 1982, n. 1381; Trib. Nocera Inferiore 29 gennaio 2006; App. Milano 22 gennaio 2002; in dottrina Campobasso, Diritto Commerciale 2. Diritto delle società, Torino, 2007, 141; Montalenti, Il socio accomandante, Milano, 1985, 326; Bussoletti, Società in accomandita semplice, in Enc. Dir., XLII, Milano, 1990, 968; in alcune sporadiche pronunce, invece, gli atti amministrativi ed i contratti posti in essere dal socio accomandante in nome della società in violazione del divieto di ingerenza sono stati considerati nulli: cfr. Trib. Cassino 1 settembre 1998).

L'art. 2320 c.c., infatti, regola esclusivamente le conseguenze prodotte all'interno della società dal comportamento del socio accomandante che si sia ingerito nella gestione della società e non anche gli effetti esterni che ne derivano per l'ente societario (Ferrari, Attribuzione all'accomandante della rappresentanza della società, in Soc., 8, 2002, 987; Cass. 28 maggio 1981, n. 3534; Cass. 19 dicembre 1978, n. 3092).

A sostegno della conclusione sopra enunciata, la Suprema Corte ricorda come, in caso di sopravvenuta mancanza di tutti i soci accomandatari, l'art. 2323 c.c., preveda la sostituzione dei soci venuti meno e la nomina di un amministratore per il compimento degli atti di ordinaria amministrazione: di conseguenza è da escludersi che il socio accomandante superstite che compia atti di gestione divenga per ciò solo amministratore e, quindi, rappresentante della società (Cass. 2 dicembre 1983, n. 7204).

A differenza di quanto avviene nella società in accomandita per azioni laddove tutti i soci accomandatari sono amministratori di diritto, infatti, in tale tipo di società non vi è coincidenza tra soci accomandatari ed amministratori: analogamente a quanto previsto per la società in nome collettivo dove il potere di amministrazione può essere conferito anche solo ad alcuni dei soci (tutti comunque illimitatamente responsabili), nella società in accomandita semplice il potere di amministrazione può essere attribuito ad uno o ad alcuni soci accomandatari.

In altri termini, nella società in accomandita semplice, mentre tutti gli amministratori devono essere accomandatari, non necessariamente tutti gli accomandatari debbono essere amministratori (Cass. 28 giugno 1997, n. 5790).

Dunque, l'assunzione della responsabilità illimitata a seguito della violazione dell'art. 2320 c.c., non comporta che il socio accomandante assuma la qualifica di socio accomandatario né che lo stesso possa acquistare il potere di rappresentanza della società.

Neppure può invocarsi, nel caso di specie, l'istituto di origine giurisprudenziale della c.d. rappresentanza apparente che costituisce una deroga al generale principio di inefficacia del contratto stipulato dal falsus procurator: in presenza di determinati requisiti (circostanze univoche tali da trarre in inganno i terzi, buona fede del terzo, comportamento colposo del rappresentato, tale da ingenerare nel terzo la ragionevole convinzione che il potere di rappresentanza sia stato effettivamente e validamente conferito al rappresentante apparente), infatti, il terzo può far valere l'efficacia del contratto nei confronti del falsamente rappresentato in alternativa al rimedio del risarcimento del danno ex art. 1398 c.c. se ha confidato senza sua colpa nella validità del contratto.

La rilevanza giuridica dell'apparenza trova però un limite laddove la corrispondenza tra situazione di fatto e situazione di diritto può essere agevolmente accertata dal terzo attraverso uno strumento legale di pubblicità (ad esempio, i Registri Immobiliari, il Registro delle Imprese, la Gazzetta Ufficiale: cfr. Cass. 19 luglio 2004, n. 13357).

Pertanto, correttamente, la Corte di Cassazione ha negato la rilevanza dell'apparenza dal momento che gli attori/ricorrenti ben avrebbero potuto verificare la qualifica di socio accomandante (e non di socio accomandatario) del soggetto che ha agito in nome e per conto della società attraverso la consultazione del Registro delle Imprese.

Conclusioni

La pronuncia in commento si inserisce nell'ambito di un tradizionale e condivisibile orientamento della giurisprudenza di legittimità e di merito per il quale la violazione del divieto di immistione da parte del socio accomandatario comporta esclusivamente una “sanzione” di tipo patrimoniale, non accompagnata dall'assunzione della qualifica di socio amministratore in capo allo stesso.

Pertanto, il socio accomandante privo di poteri che abbia concluso un contratto spendendo il nome della società in accomandita semplice deve essere qualificato alla stregua di un falsus procurator ed il contratto dallo stesso concluso deve ritenersi inefficace nei confronti della società stessa.

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