Gestione patrimoniale: l’adempimento dell’intermediario e la normativa sul c.d. benchmark

Dario Falconieri
28 Febbraio 2017

Il benchmark è un parametro oggettivo essenziale per l'investitore al fine di valutare l'operato del intermediario e il servizio da quest'ultimo offerto in sede di sottoscrizione di prodotti finanziari. Tale indice è, pertanto, un elemento imprescindibile per determinare la correttezza e la adeguatezza del modus operandi dell'intermediario nelle gestione del portafoglio di strumenti finanziari offerti alla sua clientela.
Massima

Il benchmark è un parametro oggettivo essenziale per l'investitore al fine di valutare l'operato del intermediario e il servizio da quest'ultimo offerto in sede di sottoscrizione di prodotti finanziari. Tale indice è, pertanto, un elemento imprescindibile per determinare la correttezza e la adeguatezza del modus operandi dell'intermediario nelle gestione del portafoglio di strumenti finanziari offerti alla sua clientela. Resta inteso che l'indicazione del benchmark non esime l'intermediario dall'adempiere ai suoi obblighi informativi nei confronti dell'investitore sulla base della sua propensione e profilo di rischio.

Il caso

La questione in esame ha per oggetto un contratto di investimento sottoscritto da un imprenditore operante nel settore metalmeccanico. Nell'agosto del 2000, un promotore finanziario aveva proposto all'investitore di accedere al servizio di gestione di portafogli di investimento di cui al D. Lgs. n. 58/1998 offerto da un intermediario finanziario, garantendogli la sicurezza e la bontà dell'investimento stesso. Il promotore aveva proposto un investimento personalizzato definendolo come il meno rischioso, il più redditizio per l'investitore e con la più “elevata probabilità”, pari o superiore al 91%, di raggiungere l'obbiettivo. Nello specifico, era stato prospettato un benchmark pari “al rendimento dell'indice di capitalizzazione MTS riferito ai B.O.T., aumentato di 2,7 punti percentuali, in ragione d'anno …”, cioè un 2,7% in più rispetto al benchmark. Agli inizi del 2003, il capitale investivo nella G.P.I. si era sensibilmente ridotto evidenziando una perdita apparente (stando ai conteggi effettuati dalla banca) pari a -27,16% a fronte di un benchmark pari a + 16% (in sostanza 43 punti percentuali in meno). A fronte delle perdite subite e dell'intervenuta morte dell'investitore, i ricorrenti (moglie e figlio) hanno citato in giudizio l'intermediario finanziario per la violazione degli obblighi informativi e l'errata interpretazione della normativa sul benchmark. In primo e in secondo grado, le domande di parte attrice erano state rigettate in quanto i Giudici di merito avevano ritenuto adempiuto il dovere da parte dell'intermediario finanziario di fornire informazioni adeguate all'investitore (ex. art. 28, comma 2, Reg. Consob 11522/1998) in quanto quest'ultimo, quale rappresentante legale di svariate società di considerevoli dimensioni, sarebbe stato in grado di programmare investimenti in strumenti finanziari e concludendo per una sostanziale adeguatezza dell'operazione prospettata dall'intermediario. La Cassazione ha accolto le domande dei ricorrenti ritenendo fondate le loro doglianze in merito alla violazione degli obblighi informativi e all'inadeguatezza delle operazioni di investimento rispetto al profilo e alla propensione al rischio dell'investitore, oltre alla mancata indicazione del grado di rischio per ciascuna linea di gestione da parte dell'intermediario, cassando la sentenza appellata con rinvio alla Corte di appello di Bologna in diversa composizione.

Le questioni giuridiche

La Suprema Corte, nel caso in esame, ha fatto proprie alcune delle linee guida tracciate dalla precedente sentenza n. 8089 del 21 aprile 2016 emessa sempre dalla I sezione civile della Corte di Cassazione in materia di obblighi informativi in capo all'intermediario finanziario.

Alcuni fatti, argomenti e richieste avanzate dalle parti nelle rispettive cause di merito, infatti, accomunano il contenuto di entrambe le sentenze della Cassazione pubblicate, peraltro, in un arco temporale molto breve l'una dall'altra (circa quattro mesi).

La Corte di Cassazione nella sentenza n. 17290 del 2016 ha ribadito che l'obbligo informativo in capo all'intermediario è un obbligo “attivo” avente una duplice funzione: la prima è quella di “fornire” le informazioni necessarie per ogni singolo investimento prospettato all'investitore e la seconda è quella di “acquisire” da quest'ultimo tutte le informazioni necessarie per valutare il profilo di rischio e l'adeguatezza delle operazioni a questo prospettabili come risulta chiaramente dalla lettura degli artt. 21 TUF e 28 Reg. Consob 11522 del 1998 (cfr. anche Cass. 15 marzo 2016, n. 5089; Cass. 3 maggio 2016, n. 8733; Cass. 6 giugno 2016, n. 11578; Cass. 26 agosto 2016, n. 17356).

La Corte ha poi definito quando un investitore può dirsi “operatore qualificato” unico caso in cui l'intermediario potrebbe legittimamente limitare i propri doveri informativi.

La Cassazione ha precisato che far parte di una società in grado di programmare investimenti finanziari per importi rilevanti (nella fattispecie si trattava di circa 25 milioni di euro), dotata di organi quali il collegio sindacale e la società di revisione, non sono elementi idonei a configurare la qualificazione del cliente come investitore “professionale”. In tema di contratti di intermediazione finanziaria, la caratteristica di operatore qualificato ha un preciso contenuto tecnico - giuridico disciplinato dall'art. 31, comma 2, del regolamento Consob 1° luglio 1998, n. 11522 e non integrato dal mero riferimento all'entità del patrimonio dell'investitore ed alle sue attitudini imprenditoriali.

La valutazione dell'adeguatezza dell'operazione, continua la Corte, è certamente legata al profilo dell'investitore ma, tuttavia, non esclude il dovere informativo posto in capo all'intermediario che non può esaurirsi nell'indicazione di mere clausole di stile nei contratti finanziari. L'indicazione del limite estremo del rischio connesso alla gestione patrimoniale può essere uno dei criteri della preventiva valutazione dell'adeguatezza degli investimenti che compongono la gestione patrimoniale ma è del tutto inidoneo, se considerato isolatamente, ad integrare l'obbligo di assumere le informazioni necessarie al fine di formulare proposte d'investimento adeguate.

L'altra eccezione sollevata dai ricorrenti era l'erronea interpretazione della normativa sul benchmark di cui agli artt. 37, 38 e 42 del Regolamento Consob 11522/1998.

In finanza il benchmark è un parametro oggettivo di riferimento, utilizzato dal sistema finanziario per confrontare le performance di un portafoglio rispetto all'andamento del mercato.

L'indicazione di tale parametro, infatti, permette all'investitore di valutare il modus operandi del gestore cui si è affidato o intende affidarsi potendo confrontare le performance ottenute dal fondo e quelle del benchmark. Quest'ultimo consentirebbe al potenziale investitore, nella fase precontrattuale, di comprendere il rischio connesso all'investimento, oltre che fornire un parametro di valutazione dell'operato del gestore in corso d'opera.

La Corte di Cassazione, nella pronuncia in esame, ha ritenuto che la semplice indicazione del benchmark da parte dell'intermediario non contenga una diretta esplicitazione del grado di rischio della gestione come richiesto invece dall'art. 42 del Regolamento Consob n. 11522/99 con l'allegato 3 sub c). La Corte, quindi, ha ribadito che il benchmark non costituisce un indicatore diretto del grado di rischio, né la leva finanziaria.

Ma se il benchmark non costituisce un indicatore diretto del grado di rischio, né della leva finanziaria qual è la sua corretta natura giuridica? Quanto statuito dalla Cassazione, infatti, sembrerebbe porsi in antitesi con la normativa di riferimento (Regolamento Consob n. 11522/1998 adottato in attuazione del TUF e natura Delibera Consob n. 16190/07) che impone l'obbligo per gli intermediari di indicare sempre un parametro oggettivo di riferimento nei contratti di gestione.

Sul punto è intervenuta anche la Consob precisando che i parametri di riferimento per individuare il benchmark possono essere scelti tra indicatori finanziari di “comune utilizzo” e di provata affidabilità che consentano all'investitore una razionale valutazione dell'intermediario gestore e svolgano varie funzioni in base alla normativa esaminata ed alle interpretazioni fornite dall'Organo di Vigilanza.

Altro elemento, menzionato nella sentenza de qua, meritevole di attenzione, è la c.d. tesi della “gestione contro benchmark” secondo la quale in capo al gestore si configurerebbe non una mera obbligazione di mezzi ma una obbligazione di risultato.

Secondo tale teoria, l'intermediario, nelle gestioni “con benchmark”, assolverebbe ai propri obblighi informativi nei confronti dell'investitore provando di aver rispettato il profilo di rischio rappresentato dal benchmark prescelto, la tipologia di investimenti identificata dal benchmark e così via.

Nelle c.d. gestioni “contro benchmark”, invece, il gestore dovrà provare di essersi attenuto scrupolosamente al parametro di riferimento attraverso la comparazione fra le rendicontazioni periodiche inviate all'investitore e l'andamento dei titoli ricompresi nel benchmark.

Nel caso in esame, la banca comunicava all'investitore: “…il Benchmark, di cui al punto 5.7 delle “Condizioni generali di contratto”, è pari al rendimento dell'indice di capitalizzazione MTS riferito ai B.O.T., aumentato di 2,7 punti percentuali, in ragione d'anno …”. Appare evidente come l'intermediario non determini esattamente il benchmark ma rimandi genericamente alle condizioni di contratto aggiungendo peraltro una percentuale di aumento quantificata in 2,7 punti.

Nel caso specifico sembrava trattarsi proprio di una gestione “contro benchmark” e per tali ragioni il gestore pareva aver assunto un preciso impegno contrattuale. Tale impegno appariva idoneo a trasformare l'obbligazione di mezzi in obbligazione di risultato attraverso una sorta di “personalizzazione” del contratto, con l'obbligazione di migliorare il benchmark di alcuni punti percentuali. In ogni caso, anche non volendo aderire alla tesi della c.d. “gestione contro benchmark”, la banca aveva indicato all'investitore un benchmark che faceva espresso riferimento ai titoli di Stato, anche questo disatteso.

Conclusioni

La sentenza richiamata - uniformandosi a un prevalente orientamento giurisprudenziale consolidatosi ulteriormente con le recenti sentenze n. 24545 dell'1 dicembre 2016 e n. 24 del 3 gennaio 2017 (di prossima pubblicazione in questo portale, con nota di Gaffuri) sempre emesse dalla I sezione civile della Suprema Corte di Cassazione - ha il merito di aver rafforzato in sede di legittimità importanti principi afferenti i doveri informativi gravanti sull'intermediario. Il dovere di rispettare il principio di adeguatezza degli investimenti rispetto al profilo dell'investitore e alla sua propensione al rischio che richiede una valutazione globale della posizione del cliente stesso. Il dovere di prospettare al cliente dettagliatamente la tipologia di prodotto offerto, i rischi ad esso connessi e le alternative disponibili sul mercato. Il tutto finalizzato a individuare la tipologia di investimento più adeguata alle esigenze dell'investitore.

I principi affermati nella sentenza in esame, e non solo, tendono tutti a un fine comune ben preciso: massima tutela dell'investitore e della stabilità del mercato.

Quanto statuito dalla Suprema Corte, pur con il rimando talune volte a normative oramai superate, ha una valenza fortemente attuale che tende ad allinearsi ai recenti interventi normativi, sempre più stringenti in tale materia, che manifestano una crescente volontà di affrontare tale problematica non solo a livello nazionale ma anche a livello sovranazionale per poter garantire all'investitore la maggiore trasparenza, chiarezza e tutela nel momento in cui decide di affidare la gestione dei propri denari a un intermediario finanziario.