Intestazione fiduciaria di quote di società fallita e principio di riservatezza
27 Ottobre 2016
Tra i soci di una s.r.l. fallita vi è una società fiduciaria in virtù di intestazione fiduciaria. Il curatore può chiedere chi siano i soggetti che hanno conferito alla società fiduciaria il mandato fiduciario e che, di fatto, sono i soci della società fallita?
L'intestazione fiduciaria. L'intestazione fiduciaria si origina con un contratto di mandato in base al quale un soggetto (fiduciante) trasferisce un diritto ad un altro soggetto (fiduciario), con l'obbligo di quest'ultimo di esercitarlo per il soddisfacimento di determinati interessi del trasferente o di un terzo o comuni a lui ed al trasferente o al terzo. Con l'intestazione fiduciaria, il fiduciario diviene intestatario del patrimonio (o parte di esso) del fiduciante e come tale appare e agisce nei confronti dei terzi, avendo altresì il compito di amministrare lo stesso in modo professionale, in trasparenza e riservatezza, per conto del fiduciante medesimo. In termini generali, la proprietà del patrimonio rimane di quest'ultimo, mentre il fiduciario agisce in base alle direttive impartite dal primo. Nel caso specifico di intestazione fiduciaria di partecipazione in una s.r.l., il negozio fiduciario determina la dissociazione tra la titolarità della stessa, che rimane in capo al fiduciante, e la legittimazione all'esercizio dei relativi diritti, che, al contrario, viene trasferita al fiduciario. In altre parole, in virtù dell'intestazione a favore della società fiduciaria, non si ha un trasferimento della proprietà, bensì l'attribuzione della semplice legittimazione. A tale modalità di intestazione fiduciaria definita di tipo “germanico” o “germanistico”, si contrappone quella di tipo “romanistico”, caratterizzata dal trasferimento pieno ed incondizionato da un punto di vista reale, vincolato tuttavia da un punto di vista obbligatorio. Sotto tale profilo, infatti, il fiduciario si impegna a non disporre del proprio diritto assoluto, se non nei limiti dell'accordo in base al quale l'intero rapporto ha avuto origine (pactum fiduciae) e sulla base dei fini in relazione ai quali le parti si sono proposte di concluderlo.
Principio della riservatezza fiduciaria. Non vi è dubbio che tra i motivi dell'intestazione fiduciaria rientri quello di assicurare la riservatezza dell'effettiva proprietà delle partecipazioni sociali. Il principio della riservatezza fiduciaria trova il suo fondamento nel mandato senza rappresentanza ex art. 1705 c.c., cui può essere assimilato il contratto fiduciario e, indirettamente, nella L. 23 novembre 1939, n. 1966 e nel R. D. 29 marzo 1942, n. 239. Il mantenimento del segreto fiduciario non risulta però assoluto, dal momento che le società fiduciarie devono assolvere a precisi doveri in termini di limite al segreto stesso. Un limite è sicuramente rappresentato dal principio della trasparenza, che assume rilievo qualora esista un preminente interesse pubblico capace di derogare al generale diritto dei privati. In buona sostanza, la riservatezza è il principio generale vigente nei rapporti fra privati, derogabile dal principio di trasparenza nella misura in cui vi siano espresse disposizioni di legge, dettate da interessi pubblici o generali preminenti, che la sanciscano e ne definiscano i confini. Disposizioni di legge che configurano deroghe o limitazioni espresse al principio generale di riservatezza sono rappresentate, a titolo esemplificativo, dall'art. 115, comma 3, D. Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, che consente alla Consob di chiedere alle società o agli enti che partecipano direttamente o indirettamente la indicazione nominativa dei soci e, nel caso di fiduciarie, dei fiducianti; dall'art. 21, comma 3, D. Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, che impone alle società fiduciarie di comunicare alla Banca d'Italia, ove richiesto, le generalità dei fiducianti.
Conclusioni. Come è agevole dedurre da quanto appena detto, non esiste una norma – in particolare nella legge fallimentare - che preveda espressamente il potere del curatore di vincere il diritto alla riservatezza del fiduciante. È pur vero, però, da un lato che il curatore è comunque un pubblico ufficiale, e, dall'altro, che l'art. 25, n. 2, facoltizza il giudice delegato ad adottare o provocare l'adozione di provvedimenti finalizzati alla conservazione del patrimonio responsabile. Ne consegue che, come solitamente accade nella pratica, il curatore, nell'esercizio delle sue funzioni, di fatto “prova” a chiedere chi siano i soggetti che hanno conferito alla società fiduciaria il mandato fiduciario, rivelando in tal modo i soci della società fallita. Certo la suddetta richiesta potrebbe avere esito negativo e il curatore non potrebbe avvalersi di una tutela coattiva. Allo stesso modo, potrebbe chiedere al giudice delegato di convocare la società fiduciaria, rectius il rappresentante legale della medesima, al fine di accertare la reale proprietà delle quote delle società fallita, avvalendosi dei poteri ex art. 25, n. 2, l. fall. Ma anche in tal caso ad onor del vero, il principio di segretezza, in difetto di una norma espressa che autorizzi a superarlo, potrebbe portare ad una risposta negativa senza possibilità effettiva di coercizione del fiduciario recalcitrante. Va anche considerato, peraltro, che la richiesta alla società fiduciaria di rivelare il nome dei fiducianti, anche se non sembra rientrare propriamente nella nozione di patrimonio fallimentare da tutelare, risulta funzionale al ricorso ad eventuali azioni aventi l'obiettivo di ricostruire il patrimonio medesimo (come, a titolo esemplificativo, l'azione ex art. 2476, comma 7, c.c., nei confronti dei soci – solidalmente responsabili con gli amministratori – “che hanno intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci o i terzi”). |