La Corte di Cassazione torna sul problema della responsabilità da mancata OPA

30 Novembre 2015

In caso di violazione dell'obbligo di OPA della totalità delle azioni di una società quotata in un mercato regolamentato da parte di chi, in conseguenza di acquisti azionari, sia venuto a detenere una partecipazione superiore al 30% del capitale sociale, gli azionisti cui l'offerta avrebbe dovuto esser rivolta hanno diritto al risarcimento del danno patrimoniale sofferto, previa dimostrazione di aver perso una possibilità di guadagno a causa della mancata promozione di detta offerta.
La massima

In caso di violazione dell'obbligo di OPA della totalità delle azioni di una società quotata in un mercato regolamentato da parte di chi, in conseguenza di acquisti azionari, sia venuto a detenere una partecipazione superiore al 30% del capitale sociale, gli azionisti cui l'offerta avrebbe dovuto esser rivolta hanno diritto al risarcimento del danno patrimoniale sofferto, previa dimostrazione di aver perso una possibilità di guadagno a causa della mancata promozione di detta offerta.

Il caso

Con la sentenza pubblicata in data 13 ottobre 2015, n. 20560, la Suprema Corte ha nuovamente affrontato il tema della risarcibilità del danno da mancata promozione di un'offerta pubblica di acquisto obbligatoria (di seguito anche, per brevità, “OPA”), ai sensi degli artt. 106 e 109 T.U.F.: lo ha fatto nel solco dell'orientamento già espresso dalle proprie precedenti pronunce, rese a definizione di controversie originatesi nell'ambito della medesima (ed ormai nota, almeno nelle sue linee generali) vicenda SAI-Fondiaria (il riferimento è a Cass. 10 agosto 2012, n. 14392, in Società, 2013, 175 ss., con nota sostanzialmente adesiva di GIUDICI, Il private enforcement in caso di elusione dell'obbligo di offerta pubblica di acquisto, ibidem, 180 ss.; a Cass. 10 agosto 2012, n. 14399; a Cass. 10 agosto 2012, n. 14400, in Giur. comm., 2013, II, 193 ss., con note rispettivamente di F. M. Mucciarelli, Il risarcimento del danno per mancata proposizione dell'opa obbligatoria: l'epilogo del caso SAI/Fondiaria?, ibidem, 202 ss., e di Cacchi Pessani, Inadempimento dell'obbligo di opa e risarcimento del danno: il caso SAI-Fondiaria approda in Cassazione, ibidem, 793 ss.; nonché a Cass. 26 settembre 2013, n. 22099).

Anche nel caso deciso da ultimo, un folto gruppo di azionisti minoritari di Fondiaria Assicurazioni s.p.a., rappresentati da una società fiduciaria, aveva agito in giudizio, dinanzi al Tribunale di Milano, al fine di veder riconosciuto il proprio diritto al risarcimento del danno derivato dalla mancata promozione di un'OPA obbligatoria da parte di quei soggetti (SAI, Premafin e Mediobanca) che, anche in forza di un'azione fra loro concertata, avevano superato congiuntamente la quota di partecipazione in Fondiaria Assicurazioni a tal fine rilevante (quella, cioè, del 30% del capitale sociale), integrando così la fattispecie di cui al combinato disposto degli artt. 106 e 109 T.U.F.

Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione ha sposato la tesi già fatta propria in primo grado dal Tribunale (nonché dalle proprie precedenti pronunce di cui si è dato conto poc'anzi), affermando nuovamente che gli azionisti che siano stati privati del diritto di ricevere un'OPA sulle azioni da loro detenute - e, quindi, della possibilità di disinvestimento che l'ordinamento riconosce in presenza dei relativi presupposti - hanno titolo per pretendere, da colui che abbia (o da coloro che abbiano, sulla base di un'azione di concerto) raggiunto la soglia rilevante, il risarcimento del danno così subìto.

La questione

Nel giungere alla conclusione testé riportata, la Suprema Corte ha (nuovamente) disatteso il convincimento dei Giudici di seconde cure, i quali avevano affermato, in sostanza, che il meccanismo sanzionatorio costruito dall'art. 110 T.U.F. (oltre che dagli artt. 173 e 192 T.U.F.) sarebbe di per sé sufficiente ad assicurare il soddisfacimento dell'interesse degli azionisti “esterni”: in particolare, l'obbligo di alienare le azioni in eccedenza rispetto alla soglia rilevante - imposto, appunto, dall'art. 110 T.U.F. - garantirebbe il ripristino dello status quo ante, facendo venir meno, in maniera (per così dire) retroattiva, l'interesse dei soci orbati dell'offerta a disfarsi delle loro azioni.

La questione di fondo affrontata, ancora una volta, dalla Corte di Cassazione, è dunque, in estrema sintesi, la seguente: se il presidio sanzionatorio allestito dalle norme del T.U.F. (e in particolare dall'art. 110) sia di per sé sufficiente a garantire la piena protezione degli interessi sottesi alla disciplina dell'OPA obbligatoria; ovvero se la violazione delle norme in questione possa dare ingresso anche al rimedio rappresentato dal diritto al risarcimento del danno “da mancata OPA”, in favore degli azionisti illegittimamente privati dell'offerta.

La soluzione giuridica

La pronuncia in esame ha ribadito che l'esistenza di un vero e proprio rapporto obbligatorio di fonte legale - che nasce per effetto del combinato disposto dell'art. 1173 c.c. e dell'art. 106 (oltre che, eventualmente, dell'art. 109) T.U.F. - fa sì che il soggetto inadempiente all'obbligazione posta a suo carico dalla legge sia passibile di sanzione anche sul piano puramente “privatistico”, cioè attraverso l'insorgenza di una responsabilità risarcitoria di natura contrattuale.

La Corte ha affermato, precisamente, il seguente principio di diritto: “in caso di violazione dell'obbligo di offerta pubblica di acquisto della totalità delle azioni di una società quotata in un mercato regolamentato da parte di chi, in conseguenza di acquisti azionari, sia venuto a detenere una partecipazione superiore al 30% del capitale sociale, compete agli azionisti cui l'offerta avrebbe dovuto esser rivolta il diritto di ottenere il risarcimento del danno patrimoniale da essi sofferto, ove dimostrino di aver perso una possibilità di guadagno a causa della mancata promozione di detta offerta”.

Osservazioni

La soluzione accolta (ancora una volta) dai Giudici di legittimità è, nella sua impostazione generale, convincente.

Appare corretto, innanzitutto, escludere che la fattispecie di cui all'art. 106 T.U.F. configuri un generico dovere (di carattere e a sfondo esclusivamente pubblicistico) ovvero un mero onere per colui che superi la soglia di partecipazione individuata dalla norma. Sotto il primo profilo, è agevole rilevare - come, del resto, la Suprema Corte ha fatto - che esistono e sono identificabili - in un dato momento, cioè quello a partire dal quale l'OPA dovrebbe (o avrebbe dovuto) essere promossa - i soggetti interessati al rispetto della previsione normativa, ossia tutti gli azionisti minoritari, i quali hanno pertanto il diritto a che la condotta volta a soddisfare il loro interesse venga correttamente posta in essere. Sotto il secondo profilo, la figura giuridica dell'onere è messa fuori gioco dal semplice fatto che non è dato individuare il comportamento che consentirebbe al soggetto tenuto al lancio dell'offerta di soddisfare un proprio interesse: anzi, è assai probabile che, dopo aver superato la soglia rilevante, questi non abbia più interesse a fare alcunché, avendo verosimilmente già ottenuto il controllo della società “bersaglio” a fronte dell'impegno finanziario (già) sostenuto.

Se è vero, dunque, che l'art. 106 T.U.F. definisce un vero e proprio obbligo giuridico, la sentenza in parola ha poi sottolineato, in modo altrettanto persuasivo, che la configurazione in termini di (vero e proprio) diritto soggettivo (quello cioè di ricevere un'OPA) della posizione degli azionisti di minoranza deriva altresì dall'espresso richiamo all'offerta pubblica di acquisto contenuto nell'art. 2497-quater c.c.; norma, questa, che, attribuendo ai soci “esterni” della società soggetta a direzione e coordinamento un diritto di recesso a fronte del mutamento del soggetto di controllo (così, del resto, è generalmente interpretata la fattispecie di cui all'art. 2497-quater, 1° comma, lett. c, c.c.), instaura appunto un chiaro collegamento sistematico con l'istituto dell'offerta pubblica di acquisto: collegamento tale da consentire di ritenere collocati sullo stesso piano gli interessi che le rispettive norme intendono tutelare.

Bene ha fatto la sentenza in esame, inoltre, a ribadire che l'obbligo di cui all'art. 110 T.U.F., ossia quello di alienare le azioni in eccedenza rispetto alla soglia del 30% del capitale, non possa essere inteso come “alternativo” a quello di promozione dell'OPA (idea, questa, che finirebbe per rievocare nuovamente, ma in modo improprio, la figura dell'onere): tanto è vero che l'alienazione dell'eccedenza di cui all'art. 110 T.U.F. potrebbe non essere idonea, in concreto, a determinare, in favore della platea degli azionisti minoritari, un risultato equipollente a quello che costoro avrebbero potuto ottenere esercitando il (vero e proprio) diritto di aderire all'OPA, dopo averla ritualmente ricevuta (in linea con la tesi già accolta dalla Corte d'Appello di Milano - e in particolare rilevando che la sterilizzazione dei diritti di voto ai sensi dell'art. 110 T.U.F. rimuoverebbe il danno, perché impedirebbe l'esercizio del controllo - si erano invece espressi, ex aliis, Mosca, Acquisti di concerto, partecipazioni incrociate e responsabilità per inadempimento dell'obbligo di opa. Note a margine del caso SAI-Fondiaria, in Riv. soc., 2007, 1329; Carbonetti F., OPA obbligatoria e diritti degli azionisti, nota a Trib. Milano, 9 giugno 2005, in Dir. banca e merc. fin., 2005, 640).

E' particolarmente apprezzabile, pertanto, il passaggio in cui la Suprema Corte ha rilevato che l'alienazione dell'eccedenza non possa dirsi in grado di soddisfare sempre e comunque l'interesse degli azionisti minoritari in maniera equivalente a quanto avrebbe fatto la dismissione delle rispettive partecipazioni, in adesione all'OPA. Basti pensare, infatti, all'ipotesi in cui il valore delle azioni dell'emittente, al tempo dell'alienazione ex art. 110 T.U.F., sia inferiore rispetto al prezzo che avrebbe dovuto essere corrisposto nell'ambito dell'OPA obbligatoria: è evidente, in un simile caso, che tale pregiudizio patrimoniale - che potrebbe definirsi “da mancato corrispettivo ricevuto” (nell'ambito dell'OPA, appunto) - non potrebbe essere rimosso dai rimedi contemplati dall'art. 110 T.U.F. E' vero, infatti, che l'ottemperanza al precetto di cui all'art. 110 T.U.F. dovrebbe consentire di ripristinare lo status quo ante con riferimento agli assetti proprietari dell'emittente, ma in termini patrimoniali il risultato complessivo per gli azionisti privati della possibilità (rectius: del diritto) di ricevere l'offerta sarebbe negativo (e non già nullo), qualora essi si ritrovino ad avere in portafoglio azioni con un valore più basso, appunto, rispetto al corrispettivo che avrebbero potuto (e dovuto) ricevere in sede di OPA. Peraltro, qualora, come generalmente accaduto nei casi di responsabilità da mancata OPA portati all'attenzione della giurisprudenza, la soglia partecipativa rilevante sia raggiunta da soggetti che controllino congiuntamente la società in forza di un patto fra loro esistente ma non rivelato al mercato, gli azionisti orbati dell'offerta si troverebbero a poter subire un ulteriore danno, quello derivato dalla (ormai non più rimediabile) permanenza nella società nel lasso di tempo caratterizzato dall'assenza di adeguata informazione in merito al nuovo assetto di controllo (non a caso, il Tribunale di Milano, in una delle prime pronunce rese in materia, aveva osservato che il danno patito dai soci pretermessi potrebbe consistere anche “nella perdita del valore del diritto di voto, perdita resa definitiva e quindi risarcibile dal consolidamento della posizione di controllo acquisita dall'offerente, nonostante le sanzioni civili previste dall'art. 110 T.U.F.”: così Trib. Milano, 17 maggio 2007 n. 6212; per un interessantissimo spunto sul tema si veda, in letteratura, Cariello, Tutela delle minoranze e accordi parasociali nelle società quotate, in Riv. soc., 1999, 718 ss. e spec. 732).

In simili casi, peraltro, potrebbe giocare un ruolo di rilievo anche lo strumento - introdotto all'art. 1, comma 1-bis,T.U.F. dal d.lgs. n. 229 del 19 novembre 2007, ossia in un momento successivo ai fatti di causa - dell'offerta pubblica tardiva che la Consob potrebbe imporre “in alternativa all'alienazione di cui al comma 1” e - si noti - “al prezzo da essa stabilito, anche tenendo conto del prezzo di mercato dei titoli”: tale rimedio, infatti, potrebbe consentire una riparazione del pregiudizio patrimoniale inizialmente sofferto dai soci di minoranza, rappresentato dal non aver potuto beneficiare della procedura di exit in un dato momento e per un determinato corrispettivo.

In altri termini, può affermarsi che l'alienazione dell'eccedenza di cui all'art. 110 T.U.F. funga da strumento di rimozione del danno causato dalla mancata OPA soltanto nel caso in cui, al momento di detta alienazione, il valore di mercato dei titoli corrisponda (o sia addirittura superiore) al corrispettivo che avrebbe dovuto essere riconosciuto con l'OPA (non formulata) e, in pari tempo, gli azionisti diffusi conservino una concreta possibilità di dismettere le rispettive partecipazioni, soprattutto attraverso le contrattazioni borsistiche. In mancanza, salva la possibilità che la Consob prescriva la promozione di un'offerta tardiva (al prezzo dalla stessa stabilito, appunto), per i soci minoritari non residuerebbe altro rimedio che l'azione per il risarcimento del danno subìto.

Rispetto alle pronunce pregresse, la Suprema Corte sembra aver maggiormente valorizzato, nel suo ultimo arresto, il concetto di mutamento del controllo quale elemento necessario ai fini dell'insorgenza dell'obbligo di promozione dell'OPA, dando il giusto peso (non solo alla disciplina comunitaria in argomento, e in particolare alla Direttiva 2004/25/CE, ma anche) alla disposizione contenuta nell'art. 106, 5° comma, T.U.F., là dove si legge che “la Consob stabilisce con regolamento i casi in cui il superamento della partecipazione indicata nei commi 1, 1-bis e 1-ter o nel comma 3, lettera b), non comporta l'obbligo di offerta ove sia realizzato in presenza di uno o più soci che detengono il controllo […]”. Anche sotto questo profilo, del resto, non può essere sottovalutata la portata del rapporto tra la disciplina contenuta nell'art. 2497-quater c.c., da un lato, e quella dell'OPA obbligatoria, dall'altro (v. supra).

Nondimeno, la Corte di Cassazione ha espressamente statuito che il legislatore avrebbe introdotto una presunzione iuris et de iure di acquisizione del controllo dell'emittente in presenza del raggiungimento, da parte di uno o più soggetti agenti di concerto, della partecipazione corrispondente al 30% del capitale sociale (o dei diritti di voto) dell'emittente (tanto, sulla scia e sviluppando il ragionamento di Cass. 26 settembre 2013, n. 22099, nella cui motivazione si leggeva che “non è l'effettivo conseguimento del controllo della società a costituire il presupposto” dell'OPA obbligatoria): tale affermazione, tuttavia, potrebbe risultare non del tutto in linea, dal punto di vista sistematico, proprio con il disposto dell'art. 106, 5° comma, il quale, come si è appena visto, non esclude (né lo potrebbe, evidentemente) che il pacchetto azionario corrispondente alla detta soglia di partecipazione al capitale non sia, in concreto, sufficiente ad assicurare il controllo dell'emittente. Di particolare interesse diviene, allora, lo studio del problema - che in questa sede può essere solamente accennato - se, in un siffatto contesto normativo, vi siano spazi perché al soggetto “scalatore” (o ai concertisti “scalatori”) possa essere riconosciuta la possibilità di liberarsi dall'obbligo di promuovere l'OPA dando la prova - a prescindere dall'esistenza di altri azionisti di controllo - di non essere concretamente nelle condizioni di poter esercitare un'influenza dominante sulla società (o se, in caso di risposta negativa a questo primo quesito, vi siano motivi per ritenere auspicabile una rimodulazione in tal senso della disciplina legislativa).

Una più approfondita meditazione (se non un vero e proprio ripensamento) parrebbe meritare, in ogni caso, l'assunto secondo cui “la ratio insita nella stessa disciplina dell'offerta pubblica obbligatoria è, dunque, quella di consentire che del plusvalore così realizzato dal socio o dai soci alienanti[il cosiddetto premio di controllo, n.d.r.] possano, in tutto o in parte, beneficiare anche i rimanenti soci”: la Corte di Cassazione ha in tal modo mostrato, come anche in ulteriori passaggi della motivazione, di dare per acquisito che uno dei presupposti dell'obbligo di formulare l'OPA sia rappresentato, appunto, dalla circostanza che, per ottenere la titolarità della partecipazione rilevante, lo “scalatore” abbia rastrellato azioni per un corrispettivo più alto del loro valore di mercato (accettando quindi di farsi carico del cosiddetto premio di controllo). In realtà, come si è accennato in precedenza, non può escludersi che gli azionisti privati del diritto di ricevere un'OPA si vedano danneggiati anche qualora la soglia corrispondente al 30% sia stata raggiunta pagando nulla più che il prezzo di mercato delle azioni dell'emittente (la cui raccolta, del resto, potrebbe senz'altro essere diluita nel tempo e, quindi, non avvenire “in blocco”): è il caso in cui, successivamente all'insorgenza del diritto-obbligo di OPA, il valore di tali azioni diminuisca (quale che sia la ragione di tale riduzione) e, dunque, esse non siano più alienabili sul mercato al prezzo che quegli azionisti avrebbero avuto il diritto di ricevere aderendo all'OPA.

Non può escludersi, in linea generale, che tale voce di danno vada ad aggiungersi a quella che, in via di principio, è stata ritenuta risarcibile, corrispondente alla differenza tra il prezzo che avrebbe dovuto essere pagato nell'ambito dell'OPA e la quotazione di borsa delle azioni all'epoca in cui la stessa OPA avrebbe dovuto essere rivolta agli azionisti “esterni” (differenza che però sarebbe pari a zero là dove, appunto, la “scalata” sia stata compiuta a prezzo di mercato).

Non pare corretto, in altri termini, che alla cosiddetta best price rule (la regola del “prezzo più alto pagato”: cfr. art. 106, 2° comma, T.U.F.) sia attribuito il rango di presupposto dell'obbligo di offerta pubblica, anziché quello di (semplice) valore di riferimento per la determinazione del corrispettivo al quale - nell'ambito dell'OPA - deve (o avrebbe dovuto) essere assicurato il diritto di exit degli azionisti minoritari. Nulla sembra impedire, insomma, che l'OPA debba essere obbligatoriamente promossa (anche) al prezzo di mercato, se a quest'ultimo era stato commisurato il corrispettivo precedentemente pagato per il raggiungimento della partecipazione rilevante.

In tutti i casi, certamente occorre, come rilevato dalla Suprema Corte, che “i soci di minoranza dimostrino di avere perso una possibilità di guadagno a causa della mancata promozione dell'offerta, che può anche non coincidere in modo automatico con il prezzo di vendita se l'offerta fosse intervenuta, dovendosi considerare anche gli eventi successivi incidenti sul valore di borsa delle azioni rimaste in portafoglio”.

Pochi dubbi dovrebbero sussistere con riguardo alla prima parte di questa affermazione, in sé considerata: ossia in merito al fatto che gli azionisti attori in giudizio debbano provare (si tratta nientemeno che del nesso di causalità tra la condotta contestata ed il danno lamentato) che avrebbero effettivamente alienato le azioni di loro proprietà qualora avessero ricevuto l'OPA. Ciò deve valere, si badi, sia con riguardo a coloro che abbiano alienato le loro azioni sul mercato in seguito al verificarsi dei presupposti per il lancio dell'OPA (ma a condizioni deteriori rispetto a quelle che proprio l'OPA avrebbe dovuto garantire), sia con riferimento alla posizione di quanti abbiano invece conservato in portafoglio le azioni della società: entrambe queste categorie di soggetti debbono essere ritenute, invero, legittimate ad instaurare l'azione risarcitoria (cfr., in proposito, Giudici, La responsabilità civile nel diritto dei mercati finanziari, Milano, 2008, 308).

Ricca di interessanti implicazioni (e fonte di ulteriori riflessioni) potrebbe essere, infine, la seconda parte del passo della motivazione poc'anzi riportato, in cui la Suprema Corte ha fatto riferimento alla necessità di considerare gli “eventi successivi incidenti sul valore di borsa delle azioni rimaste in portafoglio”.

Non sembra - ma già lo si è detto - che possa dirsi priva di rilievo l'eventuale successiva perdita di valore, sul mercato, delle azioni che avrebbero potuto essere cedute in adesione all'OPA: il che dovrebbe consentire di riconoscere ai soci minoritari dell'emittente - naturalmente a fronte della prova del nesso di causalità, come individuato poc'anzi - il diritto al risarcimento del danno anche qualora l'OPA avrebbe dovuto essere promossa per il valore che, all'epoca, le stesse azioni avevano sul mercato (e quindi senza riconoscimento del cosiddetto premio di controllo).

Piuttosto, il detto passo induce a domandarsi se possa operare, in subiecta materia, il noto principio della compensatio lucri cum damno: il pensiero va, in particolare, all'ipotesi in cui, a seguito del (e nonostante il) mancato lancio dell'OPA, le azioni dell'emittente acquisiscano viceversa un valore di mercato superiore al prezzo che avrebbe dovuto essere riconosciuto in sede di OPA: fermo restando che anche quest'ultima questione richiederebbe verosimilmente ben altro approfondimento, potrebbe essere tacciata di troppo formalismo, almeno prima facie, la soluzione già adottata dal Tribunale di Milano nella pronuncia dell'8 maggio 2006, secondo cui la compensatio lucri cum damno sarebbe messa fuori gioco dal fatto che uno dei suoi presupposti applicativi risiede nella comune radice del lucro e del danno destinati - almeno parzialmente - ad elidersi, i quali non potrebbero avere origine in eventi tra loro diversi ed indipendenti (per un commento alla pronuncia in parola, cfr. Rolfi, Quando l'O.P.A. diventa veramente ‘obbligatoria', in Corr. giur., 2006, 995 ss.; ma v. anche, più di recente, Trib. Milano, 15 marzo 2010, in Società, 2010, 771).

Appare agevole, d'altro canto, l'obiezione che, in tal modo, gli azionisti pretermessi ne uscirebbero ingiustificatamente arricchiti. Non può escludersi a priori, nondimeno, che, nonostante il più elevato valore di mercato assunto dalle azioni dell'emittente, i loro titolari incontrino maggiori difficoltà nel cederle sul mercato. Non va dimenticato, in proposito, che attraverso la disciplina dell'OPA obbligatoria l'ordinamento ha inteso garantire ai piccoli azionisti - in presenza di un evento di sicuro rilievo per l'assetto proprietario e per le sorti dell'emittente - un “diritto di uscita” dalla società in tempi relativamente rapidi e ad un prezzo determinato, eliminando i rischi, le incertezze ed i possibili inconvenienti connessi all'effettuazione di un'operazione condotta sul mercato dei capitali.