L'autore analizza i riflessi concreti dell'applicazione del principio emerso da Cass. civ., n. 17441/2016 al caso in cui agli amministratori non esecutivi venga contestato di non avere assunto iniziative volte a contrastare gli effetti di un contratto già concluso prima della loro nomina.
La responsabilità da omissione ex art. 2392, comma 2, dopo la riforma
La recente pronuncia della Suprema Corte (Cass. civ., Sez, I, 31 agosto 2016 n. 17441) ha offerto al giudice di legittimità l'occasione per puntualizzare le coordinate in base alle quali identificare, nel vigore della normativa espressa dalla riforma del diritto societario, la responsabilità degli amministratori non operativi.
Riaffermata la natura contrattuale di tale responsabilità, la Corte ha sottolineato come, secondo la regola generale, incomba sulla società (o sulla curatela fallimentare) attrice tanto la prova della violazione del dovere gravante sull'amministratore convenuto, quanto quella concernente il danno subito ed il nesso di causalità tra inadempimento e danno.
Per quanto riguarda il primo tema, ossia quello della violazione, si ricorda in sentenza che la previgente formulazione del comma 1 dell'art. 2392 c.c. faceva obbligo a tutti gli amministratori, di adempiere ai loro doveri «con la diligenza del mandatario», mentre il comma 2 dello stesso articolo fissava i termini di un generale dovere di sorveglianza, stabilendo che «in ogni caso gli amministratori sono solidalmente responsabili se non hanno vigilato sul generale andamento della gestione».
La formulazione di questa regola, ricorda ancora la Corte, aveva dato fondamento e sostegno ad un orientamento giurisprudenziale molto penalizzante per gli amministratori non esecutivi, ai quali, in presenza di illeciti compiuti dagli organi delegati, veniva sistematicamente contestato di non aver adempiuto con la dovuta diligenza all'obbligo di vigilanza, con conseguente insorgenza, a loro carico, della responsabilità solidale prevista dalla legge che, di fatto, dava origine ad un sistema sconfinante nella responsabilità oggettiva.
Proprio per evitare questo risultato il legislatore è dunque intervenuto con una nuova formulazione dell'art. 2392 c.c., sostituendo il riferimento al dovere di vigilanza sul generale andamento della gestione con un richiamo al comma 3 dell'art. 2381 c.c., che impone al consiglio di amministrazione di valutare l'adeguatezza dell'assetto amministrativo, organizzativo e contabile della società.
Secondo la Corte questo rinvio è da intendersi «necessariamente esteso» anche al comma 6 dell'art. 2381 c.c., a mente del quale «gli amministratori sono tenuti ad agire in modo informato; ciascun amministratore può chiedere agli organi delegati che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione della società».
Il che comporta che la responsabilità addebitabile agli amministratori non esecutivi ai sensi del comma 2 dell'art. 2392 – per non aver impedito il compimento di atti pregiudizievoli o per non aver fatto quanto possibile per eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose – non discende più, con una sorta di automatismo necessario, dalla violazione di un generale dovere di vigilanza, ma si trova ad essere in stretta connessione con l'obbligo di agire informati.
L'omissione dell'amministratore sarà quindi fonte di responsabilità solo laddove si provi che egli era - o comunque avrebbe dovuto essere, se avesse agito con la dovuta diligenza - a conoscenza dei “fatti pregiudizievoli” per contrastare il compimento o gli effetti dei quali avrebbe potuto e dovuto intervenire.
Così si legge nella motivazione: «nel contesto normativo attuale, gli amministratori non operativi rispondono per non aver impedito ‘fatti pregiudizievoli' dei quali abbiano acquisito in positivo la conoscenza (anche per effetto delle informazioni ricevute ai sensi dell'art. 2381 c.c.) ovvero dei quali debbano acquisire conoscenza, ai sensi dell'obbligo posto dall'ultimo comma dell'art. 2381 c.c.: per il che occorre che la semplice facoltà di ‘chiedere agli organi delegati che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione della società' sia innescata, così da trasformarsi in un obbligo positivo di condotta, da elementi tali da porre sull'avviso gli amministratori alla stregua della ‘diligenza richiesta dalla natura dell'incarico e dalle loro specifiche competenze».
Sulla scorta di questa ricostruzione del sistema di legge prodottosi a valle della riforma del 2003 – ricostruzione certamente lucida e rigorosa – il giudice di legittimità ha cassato la decisione resa dalla corte di merito romana, che, stando a quanto si legge nella pronuncia in commento, per affermare la responsabilità degli amministratori convenuti si era accontentata di accertare il mancato intervento, da parte loro, con l'adozione di misure di salvaguardia degli interessi e dei diritti della società, senza indagare né sulla natura delle informazioni di cui quegli amministratori effettivamente disponevano, né sulla consistenza degli indici di anomalia che avrebbero eventualmente dovuto costringerli ad acquisire quelle stesse informazioni richiedendole agli organi delegati, come prescritto dall'ultimo comma dell'art. 2381 c.c.
Il maggior motivo di riflessione è offerto dalla peculiarità del caso esaminato dai giudici, caso caratterizzato dal fatto che agli amministratori convenuti era stato rimproverato, dagli organi del fallimento attore, di non aver assunto alcuna iniziativa volta ad «annullare o rimettere in discussione» un contratto, probabilmente viziato, che risultava essere stato stipulato prima della loro nomina.
La censura così formulata era stata condivisa dai giudici di merito, i quali, pur non addebitando alcuna responsabilità “commissiva” ai convenuti (essendo essi certamente estranei alla conclusione del contratto ritenuto dannoso), li avevano condannati al risarcimento del danno per avere «indubbiamente assistito inerti al dissesto della società», causato dall'esecuzione di quel contratto (vale a dire dal pagamento del prezzo della partecipazione acquistata).
È allora urgente chiedersi in che modo e con quali limiti possa rimproverarsi ad un amministratore di non avere assunto iniziative tese ad impedire l'esecuzione di un contratto già concluso prima del suo insediamento.
Il tema sembra certamente da svolgere sul terreno della diligenza. In questo senso è possibile rimarcare che, per quanto è dato di comprendere, la corte di merito aveva condannato gli amministratori in base al comma 1 dell'art. 2392 (che impone un generale dovere di diligenza qualificata) e non al comma 2 (che, in presenza di fatti pregiudizievoli, fa obbligo di intervenire con le misure occorrenti ad impedire o ridurre il danno), mentre, come rilevato, la corte di legittimità sembra avere imperniato la propria decisione sul disposto del secondo comma e sulla portata del rinvio che in esso viene fatto alla disposizioni di cui al comma 3 e, implicitamente, al comma 6 dell'art. 2381 c.c.
In realtà l'osservazione non pare di grande momento, essendo ragionevole leggere nella regola codificata all'art. 2392, comma 2, c.c. niente altro che una logica specificazione di quella riportata al comma 1, trovandosi in essa definito il contenuto minimo del dovere di diligenza imposto agli amministratori, i quali devono quantomeno («in ogni caso») rendersi parte diligente per tutelare gli interessi della società amministrata ogniqualvolta vengano a conoscenza di un fatto capace di danneggiarla.
Quando il contratto già esistente può essere considerato “fatto pregiudizievole”
Ma a quali condizioni l'amministratore può e deve considerare un contratto già concluso dalla società come «fatto pregiudizievole»? Il fatto è oggettivo, ma per qualificarlo “pregiudizievole” è indispensabile procedere ad una valutazione che inevitabilmente introduce una componente soggettiva ed in qualche modo discrezionale.
Il discrimine non sembra poter essere ancorato alla convenienza economica dell'affare, dato che per tal via si darebbe ingresso a quella stessa valutazione ex post che, una volta accettato il generale principio dell'insindacabilità delle decisioni di merito, è invece preclusa, ai fini dell'irrogazione di una sanzione a carico dell'amministratore responsabile della conclusione del contratto. Sarebbe cioè contraddittorio applicare da un lato la business judgement rule a tutela dell'amministratore che ha deciso la stipulazione del contratto e, dall'altro, aprire invece la strada ad un sindacato sulla valutazione che di quello stesso contratto sia stata successivamente espressa da un altro amministratore.
È chiaro, certo, che non si può trascurare il concreto evolversi dei fatti e che quindi quello stesso contratto che era stato correttamente deciso dal primo amministratore (pur errando nel giudicarne la convenienza) può in seguito apparire manifestamente sbagliato, essendo nel frattempo intervenuti sviluppi sufficienti a dimostrarne la portata dannosa.
In tal caso, però, al secondo amministratore che non abbia assunto alcuna iniziativa per rimediare all'errore del suo predecessore non potrà mai essere contestata una violazione del precetto di cui all'art. 2392, comma 2, c.c. ma unicamente una violazione delle regole di buona gestione, quando risulti che l'assunzione di una nuova iniziativa negoziale sarebbe stata idonea a comprimere o azzerare il danno. Laddove però ciò fosse da collegare ad un errore di valutazione, la società potrebbe reagire solo revocando il responsabile dalla carica, non certo dando corso ad un'azione risarcitoria nei suoi confronti.
La descritta situazione sarebbe infatti del tutto analoga a quella che si presenterebbe laddove la società avesse subito un danno a causa non della conclusione, ma della mancata conclusione, da parte di un amministratore, di un contratto conveniente. È indiscutibile che l'amministratore subentrante, se responsabile di essere incorso nello stesso errore e quindi di non avere corretto il tiro mediante una stipulazione tardiva, potrebbe al più essere revocato dai soci, ma non certo condannato a risarcire il danno provocato con una condotta che, per quanto omissiva, ricade sicuramente nell'area della discrezionalità amministrativa e gode pertanto della protezione assicurata dalla business judgement rule.
La riconduzione del contratto già concluso nel novero dei “fatti pregiudizievoli” deve allora trovare un'altra matrice causale. Nella vicenda decisa con la sentenza in rassegna, pare essersi data importanza al dato temporale, venendo in essa messo in evidenza che la nomina dei nuovi amministratori era intervenuta nel periodo compreso tra la stipulazione del contratto dannoso e l'effettuazione dei pagamenti da tale contratto imposti.
Avrebbe senso, per sostenere l'azione risarcitoria nei confronti dei nuovi amministratori, identificare il “fatto pregiudizievole” non nel contratto già concluso al momento del loro insediamento, ma nel pagamento successivamente effettuato dalla società in esecuzione di quel contratto?
La risposta negativa sembra scontata, almeno nella misura in cui non vi sia chiara evidenza di una tale invalidità o inesistenza del contratto da recidere il giudizio di doverosità che naturalmente si accompagna all'esecuzione contrattuale e da configurare quindi il pagamento come atto non dovuto e autonomamente dannoso.
Non si può infatti dimenticare che il contratto, fintanto che il giudice non ne ha affermato l'invalidità, ha forza di legge tra le parti ed obbliga quindi l'amministratore della società contraente a rispettarne i termini, anche dando corso ad attività che risultino oggettivamente svantaggiose.
Non sembra allora sostenibile che all'amministratore possa imputarsi, in prospettiva risarcitoria, di avere tenuto un comportamento che la legge qualifica come doveroso e la cui omissione sarebbe stata quindi antigiuridica, perché configurabile in termini di inadempimento.
Una conclusione contraria, si ripete, potrebbe essere ipotizzata solo nel caso in cui all'amministratore si sia presentata una tale evidenza di invalidità del contratto da offrire sicuro sostegno alla scelta di non dare corso agli impegni non validamente assunti.
L'interferenza tra il giudizio di dannosità rilevante ex art. 2393 e quello di invalidità del contratto: la diligenza richiesta all'amministratore
Quest'ultima osservazione, che implica naturalmente una valutazione di tipo giuridico, consente di fare un passo avanti nella lettura del comma 2 dell'art. 2392, identificando il “fatto pregiudizievole”, nell'ipotesi qui in discorso, anche in funzione dell'invalidità del contratto già stipulato dai precedenti amministratori.
Per quanto la cosa non sia chiaramente espressa nella sentenza, la ricostruzione dei fatti riportata in motivazione – e segnatamente la sottolineatura della commistione tra gli interessi della società venditrice e quelli dell'amministratore responsabile di quell'acquisto la cui dannosità ha in seguito generato il dissesto della società - consente proprio di concludere che il “fatto” sia stato individuato dai giudici (non nell'esecuzione contrattuale, ma) nel contratto stesso e che la qualifica di “pregiudizievole” sia da connettere alla sua illegittimità.
In questo senso è significativo che il giudice di merito abbia contestato ai convenuti, come già si è ricordato, di non avere assunto alcuna iniziativa «come l'annullare ovvero il rimettere in discussione il contratto».
È evidente, però, che imboccare questa via rischia di introdurre considerevoli complicazioni nella definizione del perimetro della diligenza richiesta agli amministratori dall'art. 2392, comma 1, c.c.
È noto, e costantemente sottolineato, il senso della scelta operata dal legislatore del 2003, che non chiede più agli amministratori di comportarsi «con la diligenza del mandatario» ma ora impone loro, in maniera molto più puntuale e attenta alla situazione concreta, di agire con la «diligenza richiesta dalla natura dell'incarico e dalle loro specifiche competenze».
Per quanto il richiamo alle “specifiche competenze” sembri implicare un obbligo di perizia, anche se variabile in funzione delle caratteristiche soggettive, la dottrina tende per lo più a ritenere che la formulazione di legge non imponga all'amministratore di essere esperto e capace, ma lo vincoli solo ad essere consapevole dei propri limiti ed a raccogliere, per compensarne la portata, i più opportuni contributi tecnico-professionali.
L'amministratore risponde dunque del danno cagionato per avere adottato scelte amministrative senza aver previamente rimediato alle proprie carenze cognitive.
La conclusione, certamente da condividere nel quadro dell'auspicata procedimentalizzazione della gestione societaria, lascia tuttavia aperto un notevole margine di incertezza nel momento in cui viene applicata all'ipotesi oggetto delle presenti note.
Il nuovo amministratore può certo venire a conoscenza del “fatto” costituito dal contratto già concluso dal suo predecessore e tale conoscenza deve considerarsi sicura nel momento in cui le relative attività negoziali siano ancora da esaurire nel momento di assunzione della carica.
Ma se la natura “pregiudizievole” di quel fatto coincide con l'invalidità del contratto, come è possibile per l'amministratore rilevare il vizio e, quindi, attivarsi, secondo il precetto di cui al comma 2 dell'art. 2392, con le iniziative necessarie per impedire o azzerare il danno?
La norma, nel testo novellato del 2003, afferma che gli amministratori sono responsabili laddove non si siano opportunamente attivati pur essendo «a conoscenza» di atti pregiudizievoli, «fermo quanto disposto dal comma 3 dell'art. 2381 c.c.». Ciò verosimilmente significa, come più sopra si ricordava, che la responsabilità risarcitoria solidale non si attiva solo nel caso in cui l'amministratore fosse effettivamente a conoscenza del fatto pregiudizievole, ma anche nel caso in cui la sua mancata conoscenza sia dipesa da sua colpa, essendo mancata la valutazione – imposta appunto dal comma 3 dell'art. 2381 - sull'adeguatezza dell'assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società.
Ritornando al tema in esame sembra evidente la difficoltà di applicare la regola codicistica nel momento in cui si tratti di identificare il vizio che potrebbe in teoria aver inficiato la stipulazione compiuta dall'amministratore: siamo nel campo delle valutazioni tecnico-giuridiche ed appare illogico pensare che gli amministratori possano dar vita ad una stabile struttura endosocietaria capace di esprimere giudizi che possono essere difficili anche per qualificate realtà professionali.
Se dunque è difficile pensare che la conoscenza dell'invalidità del contratto già concluso possa essere segnalata dalle strutture interne della società, resta da comprendere se l'affermazione di responsabilità possa derivare, a carico dell'amministratore non consapevole del vizio giuridico, dal non aver provveduto a raccogliere ulteriori informazioni presso gli organi delegati.
Questo il senso sostanziale della pronuncia in commento, laddove il giudice di legittimità chiarisce che il rinvio operato nel comma 2 dell'art. 2392 al comma 3 dell'art. 2381 c.c. «è da ritenersi necessariamente esteso anche al sesto comma dell'art. 2381 c.c.» che richiede a ciascun amministratore di agire in modo informato e gli consente, a tal fine, «di chiedere agli organi delegati che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione della società».
Non c'è da dubitare che nel novero delle informazioni – relative alla gestione - che i consiglieri non esecutivi possono chiedere agli organi delegati non possono essere comprese valutazioni giuridiche sui contratti già conclusi, con la conseguenza che non saranno certo queste informazioni a far acquisire la conoscenza del fatto “pregiudizievole”, nel senso indicato.
In conclusione
Al massimo si dovrà allora ammettere che, in presenza di elementi sospetti (quale, nel caso esaminato dai giudici, il verosimile conflitto di interessi che poteva avere influenzato la scelta del precedente amministratore), gli amministratori non esecutivi subentranti, se venuti a conoscenza del contratto (come “fatto”), debbano attivarsi non tanto e non solo per chiarire l'accaduto con gli organi delegati, ma anche per sollecitare la raccolta di pareri professionali indipendenti capaci di orientare le scelte future.
Come opportunamente afferma la corte, infatti, ad “innescare” la facoltà di chiedere informazioni di cui al comma 6 dell'art. 2381 c.c., trasformandola in un obbligo positivo di condotta, sono gli elementi anomali, vale a dire quelli che, tenuto conto della diligenza dovuta dagli amministratori (e, qui decisivamente, delle competenze specifiche di ciascuno), possono considerarsi sufficienti ad attivare un segnale di allarme.
A ben riflettere si potrebbe anzi affermare che il rilievo dell'elemento fattuale anomalo imponga all'amministratore di sollecitare il consiglio a raccogliere un contributo specialistico, secondo il generale dovere di diligenza di cui all'art. 2392, comma 1, c.c. e che sia poi il risultato di questa attività, se risoltasi nell'evidenza di illegittimità del già concluso contratto e quindi nella conoscenza di un “fatto pregiudizievole”, ad attivare la regola di cui al secondo comma, imponendo l'adozione di nuove misure a salvaguardia della società.
Laddove però non siano apprezzabili manifeste anomalie – e dunque in tutti i casi in cui il vizio possa essere affermato solo all'esito di un'analisi specialistica – l'amministratore, pur al corrente dell'esistenza del contratto e dei negativi effetti economici da esso generati sul patrimonio sociale, non potrà mai essere percosso da una pretesa risarcitoria per non aver attivato rimedi sufficienti a rimuovere o attenuare le conseguenze dannose a carico della società.
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La responsabilità da omissione ex art. 2392, comma 2, dopo la riforma
Quando il contratto già esistente può essere considerato “fatto pregiudizievole”
L'interferenza tra il giudizio di dannosità rilevante ex art. 2393 e quello di invalidità del contratto: la diligenza richiesta all'amministratore