Le nuove sanzioni civili ex d.lgs. n.7/2016: alcuni profili critici di una strana scelta legislativa
13 Aprile 2016
Gli articoli 3 e 4 del d.lgs. n. 7/2016
Con il D.Lgs n. 7/2016 il Legislatore, in esecuzione della Legge delega del 28 aprile 2014, n. 67, ha provveduto all'abrogazione di alcune fattispecie criminose. A norma dell'art. 3 del citato D.Lgs., infatti, l'autore degli illeciti dolosi previsti dal successivo art. 4 è obbligato «oltre che alle restituzioni e al risarcimento del danno secondo le leggi civili, anche al pagamento della sanzione pecuniaria civile ivi stabilita». In particolare, a norma dell'art. 4, comma 1, soggiace alla sanzione pecuniaria civile da euro 100,00 ad euro 8.000,00:
Ai sensi del comma 4 del medesimo articolo è invece soggetto alla sanzione pecuniaria civile da euro 200,00 ad euro 12.000,00:
La sanzione pecuniaria civile in favore della Cassa delle ammende (art. 10) viene inflitta solo se il fatto illecito è commesso con dolo (art. 3, comma 1) e sempre che il giudice civile accolga nei confronti del responsabile la domanda di risarcimento del danno avanzata dalla “persona offesa” (art. 8, comma 2). Prescindendo dalle ragioni che hanno indotto il Legislatore ad abrogare talune fattispecie di reato – nel tentativo di deflazionare parzialmente la giustizia penale – interessa soprattutto analizzare alcune criticità della scelta di escludere la sanzione penale per tali specifiche condotte illecite dolose e di sostituirla con una sanzione civile, ed inoltre evidenziare certi aspetti della nuova disciplina dai quali sembra invero emergere, quantomeno, una qualche disattenzione verso alcuni caratteri propri del processo civile e che rischiano di renderlo difficilmente compatibile con l'avvertita esigenza di applicazione della sanzione pecuniaria prevista dal citato art. 4, D.lgs. n. 7/2016. La inequivoca previsione che «il provento della sanzione pecuniaria civile è devoluto a favore della Cassa delle ammende» (art. 10) consente di escludere con certezza che la sanzione in questione possa in qualche modo costituire una forma di risarcimento (sanzionatorio) per il danneggiato dal fatto illecito. Al tempo stesso, la sanzione civile da pagare all'erario è un chiaro indice della plurioffensività dell'illecito civile in presenza del quale il giudice è chiamato (tenuto) ad applicarla al responsabile. Si tratta all'evidenza di fatti (prima reato) in presenza dei quali l'ordinamento avverte tuttora la necessità di punire l'autore della condotta illecita, con una sanzione civile che mira (a prevenire e) a reprimere la lesione di un interesse della collettività che va al di là della sfera giuridica della persona offesa (eventualmente danneggiata dall'illecito). Nonostante ciò, la tutela di tale interesse pubblico – e la condanna del responsabile – non solo viene lasciata all'iniziativa giudiziale della persona offesa (rectius: del danneggiato), ma la stessa punizione del responsabile è subordinata all'esistenza di un danno risarcibile che il giudice riconosca alla vittima dell'illecito. Infatti, a norma dell'art. 8 il giudice «al termine del giudizio» è chiamato a decidere sull'applicazione della sanzione civile pecuniaria, con il medesimo provvedimento decisorio con il quale accoglie la domanda risarcitoria proposta dalla persona offesa (comma 2). Il comma 3 dell'art. 8 (in ossequio ad alcune decisioni della Corte di Giustizia sul doveroso rispetto del diritto di difesa nel processo finalizzato alla irrogazione di sanzioni afflittive) si premura di precisare che, tuttavia, la sanzione pecuniaria non può essere applicata se il responsabile è rimasto contumace e l'atto introduttivo gli è stato notificato nelle forme dell'art. 143 c.p.c., «salvo risulti con certezza che abbia avuto comunque conoscenza del processo». A prescindere dai non esplicitati ed oscuri elementi da cui dovrebbe risultare con certezza al giudice che “la controparte” (rectius: il convenuto) ha comunque avuto conoscenza del processo, il Legislatore sembra muovere da una singolare presunzione di non conoscenza del processo in capo a colui che ha ricevuto la notifica dell'atto introduttivo della causa nelle forme dell'art. 143 c.p.c. («Notificazione a persona di residenza, dimora e domicilio sconosciuti»), il quale ben potrà in tali casi continuare ad essere condannato a risarcire danni anche ingenti all'attore ma non potrà essere condannato al pagamento della sanzione pecuniaria civile, pure conseguente alla medesima condotta illecita dolosa oggetto di causa. Dalla scelta di subordinare l'applicazione della sanzione pecuniaria all'accoglimento della domanda risarcitoria del danneggiato, deriva in ogni caso sia che in assenza di una domanda di condanna del responsabile a risarcire il danno (patrimoniale o non patrimoniale) non sarà mai applicabile la sanzione pecuniaria in questione, sia che la stessa non potrà mai essere applicata in assenza di una pronuncia del giudice che condanna il responsabile (anche) al risarcimento del danno. Pertanto, l'applicazione della sanzione pecuniaria civile - che tende come detto a punire la lesione di interessi che vanno oltre la sfera del danneggiato - non solo è rimessa all'iniziativa giudiziale del privato, ma viene fatta altresì dipendere sia dal fatto che la condotta illecita abbia anche provocato danni risarcibili ad un determinato soggetto (“persona offesa” secondo la terminologia del Legislatore), sia dal fatto che il risarcimento di tali danni avvenga solo per effetto di una pronuncia di condanna del giudice civile. In tutti i casi in cui la “persona offesa” da una della condotte dolose previste dall'art. 4 non fa valere in giudizio una pretesa risarcitoria (sia perché non ha subito danni risarcibili, sia perché essi gli vengono risarciti spontaneamente dal responsabile o all'esito di una ADR o ancora sulla base di un accordo conciliativo stragiudiziale e/o giudiziale delle parti che ponga fine alla controversia sulla domanda di risarcimento), così pure in tutti i casi in cui comunque il giudice all'esito del processo per qualsiasi ragione non accoglie la domanda di risarcimento del danno (per incompetenza del giudice adito, per difetto di legittimazione attiva, per mancanza di prova di un danno risarcibile o magari perché il danno non patrimoniale subito dal danneggiato non è tale da superare la soglia minima di gravità richiesta dal cd diritto vivente ecc.), è esclusa la possibilità che al responsabile di una delle condotte previste dall'art. 4 possa venire applicata la sanzione pecuniaria. In tutti i casi appena ipotizzati, la pretesa punitiva statuale conseguente alla lesione di un interesse pubblico è destinata a restare insoddisfatta. Ora, posto che il processo civile avente ad oggetto il diritto al risarcimento del danno è governato da alcuni principi cardine che lo caratterizzano - fra cui il necessario impulso di parte e la disponibilità delle domande e delle prove - la scelta legislativa di subordinare l'applicazione della sanzione pecuniaria civile alla necessaria condanna del responsabile a risarcire il danno in favore della vittima dell'illecito risulta quanto meno discutibile (e probabilmente inopportuna). È ragionevole infatti prevedere che, a fronte del rischio di vedersi condannato oltre che al risarcimento del danno anche al pagamento di una sanzione pecuniaria – da commisurare in base ai criteri dell'art. 5 e che può in concreto risultare ben maggiore del danno provocato alla controparte - il responsabile dell'illecito sarà “indotto” a trovare un accordo con il preteso danneggiato, in modo da prevenire la lite giudiziale o da porre termine alla causa, eventualmente anche “accettando” di pagare a titolo di risarcimento del danno una somma superiore all'effettivo pregiudizio provocato alla persona offesa, ma ritenuta “conveniente” rispetto all'importo complessivo che rischierebbe di pagare all'esito del processo a titolo risarcitorio e come sanzione pecuniaria civile. Inoltre, la disciplina sembra prestarsi anche ad azioni strumentali della (pretesa) persona offesa da una delle condotte tipizzate nell'art. 4, la quale può essere “invogliata” a proporre l'azione risarcitoria (magari senza neppure adeguatamente dedurre l'esistenza di danni risarcibili subiti) sperando di trarre un qualche “beneficio” economico dal timore del convenuto/responsabile di vedersi condannare al pagamento della sanzione pecuniaria civile. A fronte della scelta legislativa di abrogare talune fattispecie di reato e di non procedere alla loro depenalizzazione (come avvenuto per i reati oggetto del D.Lgs n. 8/2016), attesa l'indubbia illiceità (anche per l'ordinamento civile) delle condotte in questione sarebbe stato forse preferibile prevedere la condanna del responsabile al pagamento di una sanzione pecuniaria in favore della “persona offesa” (in aggiunta all'eventuale risarcimento del danno provocato). D'altra parte l'ordinamento non ignora le sanzioni civili previste a vantaggio della vittima dell'illecito, come ad esempio quella prevista dall'art. 12 della legge sulla stampa (L. n. 47/1948) a carico del responsabile della diffamazione aggravata (e sempre che non si voglia qualificare come una sanzione civile anche la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c.). La competenza
«Le sanzioni pecuniarie civili sono applicate dal giudice competente a conoscere dell'azione di risarcimento del danno» (art. 8 comma 1). Il giudice competente ad applicare la sanzione pecuniaria è quindi lo stesso giudice competente sulla domanda risarcitoria proposta dal danneggiato. In tal caso il termine “giudice” usato dal legislatore va inteso come l'organo giudicante (solitamente il giudice monocratico, ma potrebbe trattarsi anche del collegio in caso di cumulo/connessione della domanda risarcitoria con un'altra domanda soggetta alla riserva di collegialità) chiamato a decidere in primo grado sulla domanda di risarcimento del danno che si fonda su una delle condotte dolose previste dall'art. 4, D.Lgs. n. 7/2016. L'attribuzione “riflessa” della competenza, allo stesso giudice competente a conoscere della domanda risarcitoria, comporta che ad applicare al responsabile la sanzione pecuniaria civile può essere in ogni caso solo il giudice competente sulla domanda dell'attore. Pertanto, il giudice che dichiara la propria incompetenza (per territorio, per valore o per materia) sulla domanda risarcitoria non può applicare la sanzione pecuniaria civile, spettando ogni decisione anche sulla sanzione al giudice che indica come competente (sempre che le parti riassumano il processo nei tempi e nelle forme dell'art. 50 c.p.c.). Inoltre, in ogni caso il giudice è tenuto a valutare la propria competenza secondo gli ordinari criteri previsti dal codice di rito (artt. 18 c.p.c e ss), senza che incida in alcun modo l'applicabilità nel caso concreto della sanzione pecuniaria né l'eventuale entità della stessa. È ben possibile dunque che a fronte di una causa di risarcimento del danno avanzata per un modesto pregiudizio rientrante nel limite della competenza per valore del Giudice di Pace, questi si trovi poi ad applicare al responsabile una sanzione pecuniaria civile per un importo che supera ampiamente il limite della sua competenza. Il procedimento delineato dal legislatore delegato non sembra lasciare dubbi circa il fatto che, in presenza dei presupposti sopra accennati che fanno scattare l'applicazione della sanzione pecuniaria civile (commissione dolosa di uno dei fatti illeciti previsti dall'art. 4 e fondatezza della domanda risarcitoria avanzata dalla persona offesa sulla base del medesimo fatto), il giudice è tenuto a condannare il convenuto/responsabile al pagamento della sanzione pecuniaria in favore della Cassa delle ammende, da determinare (all'interno dei limiti edittali previsti dalla legge) sulla base dei criteri previsti nell'art. 5. L'applicazione della sanzione pecuniaria prescinde totalmente da una domanda avanzata al riguardo dall'attore danneggiato dall'illecito (privo di interesse in relazione all'irrogazione della sanzione civile al responsabile) e anche l'accertamento dell'elemento soggettivo (dolo) che fa scattare la sanzione deve ritenersi estraneo all'onere probatorio gravante sull'attore, al quale come noto è sufficiente provare la colpa del convenuto per vedersi riconoscere il diritto al risarcimento del danno. Pare doveroso chiedersi se, in presenza di un fatto allegato dall'attore (a fondamento della domanda risarcitoria) che può astrattamente essere ricondotto in una delle fattispecie tipizzate nell'art. 4, il giudice sia tenuto ad attivare d'ufficio i mezzi di prova necessari ad accertare l'esistenza del dolo del responsabile e gli altri elementi di cui ex art. 5 deve tener conto per determinare la sanzione civile applicabile nel caso concreto. Il principio dispositivo che caratterizza il processo civile avente ad oggetto diritti disponibili e la doverosa posizione di imparzialità e di terzietà del giudice, voluta dalla Costituzione (art. 111 Cost.) a garanzia del giusto processo, inducono a ritenere che il giudice non debba attivarsi d'ufficio per l'accertamento degli elementi necessari all'applicazione della sanzione pecuniaria civile e che solo qualora tali elementi emergano dal materiale probatorio fornito dalle parti provvederà ad applicare la sanzione de quo. Infine, il rispetto del diritto di difesa rende indubbio che il convenuto/responsabile dell'illecito deve essere ammesso a provare circostanze idonee a far escludere il dolo, nonché a fornire al giudice tutti gli elementi che ritiene utili per una commisurazione minima della sanzione eventualmente applicabile nei suoi confronti. Il Legislatore delegato non prevede alcunché in merito all'impugnazione della sanzione pecuniaria civile. Essendo la sua applicazione iniziale subordinata come detto all'accoglimento dell'azione risarcitoria avanzata dalla vittima dell'illecito, deve ritenersi che, a seguito dell'impugnazione della pronuncia di condanna al risarcimento del danno da parte del responsabile del fatto, la totale riforma di tale statuizione determina automaticamente anche la caducazione della pronuncia di applicazione della sanzione pecuniaria (venendo meno un suo presupposto indefettibile). Le stesse conseguenze sembrano potersi abbastanza agevolmente far derivare qualora il giudice dell'impugnazione, pur non accogliendo la richiesta di integrale riforma della condanna al risarcimento del danno, escluda il dolo del responsabile del fatto illecito. Maggiori difficoltà in sede applicativa possono invece sorgere in numerosi altri casi non difficili da ipotizzare. In particolare, si pensa al caso del responsabile di un fatto illecito, rientrante fra quelli previsti dall'art. 4, il quale si è visto applicare la sanzione pecuniaria (a seguito della condanna al risarcimento del danno) e intende impugnare la decisione di primo grado limitatamente all'applicazione della sanzione civile e/o all'entità della stessa, senza dolersi anche della statuizione sulla domanda risarcitoria (che pure lo vede soccombente ma rispetto alla quale magari preferisce prestare acquiescenza). In mancanza di qualsiasi previsione normativa e tenuto conto di come è disciplinata dal Legislatore l'applicazione d'ufficio della sanzione civile, sembrerebbe da escludere la possibilità per il responsabile dell'illecito di proporre appello solo avverso la pronuncia relativa alla sanzione (salvo probabilmente in tal caso il ricorso in Cassazione ex art. 113). Peraltro, nel caso di specie, venendo a formarsi il giudicato sulla domanda risarcitoria verrebbe persino a mancare in sede di gravame una controparte del responsabile (appellante), dal momento che l'attore originario non avrebbe nessun interesse all'esito del giudizio di appello. Ancora, mentre deve ritenersi che l'attore originario rimasto soccombente in primo grado ben può ovviamente appellare la decisione di primo grado sfavorevole e che in tal caso – posto che la legge fa un riferimento generico al giudice che accoglie la domanda di risarcimento della persona offesa (art. 8) - se il giudice dell'appello accoglie la domanda risarcitoria può (anzi deve) applicare d'ufficio all'appellato la sanzione pecuniaria civile qualora ne ricorrano tutti i presupposti, più problematico appare ricostruire come può atteggiarsi in altri casi l'effetto devolutivo dell'appello in relazione alla sanzione civile e in genere quali siano i poteri del giudice di appello in merito a essa. Sembra da escludere che il giudice del gravame possa pervenire all'applicazione della sanzione civile esclusa dal primo giudice nei casi in cui riforma solo nel “quantum debeatur” la pronuncia sulla pretesa risarcitoria impugnata dall'attore originario. In tali casi infatti il giudice dell'appello non è il giudice che accoglie la domanda risarcitoria (già accolta in primo grado) e, quindi, non sarebbe investito del potere/dovere di applicare d'ufficio la sanzione civile. Allo stesso modo pare da escludere il potere del giudice di appello di procedere ad una “reformatio in pejus” della sanzione civile inflitta in primo grado. Un effetto devolutivo in tal senso non risulterebbe giustificato né a fronte dell'impugnazione proposta dall'attore originario, né di quella proposta dall'originario convenuto condannato a risarcire il danno e al pagamento della sanzione civile. Trattandosi di misure sanzionatorie afflittive, la disciplina prevista deve essere interpretata restrittivamente e mai nel senso che possa in concreto risultare sfavorevole al destinatario della sanzione civile. Brevi osservazioni conclusive
La scelta legislativa contenuta nel D.Lgs. n. 7/2016 e sopra descritta risulta per diversi aspetti criticabile e, a fronte del perseguito intento deflattivo della giurisdizione penale, rischia in concreto di produrre un risultato inflattivo sulla giustizia civile, prestando il fianco a cause risarcitorie strumentali (ai limiti dell'abuso del processo) fra parti indubbiamente condizionate entrambe dalla possibile applicazione d'ufficio della sanzione pecuniaria civile. Inoltre, così strutturata ben difficilmente la sanzione pecuniaria civile sortirà l'effetto, voluto dal Legislatore, di continuare a vedere sanzionate determinate condotte illecite dolose che ledono non solo la sfera giuridica della vittima ma al tempo stesso anche interessi collettivi. Infine, la scarna disciplina normativa (intrisa di cultura penalistica, non solo sul piano terminologico) appare nel suo complesso destinata a creare non pochi problemi applicativi e – se non interpretata in modo sistematico per renderla compatibile con un processo fra parti contrapposte davanti ad un giudice terzo e imparziale - rischia non solo di incidere in modo sensibile su singoli processi civili (aventi ad oggetto fatti che possono portare all'applicazione delle sanzioni previste dall'art. 4 del citato D.Lgs) ma addirittura di costituire espressione di un modello ibrido di giudizio civile indirettamente idoneo ad influire in modo negativo sulla stessa cultura giurisdizionale del giudice civile. |