Non è più satira se diventa pura forma di dileggio, disprezzo e distruzione della dignità della persona

13 Luglio 2015

La satira, per la sua natura di diritto soggettivo ed opinabile, è sottratta al parametro della verità, ma soltanto i fatti così rappresentati in modo apertamente difforme alla verifica del reale sono privi della capacità offensiva, mentre la riproduzione apparentemente attendibile di un fatto di cronaca, deve essere valutata secondo il criterio della continenza delle espressioni e delle immagini e delle vignette e delle foto utilizzate. Nessuna scriminante è possibile riconoscere allorché la satira diventa forma pura di dileggio, disprezzo e distruzione della dignità della persona.
Massima

La satira, per la sua natura di diritto soggettivo ed opinabile, è sottratta al parametro della verità, ma soltanto i fatti così rappresentati in modo apertamente difforme alla verifica del reale sono privi della capacità offensiva, mentre la riproduzione apparentemente attendibile di un fatto di cronaca, deve essere valutata secondo il criterio della continenza delle espressioni e delle immagini e delle vignette e delle foto utilizzate. Nessuna scriminante è possibile riconoscere allorché la satira diventa forma pura di dileggio, disprezzo e distruzione della dignità della persona.

Il caso

Tizio, medico Inail, proponeva appello avverso la sentenza del Tribunale di Napoli che aveva rigettato la sua domanda risarcitoria nei confronti di un giornalista, del direttore del quotidiano, nonché dell'editore, per la diffamazione a mezzo stampa contenuta in un articolo riguardante una truffa sui falsi invalidi affetti da sordità, nel quale veniva riprodotta la foto del medico stesso abbinata ad un disegno umoristico nel quale un personaggio accostava l'orecchio ad un corno acustico tracimante banconote. Nell'articolo, inoltre, Tizio veniva apostrofato offensivamente con l'epiteto di somaro. E, la Corte territoriale, in riforma della sentenza del giudice di prime curecondannava in solido la giornalista, il direttore e l'editore a risarcire i danni morali liquidati in via equitativa in euro 15.000 e la giornalista ed il direttore al pagamento della ulteriore somma di euro 1500 per sanzione pecuniaria ai sensi dell'art. 12, L. n. 47/1948. Avverso quest'ultima decisione la giornalista proponeva ricorso per cassazione, nonché l'editore con ricorso adesivo ed incidentale, cui resisteva con controricorso il medico. Nell'unico motivo di censura la giornalista denunciava l'error in iudicando riferito alla legge sulla stampa in relazione all'art. 2043 c.c., nonché al fatto di reato ex art. 595 c.p., con specifico riferimento alla satira ed ai suoi conseguenti effetti, cui aggiunge il vizio motivazionale. Parimenti l'editore nel ricorso incidentale denunciava l'error in iudicando in relazione al diritto di critica alla luce dell'art. 10 CEDU, artt. 21, 23 Cost. in relazione con gli artt. 2043 c.c. e art. 595 c.p.. Gli Ermellini, invero, riuniti i ricorsi, li rigettano in toto e condannano in solido i ricorrenti alla rifusione delle spese del giudizio. In particolare, i supremi giudici sottolineano come nel caso de quo non sia stato compiuto alcun errore di diritto e come spetti al giudice del merito la valutazione della congruità dei termini ritenuti diffamatori.

In motivazione

«(…) occorre considerare come, nell'attuale contesto della democrazia italiana, i cosiddetti principi primi che regolano la libertà del pensiero derivano dal contenuto intrinseco di ogni libertà che trova nella responsabilità e nel dovere, la sua concreta ed evolutiva considerazione».

«(…) è riservato al giudice del merito la valutazione della congruità dei termini “ritenuti diffamatori”. Tale giudizio peraltro insindacabile in questa sede è avvenuto in un contesto più ampio e storicizzato, con motivazione di merito immune da vizi rilevabili in questa sede di legittimità».

La questione

La questione in esame è la seguente: in relazione ad una specifica violenta satira denigratoria a mezzo stampa nei confronti di un medico, stimato nel suo ambito di lavoro, vengono rispettati o meno i limiti che circoscrivono l'ambito di esercizio del diritto di cronaca?

La soluzioni giuridiche

Il diritto di satira parrebbe collocarsi a metà strada fra il diritto di cronaca propriamente detto e il diritto di critica. Per un verso, infatti, la satira, pur avendo la sua ragion d'essere nella realtà, la supera finendo per prescinderne. E per altro verso, essa neppure è inquadrabile tout court alla stregua di una species del diritto di critica, se è vero che di quello non possiede alcuni fra i più importanti elementi costitutivi: basti pensare al fatto che pressoché unanimemente si richiede che la critica sia supportata da un'adeguata motivazione sì da dar conto delle ragioni che conducono al giudizio formulato e che tale requisito è però per definizione impossibile da pretendere in relazione alla satira, di cui non per caso si parla in termini di “astrazione momentanea dalla realtà”.

A ben vedere, però, non sembra corretto assegnare alla satira una posizione intermedia tra l'esercizio del diritto di cronaca e quello di critica. Se lo ius narrandi, per le caratteristiche che gli sono proprie, soggiace a una serie di inevitabili limitazioni a garanzia della reputazione della persona o delle persone fisiche o giuridiche coinvolte dagli avvenimenti narrati, e se più ampi sono i margini del diritto di critica al quale non può chiedersi di essere rigorosamente obiettivo, la satira può essere esercitata entro confini ancora più vasti. E allora pare più corretto sostenere che essa si colloca non fra il diritto di cronaca e il diritto di critica ma dopo l'uno e l'altro, nel senso che la satira, poiché consiste in una rappresentazione che, per muovere al riso, si basa sull'enfatizzazione e sulla deformazione della realtà soffre restrizioni minori tanto dello ius narrandi quanto del diritto di disapprovazione.

Invero, il diritto di cronaca non è un diritto assoluto ed è per questa ragione che il vero problema consiste nel coglierne e determinarne i limiti. La ricerca è imposta dalla frequente collisione tra il diritto di informazione e il diritto dell'individuo al proprio onore e alla propria reputazione sociale, per cui individuare la soglia sulla quale il diritto di cronaca deve arrestarsi è funzionale al raggiungimento di un punto di equilibrio fra diritti egualmente significativi e meritevoli di protezione. L'esigenza di bilanciare efficacemente tali diversi interessi è stata affrontata già in epoca risalente dalla Corte di cassazione per mezzo della nota pronuncia delle Sezioni Unite (cfr. Cass., S.U., 30 giugno 1984, n. 14) con la quale la Corte regolatrice chiarisce che il diritto di cronaca è esercitato legittimamente solo quando risulta contenuto entro rigorosi limiti che si radicano nella logica e nell'ordinamento positivo: verità oggettiva, pertinenza (vale a dire interesse pubblico alla conoscenza del fatto narrato), continenza delle espressioni utilizzate. E su questa falsariga, da allora in avanti, ha scritto le sue pronunce in materia la giurisprudenza, a partire dal cosiddetto “decalogo del giornalista” (cfr. Cass. civ., sez. I, sent., 18 ottobre 1984, n. 5259) – sentenza con la quale i giudici di legittimità hanno ribadito i tre limiti definendoli rispettivamente utilità sociale dell'informazione, verità (oggettiva o anche soltanto putativa, purché frutto d'un serio e diligente lavoro di ricerca), forma civile dell'esposizione dei fatti – fino alle pronunce più recenti, da ultimo (cfr. Cass. civ., sez. III, sent., 4 settembre 2012, n. 14822) – peraltro richiamata nell'odierno decisum – che ricorda i summenzionati tre paletti del cosiddetto discrimine libertario e che vale anche a ricordare che è riservato al giudice del merito la valutazione della congruità dei termini “ritenuti diffamatori”.

Per quel che concerne il diritto di satira, quindi, la preoccupazione deve essere quella di verificare che, per il tramite di tale meccanismo espressivo, non vengano oltrepassati i limiti della convivenza civile. Così, il linguaggio delle immagini o delle proposizioni satiriche non deve essere gratuitamente offensivo e tale da rappresentare solo un grave insulto per la persona offesa, per quanto espresso in una parafrasi o in una similitudine più o meno fantasiose. Oggetto d'indagine deve essere, dunque, oltre al contenuto dell'articolo, anche l'intero contesto espressivo in cui questo è inserito, ivi compresi, appunto, la presentazione grafica, i titoli, i sottotitoli, le fotografie, le vignette che eventualmente lo accompagnino, trattandosi di elementi tutti che rendono esplicito, nell'immediatezza della rappresentazione e della percezione visiva, il reale significato dell'articolo e l'effettivo intendimento dell'autore. E, riferendoci al caso de quo, la fotografia di un medico stimato veniva abbinata ad un disegno umoristico nel quale un personaggio accostava l'orecchio ad un corno acustico tracimante banconote.

Ciò non vuol dire che nel contesto satirico e comico non sia consentito l'uso di termini e di accostamenti surreali, che al contrario in tale sistema perdono il significato loro proprio nel linguaggio comune, ma che deve essere rispettato un certo grado minimale di continenza delle espressioni; pertanto, la rappresentazione caricaturale non può associare allo scopo lecito dell'irrisione quello non consentito della denigrazione. Né può, come nel caso che qui ci occupa, superare il rispetto dei valori fondamentali, esponendo la persona, oltre che al ludibrio della sua immagine pubblica, al disprezzo. Si puntualizza, infatti, nel decisum in rassegna, che nessuna scriminante è possibile riconoscere allorché la satira diventa forma pura di dileggio, disprezzo e distruzione della dignità della persona.

In conclusione, non può comunque mancarsi di segnalare, che vi sono anche opinioni di segno contrario rispetto a quelle che individuano nella continenza espressiva anche un limite all'esercizio del diritto di satira. Invero, si afferma da parte di alcuni autorevoli autori che la satira, in quanto espressione tipicamente popolaresca alla quale non può applicarsi il controllo ed il contenimento dell'espressività, è per sua natura offensiva e manca di correttezza stilistica. Sul punto, interviene ancora il decisum in commento, chiarendo che potrà anche giovare un excursus storico a partire dal pensiero greco e dalla nascita della commedia in Grecia prima che in Roma, ovvero ricorrere alla moira erasmiana, ma occorre considerare come, nell'attuale contesto della democrazia italiana, i cosiddetti principi primi che regolano la libertà del pensiero derivano dal contenuto intrinseco di ogni libertà che trova nella responsabilità e nel dovere, la sua concreta ed evolutiva considerazione.

Osservazioni

La commissione del reato di diffamazione a mezzo stampa per la sua stessa connotazione comporta l'offesa di un bene giuridico ossia l'onore e la reputazione, personalissimo ed intimo. Colui il quale diviene bersaglio della condotta del soggetto agente vede infatti minata la propria incolumità morale, la stima di cui gode nell'ambiente sociale in cui vive, l'immagine che si è creato nei consociati. La lesione di siffatti beni ha come conseguenza la produzione di un danno che, oltre a poter esser risarcito in forma specifica mediante lo strumento della rettifica, può anche essere indennizzato pecuniarmente per equivalente sia in sede penale, attraverso la costituzione di parte civile, sia in sede civile mediante un'azione ex art. 2043 c.c., come nel caso che qui ci occupa.

Del resto, la sede in cui è divenuto più frequente ottenere effettivamente il ristoro dei danni derivanti dal contegno diffamatorio è ormai quella civile sia in via diretta sia in prosecuzione rispetto ad un condanna generica pronunciata nel giudizio penale. La dottrina parla al riguardo di diffamazione civilistica per riferirsi al passaggio dalla tutela penale della lesione del diritto all'onore e alla reputazione alla tutela civile della violazione del diritto a non vedersi attribuire fatti non veri ed infamanti. Difatti, ottenere la tutela risarcitoria nel settore civile è più agevole soprattutto sotto l'aspetto della prova dell'elemento psicologico che ha caratterizzato la condotta del soggetto agente. Se, invero, la giurisprudenza al fine di concedere il risarcimento in ambito civile, richiedeva comunque l'accertamento dell'esistenza del reato di diffamazione anche sotto l'aspetto soggettivo del dolo, alla fine degli anni Sessanta i giudici di legittimità (cfr. Cass. civ., sent., 13 maggio 1958, n. 1563) hanno cambiato orientamento, sostenendo che la tutela civile – a differenza di quella penale che copre solo le condotte dolose – si può estendere anche a condotte diffamatorie colpose, perché tale connotato soggettivo è espressamente previsto all'art. 2043 c.c.. Questa nuova impostazione ha determinato un'estensione dei confini di tutela apprestati dall'autorità giudiziaria civile, atteso che si consente di adire il giudice anche in quei casi in cui l'offesa alla reputazione non è voluta dal diffamatore ma è una conseguenza della sua leggerezza o superficialità nell'uso di espressioni lesive dell'onore altrui. Proprio la possibilità di un accesso più ampio e meno vincolato ha determinato un ricorso massiccio all'azione civile ex art. 2043 c.c. da parte delle persone offese dalla condotte diffamatorie. Il soggetto passivo del reato de quo potrà, quindi, richiedere all'autorità giudiziaria penale e civile il risarcimento dei danni derivanti dalla condotta illecita in parola, danni che potranno avere natura patrimoniale o non patrimoniale.

La sede naturale per la liquidazione del danno derivante da un contegno diffamatorio è, come del resto esemplificato dal caso in commento, il giudizio civile introdotto direttamente dalla persona offesa. Spetterà dunque all'attore dimostrare l'esistenza del danno subito e fornire la prova di un nesso di causalità tra il danno lamentato e la pubblicazione delle frasi offensive. Alla difficoltà ordinaria che l'attore incontra in qualsivoglia causa civile nell'adempiere il suo onere di prova, nell'ipotesi di danno derivante da diffamazione si aggiunge, però, un ulteriore disagio dovuto alle peculiarità del bene giuridico leso dalla condotta del soggetto agente. Il danneggiato, infatti, oltre a dover dimostrare oggettivamente che il contegno del presunto diffamatore è stato lesivo del suo onore o della sua reputazione e che tale condotta ha provocato un danno, dovrà anche provare l'esatta quantificazione di tale danno. Non si tratta di un compito agevole e ciò spiega il motivo per il quale l'autorità giudiziaria, laddove l'attore abbia dimostrato almeno la sussistenza del danno, quasi sempre provveda alla liquidazione dello stesso ricorrendo ad un meccanismo equitativo basato su alcuni parametri enucleati nel tempo dalla giurisprudenza. Nella categoria oggettiva di tali parametri individuata dagli interpreti si possono collocare la gravità delle affermazioni diffamatorie divulgate, la diffusione della pubblicazione e la reiterazione degli episodi di diffamazione. Nella categoria dei parametri soggettivi di valutazione del danno da diffamazione si collocano le qualità morali della persona offesa, la sua notorietà, il suo ruolo professionale e sociale e l'intensità dell'elemento psicologico imputabile al giornalista.

La persona offesa dal reato di diffamazione a mezzo stampa ha disposizione un ulteriore strumento risarcitorio previsto e disciplinato dall'art. 12, L. n. 47/1948, che, appunto, come nel caso de quo, trova applicazione anche in sede civile. La riparazione pecuniaria in parola è una sanzione di natura civilistica e pertanto può essere chiesta anche dinanzi al giudice civile, al quale non è precluso accertare, sia pure in via incidentale, se un fatto illecito, fonte di responsabilità civile, presenti gli elementi costitutivi del reato previsto dall'art. 595 c.p..

In conclusione rimane comunque indubbio che, anche utilizzando i parametri oggettivi e soggettivi in discorso, non è operazione agevole, per l'autorità giudiziaria, quella di monetizzare in concreto il danno morale sofferto dalla persona diffamata a mezzo stampa.

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