Il danno non patrimoniale: una questione “quantitativa”, presentata sotto mentite spoglie
14 Aprile 2016
Premessa
L'avvio, su Ri.Da.Re., di un Forum sul danno non patrimoniale fornisce a chi scrive una preziosa occasione per tornare in argomento. Ma, prima ancora, costituisce pretesto valido per protestare - in modo garbato ma fermo -avverso quella resistenza al cambiamento che ancora oggi si registra in quelle voci – non isolate – che paiono sorde all'insegnamento delle Sezioni Unite (ed alla “rotonda” lezione da queste impartita nelle celebri sentenze gemelle di San Martino - Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972-26973-26974-26975). A quasi otto anni di distanza da quelle pronunce risulta, invero, difficile comprendere perché si reiteri, e debba sopravvivere, il dibattito circa la possibilità di distinguere - sul piano “ontologico” - il danno morale, da quello biologico o da quello esistenziale. E perché da più parti ci si voglia ancora ostinare ad alimentare quella toponomastica dell'impalpabile che - forse - meriterebbe diversi e più poetici prosceni, ma che - certo - finisce per render ancor più instabili i già sovente “obliqui” percorsi del “diritto” (lemma, quest'ultimo, che esprime figurativamente la necessità di una regola stabile e, appunto, “diritta”; una regola che, pur dovendo fare i conti con la naturale flessibilità delle umane cose, collide con lo zigzagante divagare di mere - personalissime - opinioni). In verità, e lo vedremo, il cuore del problema si presenta sotto mentite spoglie, giacché la vera preoccupazione che muove i fautori della categorizzazione del dolore (e della sua caleidoscopica fenomenologia) è quella, in realtà, di espandere la proposizione risarcitoria in tutta la sua potenziale pienezza; il tutto in nome di un principio, quello dell'integrale riparazione del danno, che non incontrerebbe limiti o deroghe neppure nel campo dei pregiudizi non patrimoniali. Ma dietro a tale preoccupazione il vero obiettivo pare quello - forse più prosaico - di superare i limiti risarcitori insiti nei tetti di personalizzazione massima previsti dal legislatore in materia di danno da lesione nella Rc auto e di responsabilità sanitaria (e, più in generale, dai più accreditati sistemi tabellari di uso giurisprudenziale). L'autentico problema, dunque, non è quello di individuare le diverse componenti di sofferenza che, nella loro concreta estrinsecazione, comporrebbero il danno non patrimoniale, quanto il (tentativo di) reperimento di voci di pregiudizio che – eccedenti, ulteriori ed ontologicamente autonome rispetto alla definizione di danno biologico - dovrebbero trovar ristoro al di fuori dei criteri tabellari vigenti e, dunque, anche al di sopra dei limiti di personalizzazione previsti, per i danni da lesione, dal Codice delle Assicurazioni (artt. 138 e 139 Cod. Ass.) e dal Decreto Balduzzi (art. 3, comma 3, D.l. 13 settembre 2012, n. 158, conv. con mod. con L. 18 novembre 2012, n. 189 – si veda, M. Hazan, La nuova assicurazione obbligatoria in sanità, in Danno e resp., 2013, I, 63) Il contrasto, in ultima analisi, finisce per essere pretestuosamente posto in termini qualitativi ma sostanzialmente alimentato sotto il profilo quantitativo: l'obiettivo dei sostenitori dell'ontologica autonomia del danno morale (o di quello esistenziale….) rispetto al biologico tendono, in ultima analisi, a rivendicarne la liquidazione come posta aggiuntiva, da sommarsi ai valori tabellari, quand'anche personalizzati nel massimo. Sul punto avremo modo di dire, in chiusura di contributo, come - secondo noi - la limitazione della liquidazione del danno non patrimoniale entro il “gap” di massima personalizzazione prevista dal legislatore (20% o 30% del danno biologico, secondo quanto rispettivamente stabilito dagli artt. 139 e 138 Cod. Ass.) o dalla tabella milanese, finisca probabilmente per rispondere alla funzione economico sociale dei risarcimenti e, più in generale, dei moderni sistemi di responsabilità. Subito, però, vorremmo “entrare nell'arena”, affrontando ancora una volta la questione centrale posta dagli autorevoli interventi già pubblicati nell'ambito del presente Forum. La brillante suggestione di apertura, (v. D. Spera, Il danno non patrimoniale (biologico, morale, esistenziale) è risarcibile solo come danno da sofferenza?), si pone, sia pur in termini evolutivi, in linea di piena e perfetta continuità rispetto alle sentenze gemelle del 2008. L'unitarietà sostanziale del danno non patrimoniale si rivelerebbe, secondo l'Autore, sul piano dell'unico aspetto che vale a qualificare in termini di danno un determinato stato d'animo: la sofferenza interiore; quella sofferenza cioè che, del tutto normalmente deriva dalla menomazione psicofisica temporanea e permanente (e dai conseguenti pregiudizi anatomo-funzionali) ma che potrebbe «anche mancare nelle ipotesi in cui la lesione del bene salute o non determina affatto una maggiore menomazione psicofisica (il distacco della retina per il non vedente)». Quella stessa sofferenza interiore che normalmente si registra nelle ipotesi di perdita o grave lesione del rapporto parentale ma che potrebbe, anche in quelle ipotesi, non presentarsi (come nelle ipotesi «in cui il marito intraprenda un gioioso viaggio alle Maldive con l'amante nell'immediatezza dei funerali della moglie»). E che sola – se interpretiamo bene il pensiero dell'Autore – consentirebbe di considerare come danni la violazione di altri diritti della persona diversi dalla salute ma costituzionalmente garantiti (la dignità, primo tra tutti). Insomma, la sofferenza, più che fattor comune ad ogni danno non patrimoniale, ne costituisce ed integra la vera essenza: autentica epifania del dolore e del turbamento, nella sua multiforme fenomenologia, chiede dunque di esser provata (anche presuntivamente) onde permettere la liquidazione del danno non patrimoniale. In questo contesto, sostiene con forza l'Autore, affermare che nella personalizzazione del danno, ai sensi dell'art. 138 Cod. Ass., il giudice non debba tener conto anche della sofferenza interiore della vittima (da liquidarsi dunque in via separata ed ulteriore, come rivendicato dalla sentenza Cass., sez. III, sent., 9 giugno 2015, n. 11851, v. M. Hazan, Il danno morale nella rc auto (dopo la sentenza n. 11851/2015),) «è in insanabile contrasto con l'intero impianto del danno non patrimoniale plasmato dalle sentenze di San Martino ed altresì in contrasto con la medesima definizione del danno biologico, non a caso posta dal legislatore nello stesso tenore letterale e, quindi, nei medesimi contenuti strutturali, a fondamento degli artt. 138 e 139 Cod. Ass.». In effetti, la coessenzialità al danno fisico di ogni aspetto sofferenziale che ne deriva – che lo si chiami o meno morale e, dunque, a prescindere dalla sua cangiante nomenclatura – costituisce uno dei capi saldi attorno ai quali lo statuto del danno non patrimoniale, così come steso dalle Sezioni Unite nel 2008, risulta imbastito: «la sofferenza morale, senza ulteriori connotazioni in termini di durata, integra pregiudizio non patrimoniale. Deve tuttavia trattarsi di sofferenza soggettiva in sè considerata, non come componente di più complesso pregiudizio non patrimoniale. Ricorre il primo caso ove sia allegato il turbamento dell'animo, il dolore intimo sofferti, ad esempio, dalla persona diffamata o lesa nella identità personale, senza lamentare degenerazioni patologiche della sofferenza. Ove siano dedotte siffatte conseguenze, si rientra nell'area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente. Determina quindi duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale nei suindicati termini inteso, sovente liquidato in percentuale (da un terzo alla metà) del primo» (Cass., Sez.Un., 11 novembre 2008, n. 26973, alinea 4.9). La diatriba sulla natura (unitaria o meno), sotto il profilo concettuale, del danno non patrimoniale integrerebbe poi, (secondo M. Rossetti, La Corte di Cassazione e il danno non patrimoniale), un falso problema in quanto il contrasto registrato, sul punto, nella giurisprudenza di legittimità sarebbe sostanzialmente apparente e puramente nominale (e perciò innocuo). Non sarebbe, invero, affatto rilevante l'utilizzo, di volta in volta di una nomenclatura variegata o fantasiosamente descrittiva (biologico, morale, estetico, relazionale o quant'altro): ciò che davvero importa è la premura - condivisa da tutti i precedenti di legittimità - di accertare i fatti per quello che davvero sono e di risarcire il danno non patrimoniale (unitariamente inteso) nel suo complesso, avendone previamente individuato le concrete componenti ed evitando di dar corso a duplicazioni risarcitorie. A conti fatti, secondo l'Autore, l'antinomia motivazionale che dividerebbe gli orientamenti di legittimità tradirebbe, in realtà, una sostanziale unità di intenti, ravvisata nell'esigenza di ristorare l'intero danno non patrimoniale, secondo quanto allegato ed effettivamente provato. In questo senso si pone, del resto, una recente pronunzia della Sezione Lavoro (Cass. Sez. Lav., 15 gennaio 2016, n. 583), piuttosto chiara nell'affermare che tanto il principio della tendenziale unicità della categoria del danno non patrimoniale quanto quello della possibilità di individuare plurime voci di danno non patrimoniale (purché allegate e provate nella loro specificità) mirano ad evitare una duplicazione o, peggio, una moltiplicazione di medesime voci di pregiudizio in relazione allo stesso evento: il danno non patrimoniale, concettualmente unitario, potrà/dovrà esser risarcito nel suo concreto e multiforme rappresentarsi, purché una volta sola (nel suo insieme) e senza raddoppi. Ora, la presa di posizione di Rossetti – tranciante e un poco provocatoria – ci piace, nella parte in cui caldeggia l'abbandono di virtuosismi intellettuali, spesso fine a sé stessi, a favore di un approccio finalistico e concreto. Il che, ancora una volta, ci riporta alla lezione delle Sezioni Unite, le quali, ci pare, colgono perfettamente la difficoltà di classificare i diversi tipi di turbamento in categorie rigide dai confini tanto netti e chiari da poter essere distinti senza rischio di confusione o sovrapposizione sostanziale. Tanto meno se derivanti da una lesione (quella della salute) che il diritto vivente esclude, oggi, possa configurarsi in termini di danno in re ipsa (rilevando invece solo se ed in quanto portatrice di conseguenze intrinsecamente sofferenziali e dinamico relazionali). Quello che conta, dunque, è rappresentare il danno non patrimoniale nella sua effettiva dimensione fenomenologica (più o meno complessa, a seconda dei casi) e conseguentemente ristorarlo, a prescindere dai nomi di volta in volta assegnatigli. Sennonché, quel pur giusto richiamo ad un approccio sostanziale non coglie nel segno allorquando relega il contrasto giurisprudenziale a tutt'oggi perdurante al rango di una assoluta irrilevanza o di una innocua insignificanza. Come già abbiamo avuto modo di osservare, infatti, il tentativo di sostenere l'ontologica differenza tra il danno biologico e quello morale, è stato – alla fine - elaborato non per amor di complessità semantica, ma nell'ambito di una chiara indicazione finalistica: quella di affermare la possibilità, per il giudice, di andar oltre il limite di personalizzazione (del 30%) previsti dall'art. 138 Cod. Ass. e di liquidare in via separata ed in aggiunta al biologico i danni da sofferenza morale derivanti anch'essi dalla lesione fisica. Ciò in quanto la definizione di danno biologico offerta da quella norma, lungi dall'essere omnicomprensiva, racchiuderebbe in sé le sole componenti aredittuali e dinamico relazionali del danno alla persona; non invece le sofferenze morali, che, perciò, sarebbero ristorabili separatamente e senza incorrere in alcuna limitazione di sorta (Cass., sez. III, sent., 9 giugno 2015, n. 11851). Un risultato, dunque, tutt'altro che innocuo o neutro, in quanto teso a fornire, proprio attraverso la scomposizione del danno non patrimoniale e la distinzione (qui per nulla nominalistica) tra biologico e morale, una particolare ed asistematica lettura dell'art. 138 del Cod. Ass., con impatti potenzialmente straordinari sull'ammontare dei risarcimenti, e sulla loro prevedibilità (nel campo della Rc auto e della responsabilità sanitaria). Che la teoria della “scomposizione” miri a scardinare gli orientamenti tesi, invece, ad assorbire all'interno del danno biologico, sia pur personalizzato, l'intera declinazione del danno non patrimoniale da lesione fisica emerge, in qualche modo, da un ulteriore contributo pubblicato in questo Forum (P. Ziviz, Danno non patrimoniale: nozione unitaria o composita?). Rivive, in quello scritto, una datata critica alle sentenze di San Martino, che - fortemente condizionate, secondo l'Autrice, dal timore di una deriva del sistema verso un'alluvione risarcitoria - non avrebbero raggiunto l'obiettivo che in realtà si prefiggevano, e cioè quello di dettare il nuovo statuto del danno non patrimoniale, tracciando un sistema di regole chiaro e armonioso. Al contrario, sotto l'emblema dell'unitarietà del danno non patrimoniale le Sezioni Unite avrebbero finito per «alimentare, piuttosto che risolvere, la confusione imperante all'interno di questo settore». Ciò, in particolare, avuto riguardo alla tesi della confluenza del danno morale entro l'orbita del danno biologico; tesi che si risolverebbe in un taglio del risarcimento ed alla quale, comunque, osterebbe la definizione normativa del danno biologico, al quale il Codice delle Assicurazioni riconduce «la negativa incidenza della menomazione sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, ma non già la compromissione relativa alla sfera emotiva». Il cuore del problema
Con il lemma “morale” - che lo si usi tanto in senso aggettivale quanto sostantivale - ci si riferisce al mondo dello spirito, in contrapposizione a quello delle cose materiali, ricomprendendovi ogni declinazione dell'animo e senza necessità di pesarne le impalpabili componenti. Così, nel campo dei turbamenti indotti dal mancato rispetto dei diritti inviolabili della persona diversi dalla salute (si pensi all'onore ed alla dignità personale, in caso di ingiuria o di diffamazione), il carattere morale del danno arrecato alla persona offesa assume portata certamente omnicomprensiva e tale da ricomprendere al suo interno ogni sofferenza subita per effetto dell'illecito (purché seria e grave, secondo l'insegnamento delle Sezioni Unite). La questione si complica proprio nel settore del danno alla salute, dove all'immaterialità del disagio e della sofferenza si accompagnano una serie di conseguenze perfettamente percepibili nella loro incidenza materiale (l'evidenza di una ferita, la perdita di un arto, il fatto di non poter più fare quel che si faceva in passato, quando si era integri, e così via). Sennonché, la pretesa materialità del danno alla salute, in se e per sé considerata e contrapposto ai disagi di ordine morali derivanti dalla lesione, non può ritenersi davvero tale. Al contrario, e a ben vedere, non esisterebbe «un danno alla salute che non sia intrinsecamente psichico» (A. Bianchi, La complessità del danno psichico, in www.personaedanno.it) dal momento che è proprio la psiche - anche attraverso le reazioni dolorose - a far sì che una lesione fisica sia percepita come danno, e cioè come una “diminuzione” e fonte di sofferenza, magari anche per il fatto di veder compromessa la propria sfera dinamico relazionale. In ogni caso, a chi scrive non affascina il rovello interpretativo posto da chi, a tout prix, vorrebbe distinguere il danno biologico da quello morale (connesso al primo) o da quello esistenziale, derivante quest'ultimo proprio dalle modifiche relazionali indotte dalla lesione fisica. Certo, la disputa sulla tassonomia del danno alla salute ha preso piede proprio sulla scia della sua positivizzazione normativa (D.Lgs., 23 febbraio 2000, n. 38 e D.Lgs., 7 settembre 2005, n. 209), dando vita ad una speciosa discussione su cosa rientri nella articolata definizione di danno biologico, nelle sue componenti standard o in quelle personalizzate, e cosa possa invece considerarsi alla stessa estraneo (laddove si voglia rifiutare la tesi della sua omnicomprensività). Una discussione pregiudicata in radice dall'impossibilità di accordare alla lesione del “bene” salute, in sé e per sé considerata (e in ossequio alla regola della necessaria consequenzialità dei pregiudizi risarcibili), il rango di “danno in re ipsa”. A tale impossibilità, peraltro, fa da pendant proprio la definizione codicistica del danno biologico, nella sua veste sostanzialmente disfunzionale, onnicomprensiva e tale da ricomprendere al suo interno ogni pregiudizio di carattere morale/esistenziale derivante dalla lesione (della salute) patita dal danneggiato. La chiusura del cerchio si è, poi, avuta con le Sentenze di San Martino, che hanno sostanzialmente avallato la tesi secondo la quale il danno biologico esaurisce la nozione unitaria di danno non patrimoniale alla salute, racchiudendo nella propria natura polimorfa ogni sofferenza derivante (alla così detta vittima “primaria”) dalla lesione. Riflettendo sulla portata di un tale principio, del resto, non sembra illogico affermare che ogni lesione fisica (seria e grave) sia intrisa, presuntivamente (salva la rara possibilità di escluderla in toto), di disagi e turbamenti, riflessi dal dolore fisico, dalla percezione della propria diminuzione e dalla conseguente modifica del proprio stile di vita. Ed alla proposizione standardizzata di partenza – ordinata secondo una regola tabellare convenzionale, che potremmo inquadrare come media - può aggiungersi, con invarianza qualitativa, la personalizzazione del danno in relazione a fattori sofferenziali specifici e individualissimi, ove allegati e provati. Si tratta, in ultima analisi, di un sistema di valorizzazione del danno che nasce per esser rigido e flessibile al contempo, ma comunque chiuso entro i suoi limiti massimi di personalizzazione; il che si sposa proprio con la regola della unitarietà sostanziale del danno non patrimoniale. Condividiamo, qui, pienamente le riflessioni di Marco Rossetti (op. cit.) circa l'inutilità di uno sforzo classificatorio nominalistico teso a segnare la (ardua) distinzione tra la componente intrinsecamente morale, quella dinamico relazionale, quella estetica o sessuale e via discorrendo: la matrice psichica comune a tutte le sofferenze (morali, tout court) di cui il danno non patrimoniale può comporsi merita di essere apprezzata per come in concreto si presenta, al netto di categorizzazioni pericolose, in quanto sovente fonti di malintese rivendicazioni di diritti risarcitori autonomi. Andando oltre, potremo seguire la bella suggestione di Damiano Spera (op. cit.) e condividere che il danno non patrimoniale rivela la propria unitaria essenza in quella dimensione sofferenziale che tutto racchiude, come del resto ben marcato dalla Corte di Giustizia dell'UE nella nota pronuncia del 23 gennaio 2014 (CGUE, 23 gennaio 2014, C371/12), in cui si afferma che «rientra nella nozione di danno alla persona ogni danno [...] arrecato all'integrità della persona che include le sofferenze sia fisiche sia psicologiche». Non è, peraltro, peregrino osservare come l'intensità personalissima di quella sofferenza, nel suo concreto manifestarsi, assume intensità ed effetti estremamente variabili, da individuo ad individuo, in relazione alle inclinazioni, alle esperienze ed al temperamento di ciascuno, e ciò a prescindere dalla capacità oggettiva di offesa (se tal mai possa essere misurata) della condotta lesiva posta in essere dal danneggiante. Il che rischia di rendere la proposizione risarcitoria (oltre che tendenzialmente indefinita) potenzialmente infinita, così come infinite possono essere le ferite dell'animo che un determinato evento di danno può scatenare in ciascuno di noi. E l'insidia insita nel pretendere di risarcire “tutto” quel che difficilmente può calcolarsi in concreto e di ammettere risarcimenti smisurati (in nome dell'idea di ristorare ogni turbamento dell'animo che possa esser allegato e provato) giustifica – se non postula - l'adozione di una regola convenzionale chiusa ed equilibrata, utile ad evitare che l'equità trasmodi in arbitrio. Una regola ben espressa proprio in quel metodo tabellare fondato sulla valorizzazione di parametri risarcitori che, standardizzati, possono essere sì personalizzati, ma entro e non oltre certi limiti. Ed è proprio in quei limiti (e nel tentativo di obliterarli) che si annida, a parere di chi scrive ed al netto di ogni mistificazione classificatoria, il vero cuore del problema. Porre il danno “morale” – quale poi? - al di fuori della definizione del danno biologico vale a sostenere la possibilità di non fermarsi (quanto meno per le macro lesioni della rc auto e della med mal) innanzi al tetto massimo della personalizzazione e di liquidare, in aggiunta a quello, altre somme a titolo di ristoro di poste ulteriori, eccentriche rispetto al danno alla salute ed aventi una dimensione sofferenziale autonoma. Una questione quantitativa
Sullo sfondo, una volta di più, albeggia il principio di integrale riparazione del danno, la cui applicabilità al campo dei pregiudizi non patrimoniali, per quanto propugnata a più riprese dalla Suprema Corte (Cass., SS.UU., 11 novembre 2008, n. 26973, alinea 4.8), riveste, nella sostanza, la dignità di un miraggio. Ci piace ricordare, al riguardo, la lucida analisi a suo tempo svolta da chi (C. Salvi, La responsabilità civile, Milano, 1998, pag. 31 e ss.) ha escluso che nel campo del danno non patrimoniale possa assegnarsi una «funzione compensativa in senso proprio». Ed il fatto che il risarcimento di tale figura di danno determini un arricchimento economico della vittima (esito invece precluso, in via di principio, quanto al danno patrimoniale) risponderebbe, sul piano funzionale, ad una finalità «che ben può essere definita “satisfattiva” della vittima», in quanto tale antinomica rispetto alla ricorrente tendenza ad ammettere invece una fittizia “equivalenza” tra un danno economicamente irrilevante e una somma di denaro. Il vero, unico, tema che rende complessa la liquidazione del danno non patrimoniale - nella sua unitaria e sofferenziale rappresentazione e al netto delle questioni afferenti la prova - è l'individuazione della sua misura e, conseguentemente, del peso da porre a carico del danneggiante, tenuto conto del gioco della valutazione equitativa nell'ambito della superiore funzione attribuita ai moderni sistemi di responsabilità. Al riguardo è stata ben evidenziata, con lucidità e bella forza espressiva, la centralità della funzione (di razionale distribuzione del rischio) che dovrebbe presidiare il sistema della responsabilità civile, all'interno di un «quadro di pesi e contrappesi» (G. Alpa, L'assicurazione di fronte all'evolversi del concetto di responsabilità, in Ass., 1985, 534), a sua volta, disegnato attorno a criteri di imputazione non necessariamente incentrati sulla colpa ma tali da privilegiare gli obiettivi di una più asettica – e più utile – socializzazione dei rischi e dei costi di attività potenzialmente dannose. Del resto l'indubbia e progressiva erosione degli antichi ancoraggi etici e morali, passata attraverso la svalutazione dell'elemento soggettivo della colpa (in questo senso R. Cavallo Borgia, Responsabilità e assicurazione, Milano, 2007), ha condotto – mediante un processo di graduale travaso - alla sostanziale affermazione di una concezione economica del danno e della responsabilità, nella loro dimensione oggettiva e nei loro riflessi tanto individuali quanto macroscopici e sociali. Sembra facile poter, dipoi, constatare come, a fronte del caleidoscopico moltiplicarsi di attività potenzialmente rischiose, l'esigenza di individuare il “colpevole” sia passata via via in secondo piano, demandando al sistema penale ed a quello amministrativo l'adempimento di funzioni più prettamente deterrenti e punitive e portando invece alla ribalta, sul versante civilistico, concreti obiettivi di equa e solidale allocazione dei rischi (e del costo dei relativi danni, laddove prodottisi). In questo senso può essere interessante rilevare come, forse non casualmente, alla radiazione del danno tanatologico dal nostro ordinamento risarcitorio civile (Cass., SS.UU., 22 luglio 2015, n. 15350) abbia fatto da contraltare l'introduzione del reato di omicidio stradale (art. 589-bis c.p.). Secondo buona parte della dottrina, è dunque «l'interesse dei consociati alla sicurezza di fronte ai rischi» (A. D. Candian, Responsabilità civile e assicurazione, Milano, 1993, 21-24.) a fungere da stella polare del nuovo sistema. Di più: è il concetto di rischio a divenire esso stesso categoria morale, postulando la necessità di comprendere quale sia il limite della sua tollerabilità sociale e quale invece la linea al di là della quale – vi sia o meno colpa - non possa che prevalere l'interesse individuale al risarcimento degli eventuali danni. Attraverso tale approccio finisce per dilatarsi il novero dei potenziali responsabili, non interessando tanto l'individuazione del colpevole quanto la “canalizzazione” della responsabilità sul soggetto che – per una o altra connessione con l'azione o con il fatto dannoso – appaia il più idoneo a sopportare il costo del risarcimento dovuto al danneggiato, onde evitare di lasciare i danni là dove cadono. Peraltro, la costruzione della “nuova” proposizione risarcitoria civilistica passa attraverso la perfetta complementarietà tra il diritto ad esser tutelati ed i doveri propri di una tolleranza solidale che rappresenta, almeno sotto un profilo ideale, la massima espressione di quell'equilibrio sociale su cui, solo, può fondarsi una stabile ed etica convivenza tra le genti. Ed in ciò l'art. 2 Cost. segna, forse, il momento più alto della moderna esperienza legislativa italiana. Si tratta, dunque, di verificare dove si collochi il sottile confine tra ciò che merita tutela e ciò che invece impone tolleranza; al riguardo il filtro della gravità e della serietà del danno di cui si invoca ristoro costituisce, per certo, un primo barrage, di intuitiva persuasività. Ma nel campo del danno non patrimoniale si tratta, all'evidenza, di misurare quella regola “satisfattiva” (e non compensativa) di cui poc'anzi si discorreva in modo temperato, avendo di mira anche (ebbene sì) l'interesse del danneggiante a subire conseguenze in qualche modo calibrate e non insopportabili, conto tenuto anche della dimensione etica e morale del pregiudizio inferto (rispetto al quale l'entità monetaria del ristoro potrebbe risultare, indifferentemente e a seconda dei punti di vista, eccessiva o insufficiente). Di più, la formula – elastica ma non troppo – stabilita dall'art. 2059 c.c. segna un confine netto tra il campo del danno patrimoniale (dove il principio dell'integrale riparazione assurge davvero a regola) e quello del danno non patrimoniale, rispetto al quale il risarcimento costituisce eccezione. In questo contesto porre limiti ed introdurre tetti pare facoltà connaturata allo stesso sistema risarcitorio, per come disegnato sin dai tempi del Codice Civile. La questione assume, dipoi, colorazioni ancora diverse nel settore delle responsabilità obbligatoriamente assicurate, nell'ambito delle quali il gioco di pesi e contrappesi non riguarda soltanto il rapporto tra danneggiato e responsabile ma, ben più generalmente, la collettività assicurata, dal momento che l'aumento dei costi risarcibili pesa indirettamente anche su coloro i quali non hanno alcuna responsabilità ma concorrono al sostenimento del sistema attraverso il pagamento dei premi (in questo senso si vedano i principi chiaramente espressi da C. Cost, 16 ottobre 2014 n. 235). Alla luce di quanto sopra, ed al netto di eventuali suggestioni punitive di ritorno (v. Cass., 10 marzo 2010, n. 5770 e art. 3, co. 1, ultimo periodo, D.L. 13 settembre 2012, n. 158, conv. con mod. con L. 18 novembre 2012, n. 189) ci pare di poter concludere che gli sforzi compiuti da quella parte di giurisprudenza e di dottrina per erodere il tetto del risarcimento imposto dagli artt. 138 e 139 Cod. Ass. – per quanto giocati sul filo delle definizioni e di asseriti contenuti di danno – cerchino soltanto di trovare una via per superare quel barrage costringendo principi dettati in materia di danno patrimoniale entro logiche di sistema (non patrimoniale) che quei principi, ontologicamente, non possono condividere. Il problema dei “nomi” è dunque un falso problema, non perché irrilevante sul piano delle conclusioni ma perché posto in termini equivoci rispetto ai fini effettivamente predicati. Rimane, in ultimo, da considerare come il DDL Concorrenza, occupandosi di riformare l'attuale impianto degli artt. 138 e 139 Cod. Ass., compia un importante balzo in avanti (o indietro, a seconda dei diversi punti di vista che saranno certamente espressi dai commentatori che si cimenteranno sul tema). A prima vista, la relativa disciplina sembrerebbe regolata in termini identici sia per le lesioni lievi che per quelle più gravi, attraverso l'aggiunta, al termine dei rispettivi commi 3 degli artt. 138 e 139 Cod. Ass., di un'identica proposizione, secondo la quale «L'ammontare complessivo del risarcimento riconosciuto ai sensi del presente articolo è esaustivo del risarcimento del danno non patrimoniale conseguente a lesioni fisiche». Ciò sembra costituire risposta definitiva alla teoria propugnata da quella parte della Cassazione (Cass., sez. III, sent., 9 giugno 2015, n. 11851) che nell'attuale differenza lessicale tra l'art. 138 e l'art. 139 individua la ragione (formale) secondo la quale il primo consentirebbe di superare il limite di personalizzazione, quanto al “danno morale”. Nel sistema di futura implementazione, se confermato, il potere di valutazione equitativa del giudice incontrerebbe – senza se e senza ma - un limite invalicabile, costituito, appunto, dal tetto massimo della personalizzazione; ed entro quel tetto ogni posta di pregiudizio comunque riconducibile alla lesione (a prescindere dalle fantasiose categorizzazioni e nomenclature teoriche) dovrebbe trovare ristoro, senza possibilità, per il giudicante, di spingersi oltre. Peraltro, aprendo forse la via a nuove bagarre ermeneutiche, il testo del progetto di riforma assegna al danno morale (strictu sensu inteso….) un ruolo particolare nella strutturazione della tabella delle lesioni più gravi: nel “nuovo” art. 138 Cod. Ass. il valore del punto base verrebbe già in battuta “arricchito” di una quota percentuale, tale da tener conto della «componente del danno morale da lesione all'integrità fisica»; una componente che, ritenuta - evidentemente - dal legislatore come connaturata ai danni fisici più severi, dovrebbe esser valorizzata attraverso un aumento percentuale della valutazione di partenza del danno biologico (aumento progressivo e proporzionale all'aumentare dei postumi). Ciò ricalca, in qualche modo, il metodo già utilizzato dalla tabella milanese, allorquando adeguò i propri parametri liquidativi al dictum delle sentenze gemelle delle Sezioni Unite del 2008 (Cass., SS.UU., 11 novembre 2008, n. 26972-26973-26974-26975). Il danno morale verrebbe valorizzato all'interno del concetto “arricchito” - ma standardizzato - della valutazione base del danno biologico (come sua componente coessenziale), lasciando spazio per una personalizzazione ulteriore soltanto con riferimento agli aspetti dinamico relazionali (leggasi esistenziali) della menomazione. Ciò per le lesioni di grave entità, mentre per quelle lievi morale ed esistenziale potrebbero essere entrambi riconosciuti, ma in via soltanto eventuale (laddove rigorosamente accertati e provati) e comunque mai oltre il limite della personalizzazione di legge (20%). Il sistema, dunque, incontrerebbe finalmente coordinate certe, almeno sul piano dei criteri di principio. Ma darebbe vita ad un insidiosa tassonomia definitoria (quella che Marco Rossetti giustamente respinge) che potrebbe, probabilmente, comportare più di un problema di allegazione, prova e valutazione proprio nel settore più delicato (e cioè quello della lesioni più gravi). E mentre si discute di tutti questi aspetti, non sempre afferrabili, avanza in controluce, quasi sottotraccia, il vero problema che andrà, pro futuro, a condizionare, e molto, la futura sostenibilità e la tenuta dei sistemi di responsabilità civile. Ci riferiamo alla liquidazione del danno patrimoniale correlato alle macro lesioni, rispetto alle quali i bisogni di assistenza e di cura assumeranno, presumibilmente, col passare del tempo consistenze via via maggiori. Vuoi per l'allungamento della curva demografica, vuoi per lo sviluppo della scienza medica, vuoi soprattutto dal prevedibile arretramento del welfare state dal settore delle prestazioni assistenziali e previdenziali. Ma questa è un'altra storia…… |