Consenso informato e prestazione medica: distinte obbligazioni a carico degli allievi di Asclepio

17 Luglio 2015

L'acquisizione da parte del medico del consenso informato costituisce prestazione altra e diversa da quella dell'intervento medico richiestogli, assumendo autonoma rilevanza ai fini dell'eventuale responsabilità risarcitoria in caso di mancata prestazione da parte del paziente.
Massima

L'acquisizione da parte del medico del consenso informato costituisce prestazione altra e diversa da quella dell'intervento medico richiestogli, assumendo autonoma rilevanza ai fini dell'eventuale responsabilità risarcitoria in caso di mancata prestazione da parte del paziente.

Il caso

La vicenda posta all'attenzione della Suprema Corte riguarda un caso di malpractice medica relativa ad un intervento chirurgico in artroscopia al ginocchio sinistro in conseguenza del quale al paziente – sottoposto ad un secondo ricovero – fu diagnosticata una poliartrite gottosa.

I giudici di legittimità annullano la sentenza di merito che aveva evidenziato come il risarcimento del danno da errato intervento medico assorbito dal liquidato risarcimento del danno da mancanza di consenso informato, sul rilievo che l'autonoma rilevanza della condotta di adempimento della dovuta prestazione medica ne impone infatti l'autonoma valutazione rispetto alla vicenda dell'acquisizione del consenso informato, dovendo al riguardo invero accertarsi se le conseguenze dannose successivamente verificatesi siano, sotto il profilo del più probabile che non, da considerarsi ad essa causalmente astrette.

In motivazione

«Il consenso informato attiene al diritto fondamentale della persona all'espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico (Corte cost., 23 dicembre 2008, n. 438), e quindi alla libera e consapevole autodeterminazione del paziente (Cass., 6 giugno 2014, n. 12830), atteso che nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge (anche quest'ultima non potendo peraltro in ogni caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana: art. 32, comma 2, Cost.). Il trattamento medico terapeutico ha viceversa riguardo alla tutela del (diverso) diritto fondamentale alla salute».

La questione

La questione in esame è la seguente: in caso di responsabilità sanitaria, l'acquisizione del consenso informato costituisce obbligazione autonoma e diversa rispetto alla corretta esecuzione del trattamento medico?

Le soluzioni giuridiche

Come noto, il consensoinformato è l'accettazione che il paziente esprime ad un trattamento sanitario dopo essere stato informato sulle modalità di esecuzione, sui benefici, sugli effetti collaterali, sui rischi ragionevolmente prevedibili e sull'esistenza di valide alternative terapeutiche.

Secondo una recente pronuncia della Corte costituzionale il diritto ad esprimere un consensoinformato trova fondamento negli artt. 2, 13 e 32 Cost. e si configura, pertanto, come diritto fondamentale della persona (Corte cost. n. 438/2008). In particolare, dopo aver ricordato che tale diritto è riconosciuto e tutelato sia da leggi speciali nazionali (L. n. 180/1978 sul Servizio Sanitario Nazionale; L. n. 219/2005 sull'attività trasfusionale e sulla produzione nazionale di emoderivati) che da norme sovranazionali (art. 24, Convenzione sui diritti del fanciullo, firmata a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con L. n. 176/1991; art. 3, par. 2, della Carta dei diritti fondamentali di Nizza del 7 dicembre 2000), il Giudice delle leggi ha affermato che il consensoinformato è espressione di due diritti fondamentali della persona: quello alla autodeterminazione e quello alla salute. Dalla sua riconosciuta natura di diritto fondamentale deriva che la violazione da parte dei sanitari del diritto ad essere informati legittima una pretesa risarcitoria da parte del paziente. E ciò, si badi bene, anche quando il trattamento sanitario ha avuto un buon esito (Cass. n. 16543/2011).

Discussa risulta essere, peraltro, la natura della responsabilità su cui tale pretesa risarcitoria si fonda. Secondo un risalente orientamento giurisprudenziale, invero avallato anche da una parte minoritaria della dottrina, la responsabilità per omessa informazione resa al paziente avrebbe natura extracontrattuale. Più precisamente, secondo detta tesi, la responsabilità si fonderebbe sulla violazione da parte del medico del dovere di buona fede imposto a ciascuna delle parti durante lo svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto ex art. 1337 c.c. (Cass. n. 10014/1994).

Sennonché la giurisprudenza oggi maggioritaria ritiene che tale obbligazione del medico ha fonte contrattuale, e ciò in quanto essa viene in essere successivamente al contatto tra medico e paziente. Si sostiene infatti che il «contatto sociale» sorge già al momento della diagnosi, talché l'illustrazione al paziente delle conseguenze della terapia o dell'intervento si inserisce nella fase esecutiva della prestazione in atto (Cass. n. 20984/2012; Cass. n. 11005/2011; Cass. n. 2847/2010).

Anche relativamente alla struttura sanitaria tout court considerata si è affermata l'esistenza con il paziente di un rapporto autonomo rispetto al rapporto paziente-medico, e riqualificato come un autonomo ed atipico contratto a prestazioni corrispettive (da taluni definito contratto di spedalità, da altri contratto di assistenza sanitaria) al quale si applicano le regole ordinarie sull'inadempimento fissate dall'art. 1218 c.c. (Cass. n. 577/2008).

Da ciò consegue l'apertura a forme di responsabilità autonome dell'ente, che prescindono dall'accertamento di una condotta negligente dei singoli operatori, e trovano invece la propria fonte nell'inadempimento delle obbligazioni direttamente riferibili all'ente. Questo percorso interpretativo, anticipato dalla giurisprudenza di merito, ha trovato conferma in una sentenza delle Sezioni Unite n. 9556/2002 che si è espressa in favore di una lettura del rapporto tra paziente e struttura (anche in quel caso, privata) che valorizzi la complessità e l'atipicità del legame che si instaura, che va ben oltre la fornitura di prestazioni alberghiere, comprendendo anche la messa a disposizione di personale medico ausiliario, paramedico, l'apprestamento di medicinali e di tutte le attrezzature necessarie anche per eventuali complicazioni. In virtù del contratto, la struttura deve quindi fornire al paziente una prestazione assai articolata, definita genericamente di "assistenza sanitaria", che ingloba al suo interno, oltre alla prestazione principale medica, anche una serie di obblighi c.d. di protezione ed accessori.

Le conseguenze, anche in questo caso, sono notevoli. La riconducibilità del rapporto medico/paziente ovvero struttura sanitaria/paziente nell'alveo della responsabilità contrattuale comporta infatti la più volte evidenziata ripartizione dell'onere probatorio: a fronte dell'allegato inadempimento da parte del paziente, toccherà al medico dimostrare di aver esattamente assolto ai suoi obblighi informativi.

Proprio in relazione a questo ultimo aspetto la posizione del medico (e della struttura) risulta alquanto critica, e ciò soprattutto alla luce della più recente giurisprudenza in tema di prova del consensoinformato. Come sottolineato a più riprese dalla Suprema Corte di cassazione, il consenso, oltre a dover essere personale, specifico (Cass. n. 15698/2010) ed esplicito, deve altresì essere effettivo e quindi non presunto. Inoltre, un'informazione parziale, cioè limitata al solo carattere «irreversibile» dell'intervento, non è soltanto insufficiente, ma addirittura fuorviante: l'informazione al paziente deve essere completa e dunque contemplare tutte le possibili conseguenze, anche indesiderate, dell'intervento.

Tali caratteri e contenuti del consenso informato hanno portato la giurisprudenza di legittimità ad escludere che la sottoscrizione di un modulo prestampato possa essere ritenuta idonea a rendere edotto in maniera effettiva il paziente circa le implicazioni e le conseguenze dell'intervento (Cass. n. 19220/2013). La giurisprudenza si è altresì spinta ad affermare che — al fine di stabilire se vi sia stato un valido consensoinformato — è irrilevante l'alto grado di istruzione del paziente nonché la sua qualifica professionale (Cass. n. 20984/2012).

La posizione del medico risulta ulteriormente aggravata anche per quanto riguarda la prova del nesso causale fra omessa o insufficiente informazione resa al paziente e danno da quest'ultimo patito.

Con specifico riferimento a tale profilo, la giurisprudenza ha affermato che nei casi in cui l'intervento non sia stato preceduto da un'adeguata informazione — e al contempo dallo stesso intervento siano derivate delle conseguenze dannose per la salute — il medico può essere condannato al risarcimento del danno alla salute solo ove il paziente dimostri, anche tramite presunzioni, che, se fosse stato compiutamente informato circa i rischi dell'intervento, egli avrebbe verosimilmente rifiutato di sottoporvisi (Cass. n. 2847/2010). Questo orientamento giurisprudenziale richiede quindi che accanto all'allegazione dell'inadempimento, ossia la omessa o insufficiente informazione, il paziente debba altresì dar prova (non limitandosi quindi alla mera allegazione) anche del nesso causale: ossia che se fosse stato correttamente informatoegli avrebbe rifiutato l'intervento, e quindi evitato il danno alla salute.

Osservazioni

Come precisato in precedenza il consenso informato è espressione del diritto alla libera autodeterminazione.

Sotto il profilo risarcitorio, il danno da violazione del consenso informato prescindente dal danno alla salute quale conseguenza delle informazioni omesse deve in ogni caso essere oggetto di prova.

Infatti, il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona costituisce “danno conseguenza”, che deve essere allegato e provato.

Sul punto, si osserva che le Sezioni Unite hanno superato la tesi che identifica il danno con l'evento dannoso, parlando di "danno evento”, come pure la variante costituita dall'affermazione che nel caso di lesione di valori della persona il danno sarebbe in re ipsa (Cass. n. 26973/2008).

Deve ribadirsi che la volontà di non sottoporsi al trattamento medico ove l'informazione sanitaria fosse stata correttamente formulata non può essere oggetto di mera allegazione, ma di dimostrazione. D'altra parte, neppure potrebbe essere diversamente: infatti, se la responsabilità sanitaria ampiamente intesa conosce un nesso eziologico suscettibile di valutazione oggettiva e scientificamente rilevante (di cui il medico deve dimostrare l'insussistenza), l'importanza della disinformazione nella produzione del danno è connessa ad una scelta del tutto soggettiva e personale, che risiede nel libero svolgimento dell'individuale autodeterminazione. In altri termini, l'inadempimento non rileva di per sé: è imprescindibile verificare se ne è conseguita una lesione della libertà di scelta (il paziente non si sarebbe sottoposto ad intervento: nesso eziologico), dalla quale discende il danno al diritto di autodeterminazione.

La sola violazione del diritto all'autodeterminazione non accompagnata da un danno alla salute per l'esito fausto dell'intervento può comportare un danno non patrimoniale per il paziente, qualora l'intervento abbia procurato al paziente sofferenze e turbamenti che egli, secondo il suo insindacabile bilanciamento degli interessi in gioco, avrebbe scelto di non accettare se adeguatamente informato.

Nell'indagine controfattuale in cui si devono ricostruire le conseguenze che non sono derivate da un fatto concreto della vita, ma che sarebbero derivate da un fatto puramente ipotetico (qui: da quella che sarebbe stata la corretta e completa informazione dovuta dal medico al paziente) assume particolare rilevanza il ricorso alle presunzioni da parte del paziente, come rileva la sentenza che si considera.

Un primo elemento da tenere presente è quello che riguarda le finalità del trattamento medico, secondo che esse mirino ad un miglioramento estetico della persona ovvero ad eliminare o prevenire un danno alla salute. È presumibile che nel primo caso il paziente, messo di fronte al rischio pur piccolo che il trattamento estetico portasse a risultati del tutto opposti a quelli sperati peggiorando l'estetica, avrebbe scelto di non sottoporsi al trattamento stesso qualora fosse stato adeguatamente informato dal sanitario.

Più complessa si presenta la situazione quando il trattamento medico riguarda la salute del paziente. Sotto questo aspetto conviene distinguere secondo che il trattamento eseguito dal sanitario fosse diretto a conservare la salute del paziente evitando probabili peggioramenti, o semplicemente a migliorarla.

Nel caso in cui l'intervento fosse diretto a conservare la salute del paziente evitando l'insorgere di probabili peggioramenti le variabili da considerare ai fini del ricorso alle presunzioni sono quattro, o per meglio dire due coppie. Invero, da un lato sarà necessario confrontare la percentuale di rischio di un esito infausto dell'intervento con la percentuale di rischio di un danno alla salute in mancanza dell'intervento stesso. Da un altro lato, sarà necessario confrontare la gravità per la salute delle eventuali conseguenze negative dell'intervento con la gravità per la salute delle conseguenze alle quali il paziente sarebbe esposto in mancanza dell'intervento stesso. Dalla combinazione di queste variabili il giudice potrà desumere elementi per il ricorso alle presunzioni. Si faccia il caso in cui un intervento chirurgico al cervello presenti lo 0,50% di rischio di complicanze tali da condurre ad una infermità permanente, mentre in mancanza dell'intervento stesso vi sarebbe il 60% di rischio di una infermità permanente ancora maggiore o perfino della morte: se il paziente non adduce prove per cui egli avrebbe scelto l'alternativa più rischiosa, è da presumere che una persona sensata avrebbe scelto, se adeguatamente informata del rischio del 60%, di sottoporsi all'intervento.

Nel caso in cui l'intervento fosse invece diretto solo a migliorare la salute del paziente (ad esempio: migliorare la funzionalità di qualche organo), è da presumere che il paziente, messo di fronte ad una informazione del sanitario che gli prospetta i rischi dell'intervento, terrebbe di più a conservare lo stato fisico attuale e considererebbe come un optional il miglioramento sperato con l'intervento stesso. In questo caso egli si limiterà a prendere in considerazione solo la percentuale di rischio di complicanze, nonché l'entità dei conseguenti possibili danni alla salute, tralasciando un bilanciamento di essi con gli sperati ma non essenziali miglioramenti. Perciò il giudice potrà desumere elementi per il ricorso alle presunzioni semplicemente dalla percentuale di rischio e dall'entità delle possibili conseguenze negative per la salute.

In linea di principio non bisogna quindi sovrapporre salute ed autodeterminazione: il danno subito dal paziente per non essere stato informato è autonomo rispetto al danno alla salute, però perché questa autonomia si traduca sul piano risarcitorio è necessario distinguere secondo che l'intervento non consentito fosse indispensabile per la salute del paziente oppure avesse avuto un esito favorevole. Ritenuto indispensabile l'intervento, si bisogna distinguere seconda che sia stato eseguito correttamente oppure no. La conseguenza è che deve escludersi un obbligo risarcitorio ove l'intervento necessario per il paziente e difettante del suo consenso informato sia stato eseguito correttamente ed a ritenere il danno assorbito dall'imperizia, nell'altro caso.

In conclusione, la prova grava sul paziente perché indiscutibilmente a lui più “vicina”, senza contare che il “mancato diniego” si discosta dalla valutazione operata dal personale sanitario e anche – forse – dall'id quod plerumque accidit.

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