Il danno non patrimoniale (biologico, morale, esistenziale) è risarcibile solo come danno da sofferenza?

19 Febbraio 2016

Con le sentenze in esame una parte dei giudici della terza Sez. civile della Cassazione critica la tesi espressa nelle sentenze delle Sezioni Unite c.d. “sentenze di San Martino", secondo cui il danno non patrimoniale ha natura onnicomprensiva ed il danno morale o da sofferenza costituisce solo una voce di tale danno, da liquidare congiuntamente al danno biologico. L'autore non solo afferma che devesi confermare l'idoneità di una liquidazione unitaria del danno, ma, quasi provocatoriamente, si chiede: il danno non patrimoniale, pur composto da varie voci, è risarcibile solo allorché sia provata, sia pure mediante presunzioni, la sofferenza della vittima?
Le recenti sentenze della Cassazione sul danno non patrimoniale

La Corte di Cassazione, con un ritmo sempre più incalzante negli ultimi anni, sta pubblicando numerose sentenze in cui, dopo una premessa “rituale” di adesione ai principi di diritto espressi nelle sentenze della Cass., Sez. Un., n. 26972, 26973, 26974, 26975 dell'11 novembre 2008 (c.d. “sentenze di San Martino”) affonda poderosi colpi di fendenti che appaiono idonei a minarne le fondamenta, con particolare riguardo alla nozione e valutazione onnicomprensiva di danno non patrimoniale da lesione del bene salute (c.d. danno biologico), alla sua idoneità a contenere le “voci” di danno morale ed esistenziale. Ne risulta spesso indirettamente censurata anche la sentenza Cass. n. 12408/2011 (c.d. “Amatucci”), che (come è noto) ha sancito la nullità per violazione di legge delle sentenze che non applicano la Tabella milanese di liquidazione del danno non patrimoniale.

Ho dunque esaminato, in particolare, le seguenti sentenze della Sezione terza della Cassazione.

a) Cass. civ., sez. III, sent., n. 11851/2015 (Presidente dr. Segreto – Rel. dr. Travaglino) (già oggetto di analisi critica in Ri.Da.Re., v. M. Hazan, Il danno morale nella RC auto dopo la sentenza 11851/2015). Ai fini che qui interessano, evidenzio alcune criticità ed affermazioni enunciate nella predetta sentenza:

  • prima delle sentenze di San Martino un «indiscutibile formante giurisprudenziale di un altrettanto indiscutibile diritto vivente», fino all'anno 2006, era indirizzato ad una netta separazione, concettuale e funzionale, del danno biologico, del danno morale e del danno derivante dalla lesione di altri interessi costituzionalmente protetti. Le c.d. “sentenze gemelle” Cass., 31 maggio 2003, n. 8827 e 8828 avevano riaffermato la possibilità che danno biologico, morale soggettivo e pregiudizi ulteriori e diversi dalla mera sofferenza psichica fossero liquidati anche separatamente, tenendo conto di tutte le proiezioni dannose del fatto lesivo. Quelle sentenze, con la nota lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., avevano ricondotto la tutela della persona al sistema bipolare del danno patrimoniale e non patrimoniale, «quest'ultimo comprensivo del danno biologico in senso stretto, del danno morale soggettivo come tradizionalmente inteso e dei pregiudizi diversi ed ulteriori, purché costituenti conseguenza della lesione di un interesse costituzionalmente protetto» (inciso poi ripreso dalla sentenza Corte Cost. n. 233/2003);
  • anche le tabelle milanesi di liquidazione del danno non patrimoniale prevedevano, fino al 2008, la separata liquidazione del danno morale soggettivo nella misura di un terzo della somma liquidata per il danno biologico;
  • i D.P.R. n. 37/2009 e n. 191/2009 hanno reso «manifesta la volontà del legislatore di distinguere, morfologicamente prima ancora che funzionalmente», tra la voce di danno c.d. biologico e quella di danno morale.

b) Cass. civ., sez. III., sent. n. 19211/2015 (Presidente dr. Russo - Rel. dr. Scarano)

In questa sentenza si afferma:

  • attesa «la diversità ontologica degli aspetti (o voci) di cui si compendia la categoria generale del danno non patrimoniale è necessario che essi, in quanto sussistenti e provati, vengano tutti risarciti, e nessuno sia lasciato privo di ristoro». Personalizzare la liquidazione significa che il giudice deve tener conto di tutte le peculiari modalità di atteggiarsi del danno non patrimoniale nel singolo caso concreto;
  • per le Sezioni Unite di San Martino il danno biologico ha una «portata tendenzialmente onnicomprensiva», e quindi «i patemi d'animo e la mera sofferenza psichica interiore sono normalmente assorbiti in caso di liquidazione del danno biologico (…) Non condivisibile è invece l'assunto secondo cui, allorquando vengano presi in considerazione gli aspetti relazionali, il danno biologico assorbe sempre e comunque il c.d. danno esistenziale. È infatti necessario verificare quali aspetti relazionali siano stati valutati dal giudice, e se sia stato in particolare assegnato rilievo anche al (radicale) cambiamento di vita, all'alterazione/cambiamento della personalità del soggetto» (v. anche Cass. civ., sez. III., 30 luglio 2015, n. 16197, Rel. Lanzillo; Cass. civ., sez. III, , 22 settembre 2015, n. 18611, Rel. Petti).

Per un'analisi critica delle argomentazioni esposte nelle citate sentenze, è stato per me necessario ripercorrere il tormentato cammino giurisprudenziale del danno non patrimoniale, attraverso le sentenze della Corte Costituzionale e delle Sezioni Unite della Cassazione. Anziché esporre (scolasticamente) questo percorso, preferisco invece, per esigenze di chiarezza e sintesi, tenerne adeguatamente conto nel dare una risposta critica e motivata alle domande che seguono.

Perché le critiche mosse alle sentenze di San Martino non colgono nel segno?

A mio giudizio non è stato correttamente inteso l'iter argomentativo posto a fondamento delle conclusioni assunte nelle sentenze di San Martino.

Le citate “sentenze gemelle” della Cassazione 2003, infatti, avevano affermato: «Il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l'entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, atteso che il riconoscimento nella Costituzione dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale»; concludono che i danni non patrimoniali in esame sono definiti spesso dalla giurisprudenza di merito come “esistenziali”, perché incidono su di «un interesse giuridico diverso sia dal bene salute (…) sia dall'interesse all'integrità morale» e cioè dal danno morale soggettivo.

Ed infatti la Consulta nella citata sentenza Corte Cost. n. 233/2003 pone proprio in evidenza il danno non patrimoniale che sia conseguenza della «lesione di (altri) interessi di rango costituzionale inerenti alla persona» diversi dalla lesione del bene salute, come, ad esempio: il rapporto parentale, la dignità umana, la libertà personale, il domicilio, l'integrità sessuale, ecc.

Le sentenze di San Martino aderiscono a questo orientamento, ma avvertono anche la necessità di espiantare la malapianta del danno esistenziale che, erroneamente inteso, si era nel frattempo radicata in una poco accorta giurisprudenza (soprattutto) di merito.

Le Sezioni Unite di San Martino premettono, infatti, che, a partire dagli anni '90, era stato affermato con sempre maggiore diffusione il diritto al risarcimento del danno esistenziale inteso come «il pregiudizio non patrimoniale individuato nella alterazione della vita di relazione, nella perdita della qualità della vita, nella compromissione della dimensione esistenziale della persona. Pregiudizi diversi dal patimento intimo, costituente danno morale soggettivo, perché non consistenti in una sofferenza, ma nel non poter più fare secondo i modi precedentemente adottati, e non integranti danno biologico, in assenza di lesione all'integrità psicofisica».

Il risarcimento del danno esistenziale veniva inserito nel quadro dell'art. 2043 c.c., senza tuttavia individuare, ai fini del requisito dell'ingiustizia del danno, quale fosse l'interesse giuridicamente rilevante leso dal fatto illecito. Conseguentemente, per le Sezioni Unite di San Martino, l'insussistenza della lesione di un interesse siffatto era ostativa all'ammissione al risarcimento. Poiché la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale è data, «oltre che nei casi determinati dalla legge, solo nel caso di lesione di specifici diritti inviolabili della persona, e cioè in presenza di una ingiustizia costituzionalmente qualificata, di danno esistenziale come autonoma categoria di danno non è più dato discorrere». E dunque, «in assenza di reato, e al di fuori dei casi determinati dalla legge, pregiudizi di tipo esistenziale sono risarcibili purché conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona. Ipotesi che si realizza, ad esempio, nel caso dello sconvolgimento della vita familiare provocato dalla perdita di congiunto (c.d. danno da perdita del rapporto parentale), poiché il pregiudizio di tipo esistenziale consegue alla lesione dei diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.). In questo caso, vengono in considerazione pregiudizi che, in quanto attengono all'esistenza della persona, per comodità di sintesi possono essere descritti e definiti come esistenziali, senza che tuttavia possa configurarsi una autonoma categoria di danno. Altri pregiudizi di tipo esistenziale attinenti alla sfera relazionale della persona, ma non conseguenti a lesione psicofisica, e quindi non rientranti nell'ambito del danno biologico (comprensivo, secondo giurisprudenza ormai consolidata, sia del c.d. "danno estetico" che del c.d. "danno alla vita di relazione"), saranno risarcibili purché siano conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona diverso dal diritto alla integrità psicofisica».

Del resto anche la sentenza Cass., Sez. Un. n. 6572/2006 ha individuato «specifici pregiudizi di tipo esistenziale da violazioni di obblighi contrattuali nell'ambito del rapporto di lavoro, in particolare dalla violazione dell'obbligo dell'imprenditore di tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore (art. 2087 c.c.)», nonché dalla violazione dei diritti inviolabili di cui agli artt. 1, 2, 4 e 35 Cost., che tutelano la dignità personale del lavoratore (v., in questi termini, le sentenze di San Martino).

Da ultimo anche la Cass., Sez. Un., n. 15350/2015 ha stigmatizzato che «se per danno esistenziale si intendessero quei pregiudizi non lesivi di diritti inviolabili della persona, tale categoria sarebbe del tutto illegittima, posto che simili pregiudizi non sono risarcibili per effetto del divieto di cui all'art. 2059 c.c.».

Il danno da sofferenza ed il danno esistenziale conservano una “autonomia ontologica” rispetto al danno biologico?

Francamente a me sembra una battaglia contro i “mulini a vento”!

Affermare che danno morale, danno esistenziale e danno biologico sono danni “ontologicamente diversi”, significa prenderne in considerazione ed evidenziarne la diversa essenza strutturale.

Sarebbe banale se eminenti giuristi:

  • stigmatizzassero enfaticamente che danno da perdita (o da lesione) del rapporto parentale è ontologicamente diverso da quello da lesione del bene salute?
  • fossero l'un contro l'altro armato per dibattere che la sofferenza (fisica e/o interiore) esprime e racchiude un concetto e (per quel che qui interessa) un danno, affatto diverso dalla menomazione biologica e dalla alterazione delle abitudini di vita e relazionali (esistenziali) dell'”uomo” e della “persona” (nei più pregnanti significati di cui agli artt. 2, 3 e 32 della Cost.)?

Ed allora quale è la ragione di questa (a volte stucchevole) diatriba?

A mio parere vi sono un equivoco e un pregiudizio.

a) L'equivoco

Si afferma nelle menzionate “sentenze gemelle”:

«Il danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale, in quanto ontologicamente diverso dal danno morale soggettivo contingente, può essere riconosciuto a favore dei congiunti unitamente a quest'ultimo, senza che possa ravvisarsi una duplicazione di risarcimento. Ma va altresì precisato che, costituendo nel contempo funzione e limite del risarcimento del danno alla persona la riparazione del pregiudizio effettivamente subito dalla persona, il giudice di merito, nel caso di attribuzione congiunta del danno morale soggettivo e del danno da perdita del rapporto parentale, dovrà considerare, nel liquidare il primo, la più limitata funzione di ristoro della sofferenza contingente che gli va riconosciuta, poiché, diversamente, sarebbe concreto il rischio di duplicazione del risarcimento». È comunque ammissibile «la liquidazione del danno biologico, di quello morale soggettivo e degli ulteriori pregiudizi risarcibili» con un'unica somma di denaro, «per la cui determinazione si sia tuttavia tenuto conto di tutte le proiezioni dannose del fatto lesivo».

E dunque quando le sentenze gemelle parlano di distinzione ontologica fanno riferimento alla lesione di diversi diritti inviolabili dell'uomo e quando menzionano il danno esistenziale intendono i pregiudizi non patrimoniali diversi da quelli biologici correlati alla lesione del bene salute (negli stessi termini, come si è detto, la menzionata sentenza della Corte Cost. n. 233/2003).

Per altro verso, allorché le sentenze di San Martino valorizzano le “voci” del danno non patrimoniale (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale, ecc.) non intendono mai negarne (in senso tecnico) l'autonoma esistenza, ma, più semplicemente, evidenziarne la natura di “componente” della categoria unitaria del danno non patrimoniale, «non suscettiva di suddivisione in sottocategorie».

«Il pregiudizio non patrimoniale consistente nel non poter fare» e quello ravvisato nella pena e nel dolore conseguenti e cioè «nella sofferenza morale determinata dal non poter fare» sono, in definitiva, due facce della stessa medaglia, essendo la sofferenza morale «componente di più complesso pregiudizio non patrimoniale» (v. D. Spera, Tebella del Tribunale di Milano, in Ri.Da.Re.).

È come se le sentenze di San Martino avessero affermato che le varie “voci” di danno predette non hanno autonomia ontologica in relazione al danno non patrimoniale, di cui costituiscono (al contrario) l'essenza!

b) Il pregiudizio

Credo che le censure mosse alle sentenze di San Martino muovano anche dall'erroneo convincimento, direi dal pregiudizio, che la valutazione unitaria del danno non patrimoniale possa comportare una più ridotta liquidazione del danno, per mancata adeguata ponderazione delle componenti del danno risarcibile.

Anche questa tesi non ha fondamento.

Già avvertivano le “sentenze gemelle” che, nella valutazione dei pregiudizi non patrimoniali da lesione di interessi costituzionalmente protetti, segnatamente in relazione al danno morale (per difetto di materialità del bene inciso allorché non ricorra la lesione biologica), sussistono «innegabili difficoltà nella distinzione di pregiudizi che, pur ontologicamente diversi tra loro, concernono ambiti che tendono talora a sovrapporsi». Infatti «la lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. va tendenzialmente riguardata non già come occasione di incremento generalizzato delle poste di danno (e mai come strumento di duplicazione di risarcimento degli stessi pregiudizi). (…) E va ribadito che nella liquidazione equitativa dei pregiudizi ulteriori, il giudice non potrà non tenere conto di quanto già eventualmente riconosciuto per il risarcimento del danno morale soggettivo, in relazione alla menzionata funzione unitaria del risarcimento del danno alla persona».

Anche le sentenze di San Martino mettono in guardia dai rischi di duplicazione di risarcimento dello stesso pregiudizio e ne ravvisano una tipica ipotesi nella liquidazione del danno morale (da sofferenza) in una percentuale del danno biologico (come del resto era previsto, fino al 2008, in tutte le tabelle giurisprudenziali di liquidazione del danno biologico). E, pur tuttavia, si noti che le sentenze di San Martino, lungi dall'escludere la liquidazione dell'una o dell'altra voce di danno, sollecitano il giudice a «procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza».

Anche la recente Cass. civ., sent., sez. Un.n n. 15350/2015 ha ribadito la necessità della unitaria liquidazione del danno non patrimoniale per i pregiudizi di tipo relazionale e di sofferenza soggettiva rappresentata dal danno morale.

Non credo proprio che questa raffinata architettura del danno non patrimoniale possa essere inficiata da due provvedimenti normativi, settoriali (D.P.R. n. 37/2009 e n. 191/2009) ed emessi (probabilmente) senza neppure la consapevolezza del contrasto con i nuovi arresti della giurisprudenza.

In definitiva, nessuno ha mai detto che la sofferenza costituisca il medesimo pregiudizio denominato anatomo-funzionale (danno biologico) o relazionale (danno esistenziale), ma, con rigore scientifico ed argomentazione più moderna ed intelligente (forse unica nell'intero panorama europeo), si è voluto (semplicemente) sostenere che la liquidazione del danno conseguenza deve avere necessariamente riguardo al danno non patrimoniale complessivamente subito dalla vittima, non per ridurre il risarcimento, ma per evitarne una sorta di vivisezione: la “voce” danno da pregiudizio anatomo funzionale va valutata congiuntamente (e non separatamente) alle voci di danno da sofferenza interiore e relazionale.

E' stato del resto proprio questo il criterio di liquidazione posto a fondamento della nuova Tabella di liquidazione del danno non patrimoniale conseguente alla lesione del bene salute e della perdita o grave lesione del rapporto parentale (nelle Edizioni 2009 e seguenti). Per quanto attiene ai valori monetari “medi”, la Tabella milanese di liquidazione del danno non patrimoniale da lesione del bene salute tiene già debitamente conto della sofferenza soggettiva (morale) media e del pregiudizio relazionale (esistenziale) medio che normalmente si accompagnano ad una determinata menomazione biologica (temporanea o permanente) (v., da ultimo, Cass., sent. n. 16788/2015).

Nella percentuale di personalizzazione di tali valori medi il giudice terrà conto delle peculiarità del caso concreto allegate e provate dal danneggiato, sia quanto agli aspetti anatomo-funzionali e relazionali sia quanto agli aspetti di sofferenza soggettiva. Per la perdita o la grave lesione del rapporto parentale «il massimo sconvolgimento della vita familiare» per i prossimi congiunti non solo è espressamente previsto dai “Criteri orientativi”, ma è anche liquidato con il valore monetario massimo indicato nella forbice delle relative tabelle milanesi.

Affermare quindi che, nonostante l'applicazione della Tabella milanese, sia rimasta esclusa la considerazione e la liquidazione del danno da sofferenza e relazionale oppure la massima personalizzazione conseguente allo sconvolgimento della propria vita è una evidente inesattezza logica, obiettivamente smentita dai “Criteri” di applicazione e dalla tecnica di redazione della Tabella milanese (v. D. Spera, Tabella del Tribunale di Milano, in Ri.Da.Re.).

Al più sarebbe possibile che vengano dal giudice liquidati i valori monetari massimi in assenza di idonea allegazione e prova dei corrispondenti rilevanti pregiudizi (… non il contrario!).

Il risarcimento del danno deve sempre essere integrale, perché il giudice deve tener conto di tutti i pregiudizi allegati e provati (anche mediante presunzioni) che “siano conseguenza immediata e diretta” dell'illecito ex art. 1223 c.c.. Tuttavia la liquidazione di queste voci di danno deve essere unitaria, perché la distinzione “ontologica” delle voci attiene al momento della allegazione e della prova dei singoli pregiudizi non patrimoniali, ma non riguarda la successiva fase della loro liquidazione! Al contrario, l'atomizzazione delle voci e la loro ragioneristica liquidazione sono foriere di duplicazioni risarcitorie del medesimo pregiudizio.

Quali sono gli effetti della sentenza della Corte Costituzionale n. 235/2014 sulle micropermanenti ex art. 139 Codice delle Assicurazioni ?

Nella citata Cass. civ., sent., n. 11851/2015 si afferma che anche la sentenza Corte cost., n. 235/2014 ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 139 Cod. Ass. perché il danno biologico può essere «aumentato in misura non superiore ad un quinto, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato» secondo la testuale disposizione della norma; ed “il giudice delle leggi ha voluto esplicitare una volontà legislativa che, alla luce delle considerazioni svolte, limitava la risarcibilità del danno biologico da micro permanente ai valori tabellari stabiliti ex lege, contestualmente circoscrivendo l'aumento del quantum risarcitorio in relazione alle condizioni soggettive del danneggiato - e cioè attraverso la personalizzazione del danno, senza che la norma denunciata sia chiusa al risarcimento anche del danno morale - al 20% di quanto riconosciuto per il danno biologico. Viene così definitivamente sconfessata, al massimo livello interpretativo, la tesi predicativa della "unicità del danno biologico", qual sorta di primo motore immobile del sistema risarcitorio, Leviatano insaziabile di qualsivoglia voce di danno». (così nella sentenza Cass., n. 11851/2015, ma anche Cass. sent. n. 17209/2015).

Ritengo però opportuno rilevare che la Consulta, nella sentenza Corte Cost., n. 235/2014 (immediatamente prima della esposta citazione estrapolata dalla sentenza della Cass. n. 11851/2015), precisa: «È pur vero, infatti, che l'art. 139 Cod. Ass. fa testualmente riferimento al “danno biologico” e non fa menzione anche del “danno morale”. Ma, con la sentenzaCass., n. 26972 del 2008, le sezioni unite della Corte di Cassazione hanno ben chiarito (nel quadro, per altro, proprio della definizione del danno biologico recata dal comma 2 del medesimo art. 139 Cod. Ass.) come il cosiddetto “danno morale” − e cioè la sofferenza personale suscettibile di costituire ulteriore posta risarcibile (comunque unitariamente) del danno non patrimoniale, nell'ipotesi in cui l'illecito configuri reato − «rientra nell'area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente».

La norma denunciata non è, quindi, chiusa, come paventano i rimettenti, alla risarcibilità anche del danno morale: ricorrendo in concreto i presupposti del quale, il giudice può avvalersi della possibilità di incremento dell'ammontare del danno biologico, secondo la previsione, e nei limiti, di cui alla disposizione del citato comma 3”.

E' di tutta evidenza, quindi, che appare destituita di fondamento l'illazione della Corte di Cassazione (enunciata nella sent. n. 11851/2015) secondo cui la Corte Cost., sent. n. 235/2014 (in distonia con le sentenze di San Martino) avrebbe riaffermato l'autonomia del danno morale rispetto al danno biologico. (v. D. Spera, Riverberi sulla tabella milanese della pronuncia costituzionale sull'art. 139 Cod. Ass.).

... e sulle macropermanenti ex art. 138 Codice delle Assicurazioni?

Nella sentenzaCassazione n. 11851/2015si afferma:

la Corte Costituzionale, nella citata sent. n. 235/2014, ha precisato che il meccanismo standard di quantificazione del danno attiene «al solo specifico e limitato settore delle lesioni di lievi entità» dell'art. 139 Cod. Ass. Del resto l'art. 138, terzo comma, ai fini della personalizzazione del danno fino al 30%, richiede la prova che la «menomazione accertata incida in maniera rilevante su specifici aspetti dinamico-relazionali personali». Conseguentemente, resta nei limiti del 30% solo la dimensione fenomenologica del danno di tipo relazionale (oggetto espresso della previsione legislativa in aumento); non risulta invece codificata e considerata la dimensione di natura interiore, «lasciando così libero il giudice di quantificarla nell'an e nel quantum con ulteriore, equo apprezzamento». Quindi l'aumento personalizzato del danno biologico del tutto prescinde «dalla considerazione (e dalla risarcibilità) del danno morale. Senza che ciò costituisca alcuna duplicazione risarcitoria».

A mio giudizio anche in questo caso è stata compiuta una frammentaria citazione delle argomentazioni espresse nella sentenza della Corte Cost. n. 235/2014, che ha determinato una fallace interpretazione della stessa.

La Corte Costituzionale, infatti, dopo aver affermato che «l'interesse risarcitorio particolare del danneggiato deve comunque misurarsi con quello, generale e sociale, degli assicurati ad avere un livello accettabile e sostenibile dei premi assicurativi”, conclude che «la disciplina in esame, che si propone il contemperamento di tali contrapposti interessi, supera certamente il vaglio di ragionevolezza”. E poi aggiunge che “l'introdotto meccanismo standard di quantificazione del danno − attinente al solo specifico e limitato settore delle lesioni di lieve entità e coerentemente riferito alle conseguenze pregiudizievoli registrate dalla scienza medica in relazione ai primi (nove) gradi della Tabella – lascia, comunque, spazio al giudice per personalizzare l'importo risarcitorio, risultante dalla applicazione delle suddette predisposte tabelle, eventualmente maggiorandolo fino ad un quinto, in considerazione delle condizioni soggettive del danneggiato».

Ma è di tutta evidenza che la Corte, chiamata all'esame del vaglio di costituzionalità dell'art. 139 Cod. Ass., senza cedere alla tentazione di pericolosi obiter dictum (purtroppo sempre più ricorrenti nelle sentenze della Cassazione), limiti le sue argomentazioni giuridiche a questa norma senza mai fare neppure menzione del diverso contenuto normativo di cui all'art. 138 (rimasto peraltro tuttora monco delle tabelle nello stesso previste).

Sostenere con argumentum a contrario che ben altre sarebbero state le valutazioni della Corte Costituzionale in relazione all'art. 138 Cod. Ass., significa compiere un rischioso salto nel buio, il cui esito sarebbe comunque esposto alle più opinabili correnti di pensiero.

Ritengo, invece, che il presupposto per la personalizzazione del danno fino al 20% (ai sensi dell'art. 139 Cod. Ass.) e fino al 30% (ai sensi dell'art. 138 Cod. Ass.) investa sempre la (medesima) condizione soggettiva del danneggiato (ad esempio la pratica amatoriale tennistica), ma la differenza rileva in termini quantitativi, perché, ai sensi dell'art. 138, la menomazione della integrità psico-fisica deve essere tale da incidere «in maniera rilevante su specifici aspetti dinamico-relazionali personali». Credo che, in altre parole, il C.T.U. (prima) ed il giudice (poi), in presenza di macrolesioni, debbano valutare con più rigore quali attività relazionali-esistenziali siano (in termini standardizzabili) già generalmente compromesse e quali, invece, siano specificamente subite da una determinata vittima nella fattispecie concreta. In sostanza (sia pure con diverse percentuali) appare sottesa la medesima ratio che giustifica la scelta della Tabella milanese di personalizzare il danno, per le micropermanenti, fino al 50% e, per le macropermanenti, fino al 25%.

In questa ottica sostenere che nella personalizzazione del danno, ai sensi dell'art. 138, il giudice non tiene conto anche della sofferenza interiore della vittima è in insanabile contrasto con l'intero impianto del danno non patrimoniale plasmato dalle sentenze di San Martino ed altresì in contrasto con la medesima definizione del danno biologico, non a caso posta dal legislatore nello stesso tenore letterale e, quindi, nei medesimi contenuti strutturali, a fondamento degli artt. 138 e 139 Cod. Ass..

Il danno non patrimoniale risarcibile è solo il danno da sofferenza?

Si legge ancora nella citata sentenza Cassazione n. 11851/2015:

  • una corretta lettura delle sentenze di San Martino conferma che, dopo aver identificato l'indispensabile situazione soggettiva protetta a livello costituzionale (oltre alla salute, il rapporto familiare e parentale, l'onore, la reputazione, la libertà religiosa, il diritto di autodeterminazione al trattamento sanitario, quello all'ambiente, il diritto di libera espressione del proprio pensiero, il diritto di difesa, il diritto di associazione e di libertà religiosa, ecc.), il giudice di merito dovrà procedere ad una «rigorosa valutazione tanto dell'aspetto interiore del danno (la sofferenza morale) quanto del suo impatto modificativo in pejus con la vita quotidiana (il danno c.d. esistenziale, in tali sensi rettamente inteso)»;
  • il mondo del diritto «ha trascurato l'analisi fenomenologica del danno alla persona, che altro non è che indagine sulla fenomenologia della sofferenza». Costituiscono la vera essenza del danno alla persona: “la sofferenza interiore, le dinamiche relazionali di una vita che cambia», come si ricava anche dal disposto dell'art. 612-bis c.p.. Pertanto «il dolore interiore e/o la significativa alterazione della vita quotidiana» sono «danni diversi e perciò solo entrambi autonomamente risarcibili», ma solo se rigorosamente provati caso per caso.

Condivido solo in parte queste affermazioni.

Infatti, dopo la sentenza Cass., Sez. Un., n. 6572/2006 (che sembrava riconoscere in termini generali il danno esistenziale), un po' provocatoriamente già nella sentenza 4 marzo 2008 n. 2847 (pubblicata su "Danno e Responsabilità", n. 8-9/2008 ed in “Guida al diritto”, dossier n. 4/2008), sostenevo che, in definitiva, sempre (e solo) a due grandi voci si può ricondurre il danno non patrimoniale:

«Ma in tutti i casi in cui si applica l'art. 2059 c.c., alla luce anche della sentenza n. 6572/2006, qual è l'effettivo contenuto del danno non patrimoniale risarcibile?

Da un'attenta ricognizione dell'evoluzione giurisprudenziale sul danno non patrimoniale, si evince che, in definitiva, tutti i pregiudizi riconducibili al genus del danno non patrimoniale possono essere ricompresi in due sole species:

  1. un patema d'animo cd. “danno morale soggettivo”, che attiene alla sfera interiore del soggetto;
  2. un danno che attiene alla sfera esteriore del soggetto, che in tal senso può anche definirsi “esistenziale”, nella nozione accolta dalle Sezioni Unite: pregiudizio che l'illecito “provoca sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno».

In quella sentenza sostenevo che il genus rimaneva il danno non patrimoniale ed il danno biologico era esattamente coincidente con il danno esistenziale di cui alla menzionata lett. b), con l'unica peculiarità di essere correlato alla lesione del bene giuridico salute.

Ora, dopo le sentenze di San Martino e alla luce di quanto fin qui esposto, sono tentato da un'altra provocazione: il danno non patrimoniale risarcibile è solo quello da sofferenza?

È opportuno premettere che anche la sentenza della Cass., sent., n. 11851/2015 afferma:

  • la lesione del bene salute (danno evento) potrebbe non procurare conseguenze dannose risarcibili: la rottura, da parte di un terzo, di un dente destinato ad essere di lì a poco estirpato dal dentista, determina una lesione medicalmente accertabile, ma senza conseguenza dannosa risarcibile;
  • la medesima considerazione vale per la frattura, ad opera di un terzo, di un arto destinato ad essere frantumato nel medesimo modo dal medico ortopedico, per una particolare terapia ossea;
  • perfino la perdita di un figlio potrebbe non determinare alcuna sofferenza interiore né uno stravolgimento della propria vita “esterna” per un genitore che quel figlio aveva da tempo emotivamente cancellato e che vive come una liberazione la sua scomparsa.

Ed io aggiungo le altre seguente ipotesi:

  • quale potrebbe essere il danno risarcibile in conseguenza della rottura del femore di vittima già paraplegica? Talora il danno risarcibile si riduce ad un breve periodo di danno biologico temporaneo e ad un modesto danno estetico permanente;
  • il distacco della retina per un non vedente non dovrebbe cagionare nessun danno consequenziale;
  • il giudice potrebbe non liquidare alcunché per la morte del prossimo congiunto: se fossero provati litigi (ad es., plurime e pretestuose cause giudiziarie) o reati (ad es. furti o truffe, violenza sessuale, ecc.) commessi ai danni del familiare, oppure fossero accertate altre eccezionali circostanze (ad es. il marito, subito dopo il decesso della moglie, ha trascorso una lunga e piacevole vacanza alle Maldive con l'amante);
  • il Tribunale di Milano (Trib. Milano, sent. n. 6400/2013) ha negato il risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale - chiesto dai fratelli unilaterali viventi in Colombia, in conseguenza della morte del fratello residente da molti anni in Italia - «in difetto non solo della coabitazione, ma di qualsivoglia allegazione e principio di prova circa le effettive abitudini e relazioni familiari tra soggetti abitanti, addirittura, in diversi continenti»;
  • il Tribunale di Milano (Trib. Milano, sent. n. 3520/2005) ha negato il risarcimento del danno in un'ipotesi di acclarata lesione del diritto di autodeterminazione al trattamento sanitario.

E dunque, in tutti i casi di lesione di diritti inviolabili della persona (ivi compreso il diritto alla salute) ed, ancora più in generale, in tutte le ipotesi di applicazione dell'art. 2059 c.c., devesi ribadire che il danno non è mai in re ipsa, riconducibile all'evento lesivo dell'interesse protetto, ma è danno conseguenza che deve essere in concreto accertato, sia pure (spesso) mediante presunzioni; «è sempre necessaria la prova ulteriore dell'entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall'art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale), alla quale il risarcimento deve essere (equitativamente) commisurato» (così la Corte Cost., sent., n. 372/1994).

Anche le sentenze di San Martino stigmatizzano che «Il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno conseguenza (Cass. n. 8827/2003 e n. 8828/2003; Cass. n. 16004/2003), che deve essere allegato e provato. (…) E del pari da respingere è la variante costituita dall'affermazione che nel caso di lesione di valori della persona il danno sarebbe in re ipsa, perché la tesi snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell'effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo. Per quanto concerne i mezzi di prova, per il danno biologico la vigente normativa (D.Lgs. n. 209/ 2005, artt. 138 e 139) richiede l'accertamento medico-legale. Si tratta del mezzo di indagine al quale correntemente si ricorre, ma la norma non lo eleva a strumento esclusivo e necessario. (…) Per gli altri pregiudizi non patrimoniali potrà farsi ricorso alla prova testimoniale, documentale e presuntiva. Attenendo il pregiudizio (non biologico) ad un bene immateriale, il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare rilievo, e potrà costituire anche l'unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri (v., tra le tante, sent. n. 9834/2002). Il danneggiato dovrà tuttavia allegare tutti gli elementi che, nella concreta fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata di fatti noti che consentano di risalire al fatto ignoto”.

Si potrebbe allora sostenere che il fatto ignoto da provare, per tutte le ipotesi di danno non patrimoniale, sia proprio la sofferenza interiore?

Tutte la allegazioni e prove richieste nel processo civile circa il danno alla salute, le alterazioni delle condizioni di vita della vittima primaria e di quelle secondarie, mirano in definitiva a provare, mediante il ragionamento presuntivo ex artt. 2727 e s.s. c.c., il «fatto ignorato» della sofferenza.

Di regola, dalla menomazione psicofisica temporanea e permanente, scaturiscono pregiudizi anatomo-funzionali (stimati dal Ctu), alterazioni delle abitudini di vita e degli aspetti relazionali della vittima (allegati e provati nel processo), da cui è agevole presumere una sofferenza interiore che viene equitativamente liquidata dal giudice, con l'ausilio delle note tabelle giurisprudenziali o normative.

Al contrario, nelle ipotesi innanzi indicate la lesione del bene salute o non determina affatto una maggiore menomazione psicofisica (il distacco della retina per il non vedente) o cagiona un pregiudizio molto ridotto (la rottura del femore per il paraplegico) ovvero un pregiudizio solo momentaneamente rilevante (perché il dente o l'arto sarebbero stati comunque oggetto, rispettivamente, di estrazione o frantumazione con un successivo intervento chirurgico).

Ma anche nelle ipotesi di perdita o grave lesione del rapporto parentale (di regola) è agevole presumere il dolore del coniuge in conseguenza del prematuro decesso della giovane moglie o l'immenso dolore della madre per la perdita del proprio figliolo ed il giudice applicherà i corrispondenti criteri di liquidazione illustrati nelle Tabelle milanesi.

Ed invece, nelle ipotesi sopra descritte, non vi sono elementi presuntivi idonei a comprovare il fatto ignoto della sofferenza interiore, anzi vi è la prova di fatti che ne escludono la sussistenza: l'assoluta mancanza di frequentazione e/o di corrispondenza (fratelli abitanti da molti anni in diversi continenti), il gioioso viaggio alle Maldive con l'amante nell'immediatezza dei funerali della moglie, la felicità espressa al risveglio in sala operatoria, alla notizia che (oltre all'operazione già programmata) è stato anche asportato un pericoloso tumore maligno. Il giudice, in questi casi, con congrua motivazione ridurrà o escluderà del tutto il risarcimento proprio in considerazione della modesta o addirittura assente sofferenza interiore della vittima.

Del resto i criteri di liquidazione previsti dalle Tabelle milanesi mirano a garantire la parità di trattamento, ma si devono applicare «in tutti i casi in cui la fattispecie concreta non presenti circostanze idonee ad alimentarne o ridurne l'entità" (così la citata Cass., sent. n. 12408-2011).

Infine, in tutte le fattispecie di reato il danno non patrimoniale risarcibile, ex artt. 185 c.p. e art. 2059 c.c., è correlato alla prova presuntiva della sofferenza interiore, desunta da «nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza» (art. 115 cpv. c.p.c.) e/o dalle altre circostanze di fatto acclarate nel giudizio (ad esempio: la pubblicazione di fatti idonei a danneggiare la reputazione della vittima, lo stato di ansia e l'alterazione delle abitudini di vita di quest'ultima, ecc.).

La soluzione qui prospettata è dunque antitetica a quella sopra criticata: dalle allegazioni e dalle prove delle singole "voci" di danno non patrimoniale il giudice trae elementi di convincimento per ritenere provata la sofferenza interiore e liquida (a maggior ragione) unitariamente e complessivamente il danno non patrimoniale subito dalla vittima del fatto illecito.

Questa conclusione non è un ritorno al passato.

Nei Lavori preparatori del cod. civile si affermava che il danno non patrimonialefosse riconducibile alla«sofferenza fisica (sensazione dolorosa) o psichica»,marisarcibile esclusivamente nell'ipotesi di illecito civile costituente anche reato.

Oggi, invece, il danno non patrimoniale, sebbene ancora previsto dal medesimo art. 2059 c.c., è intriso dei valori della Costituzione ed arricchito nei contenuti e nella disciplina dal tormentato intelligente affascinante cammino della giurisprudenza.

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