Alla ricerca del giusto punto di equilibrio tra l'integrale risarcimento del danno ed il rischio di duplicazioni risarcitorie
20 Aprile 2016
Premessa
Da quando, a seguito delle pronunce a Sezioni Unite del 2003, il sistema risarcitorio è stato inquadrato in termini bipolari nell'ambito delle previsioni normative di cui agli artt. 2043 e 2059 c.c., l'ampia categoria del danno non patrimoniale, da contenere nei limiti della tipicità dei casi, ha visto a fasi alterne allargare o restringere le proprie maglie, essendosi gli studiosi contrastati tra una applicazione rigorosa delle sentenze di San Martino del 2008 (con una tendenza, quindi, ad attribuire una valenza omnicomprensiva al danno biologico, il quale assumerebbe funzioni assorbenti rispetto alle altre precedenti voci di pregiudizio) ed una interpretazione “soft” delle stesse (alla cui base vi è il riconoscimento di un'autonomia ontologica e funzionale, rispetto al pregiudizio all'integrità psico-fisica, alle voci del danno morale e del danno cd. esistenziale). Sullo sfondo, però, il vero problema da analizzare e tentare di risolvere è quello di trovare il giusto punto di equilibrio tra la necessità di assicurare un ristoro integrale del danno non patrimoniale ed il rischio di una deriva nel senso di una duplicazione risarcitoria. La categoria unitaria del danno non patrimoniale
L'art. 2059 c.c., interpretato conformemente a Costituzione, prevede ormai una categoria unitaria di danno non patrimoniale per lesione di interessi, inerenti la persona, non connotati da rilevanza economica, in cui rientrano sia il danno alla salute in senso stretto, c.d. biologico, sia quelli di tipo cc.dd. morale ed esistenziale, intesi, secondo l'impostazione propugnata dalle sentenze di San Martino, come tipologie descrittive e non strutturali. La liquidazione del danno non patrimoniale deve, peraltro, essere complessiva e cioè tale da coprire l'intero pregiudizio a prescindere dai nomina iuris dei vari tipi di danno, i quali non possono essere invocati singolarmente per un aumento dell'anzidetta liquidazione. Tuttavia, sebbene il danno non patrimoniale costituisca una categoria unitaria, le tradizionali sottocategorie del «danno biologico, morale ed esistenziale» continuano a svolgere una funzione, per quanto solo descrittiva, del contenuto pregiudizievole preso in esame dal giudice, al fine di parametrare la liquidazione del danno risarcibile (Cass., 15 gennaio 2014, n. 687). Invero, ritenuto che le espressioni «danno esistenziale, biologico e morale» non esprimano distinte categorie di danno, non può, tantomeno, considerarsi che l'una sia sottocategoria dell'altra, trattandosi, piuttosto, di locuzioni meramente descrittive di un'unica categoria di danno che è quella del danno non patrimoniale, identificabile nel danno determinato dalla lesione di interessi inerenti alla persona non connotati da rilevanza economica. Va in questa direzione l'approccio di D. Spera (Il danno non patrimoniale (biologico, morale, esistenziale) è risarcibile solo come danno da sofferenza?, in Ri.Da.Re.), a tenore del quale la distinzione ontologica delle voci attiene al momento della allegazione e della prova dei singoli pregiudizi non patrimoniali, ma non alla successiva fase della loro liquidazione. È da ritenere, infatti, in conformità alle cc.dd. sentenze di San Martino, che, in tema di danno alla persona, il riconoscimento del carattere «omnicomprensivo» del risarcimento del danno non patrimoniale non possa andare a discapito del principio della «integralità» del risarcimento medesimo, rimanendo rimesso al giudice l'accertamento dell'effettiva identità del danno causato, a prescindere dal nome attribuitogli, e della sua reale consistenza, per procedere alla sua integrale riparazione (Cass., 14 gennaio 2014, n. 531 e Cass. 23 gennaio 2014, n. 1361). Solo se intesa nel senso esposto nel precedente paragrafo può condividersi un'autorevole tesi esposta in dottrina (Gazzoni, in nota a Cass., Sez. Un., n. 26972, n. 26973, n. 26974, n. 26975, in Giust. civ., 2009, 73), secondo cui, a seguito delle cc.dd. sentenze di San Martino, tutte di uguale contenuto ed emesse nella stessa data (11 novembre 2008), il danno esistenziale cacciato, come meritava, dalla porta, rientrerà dalla finestra. Ma, allora, il danno biologico (id est, la lesione della salute), quello morale (ossia, la sofferenza interiore) e quello dinamico-relazionale (altrimenti definibile «esistenziale», e consistente nel peggioramento delle condizioni di vita quotidiane, risarcibile nel caso in cui l'illecito abbia violato diritti fondamentali della persona) costituiscono, ancora oggi, pregiudizi non patrimoniali ontologicamente diversi e tutti risarcibili; né tale conclusione contrasta col principio di unitarietà del danno non patrimoniale, sancito dalla sentenza Cass., n. 26972/2008 delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, giacché quel principio impone bensì una liquidazione unitaria del danno, ma non una considerazione atomistica dei suoi effetti (in applicazione di tale principio, Cass. 20 novembre 2012, n. 20292, ha confermato la sentenza di merito la quale, in un caso di danno da uccisione del prossimo congiunto, aveva liquidato ai congiunti due diversi danni, definiti l'uno morale e l'altro esistenziale). Ciò non toglie, ripetesi, che, poiché il danno biologico ha natura non patrimoniale, ed il danno non patrimoniale ha natura unitaria, è corretto l'operato del giudice di merito che liquidi il risarcimento del danno biologico in una somma omnicomprensiva, posto che le varie voci di danno non patrimoniale elaborate dalla dottrina e dalla giurisprudenza (danno estetico, danno esistenziale, danno alla vita di relazione, etc.) non costituiscono pregiudizi autonomamente risarcibili (Cass. 16 maggio 2013), ma possono venire in considerazione solo in sede di adeguamento del risarcimento al caso specifico, e sempre che il danneggiato abbia allegato e dimostrato che il danno biologico o morale presenti aspetti molteplici e riflessi ulteriori rispetto a quelli tipici (Cass., 13 giugno 2012, n. 9649). Aderendo alla lettura che si è offerta, nell'ampia ed omnicomprensiva categoria del danno non patrimoniale − che non è possibile ritagliare in ulteriori sottocategorie, se non con valenza meramente descrittiva (di «valenza meramente descrittiva» discorre espressamente Cass. 13 luglio 2011, n. 15414) − è da ascrivere il danno biologico, il quale ricomprende i danni alla vita di relazione ed estetico, nonché il danno morale, il quale non può, quindi, dar luogo ad un autonomo risarcimento alla stregua dell'orientamento ormai consolidato (cfr. Cass. 13 maggio 2013, n. 11415). Invero, come ci è ormai tramandato dalle Sezioni Unite del 2008, il danno non patrimoniale, determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, costituisce una categoria unitaria, non suscettibile di divisione in sottocategorie, laddove il riferimento ai vari aspetti del pregiudizio diversamente qualificati (danno morale, danno biologico, danno esistenziale, da perdita del rapporto parentale, etc.) risponde, come si è accennato, ad esigenze meramente descrittive delle possibili configurazioni che il pregiudizio può assumere senza minarne l'essenza ontologicamente unitaria, talché costituisce compito del giudice accertare l'effettiva consistenza del pregiudizio dedotto sul piano non patrimoniale individuando, sulla base delle allegazioni svolte, quali ripercussioni negative si siano in concreto verificate sulla persona che assume la lesione a prescindere dal nome attribuitogli (così Trib. Roma, sez. II, 6 agosto 2012). È, in particolare, compito del giudice accertare l'effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, e provvedere alla riparazione integrale di tutte le ripercussioni negative subite dalla persona complessivamente identificata (Trib. Varese, 1 marzo 2012). Da non confondere con la considerazione da ultimo espressa è il profilo secondo cui, in tema di danno non patrimoniale risarcibile, il danno biologico, quello morale e quello dinamico-relazionale non costituiscono conseguenza indefettibile della lesione dei diritti della persona, occorrendo valutare caso per caso, nel rispetto del principio della «integralità» del risarcimento, se il danno non patrimoniale presenti o meno tutti i siffatti aspetti, a tal fine dovendo il giudice accertare l'effettiva consistenza del pregiudizio allegato ed individuare quali concrete ripercussioni negative si siano verificate sul valore-uomo. Tanto è vero che la mancanza di danno biologico non esclude la configurabilità del danno morale soggettivo e di quello dinamico-relazionale, quale conseguenza autonoma della lesione e, pertanto, ove il fatto lesivo abbia profondamente alterato il complesso assetto dei rapporti personali all'interno della famiglia. Occorre ribadire che, in caso di lesione di un diritto fondamentale della persona, il risarcimento deve ristorare integralmente il danno non patrimoniale subìto. In definitiva, nel liquidare il danno non patrimoniale, quale figura unitaria di danno suscettibile di ricomprendere ogni altra figura di danno non patrimoniale (ivi compresi il danno biologico, il danno morale e il danno estetico), il giudice deve tener conto dell'insieme dei pregiudizi sofferti, purché nel giudizio ne sia provata l'autonomia e distinzione («valutazione per poste separate»), dovendo altresì procedere alla liquidazione secondo un criterio di personalizzazione del danno che, escluso ogni meccanismo semplificato di liquidazione di tipo automatico, tenga conto delle condizioni personali e soggettive del danneggiato, nonché della reale entità della lesione (Cass. 9 ottobre 2012, n. 17161). Da ciò consegue che il danno morale soggettivo possa essere liquidato anche in aggiunta al danno biologico, per avvertite esigenze di personalizzazione del risarcimento (cfr. Cass. 26 maggio 2011, n. 11609). Mi convince, in quest'ottica, l'approccio ipotizzato da Cass. 11851/2014, pur criticato in questa rivista telematica da M. Hazan, Il danno non patrimoniale: una questione “quantitativa”, presentata sotto mentite spoglie. L'Autore sostiene che, anche al fine di evitare che l'equità trasmodi in arbitrio, la liquidazione del danno non patrimoniale debba essere contenuta entro il limite (definito “gap”) di massima personalizzazione (20 o 30% del danno biologico, a seconda che si sia al cospetto di una lesione micro o macro-permanente) prevista dal legislatore. Tuttavia, anche a voler prescindere dall'ambito settoriale (RC auto) di applicazione del codice delle assicurazioni (di recente esteso dall'art. 3, comma 3, del d.l. n. 158/2012, conv. con modificazioni in l. n. 189/2012, alla responsabilità sanitaria), appare di difficile superamento (almeno per quanto concerne il danno morale) la espressa definizione del danno biologico nel senso di racchiudere, oltre al pregiudizio all'integrità psico-fisica, le sole componenti dinamico-relazionali del diritto alla persona. Si lascia, a mio modo di vedere, preferire la posizione di P. Ziviz, Danno non patrimoniale: nozione unitaria o composita?, in Ri.Da.Re.), secondo cui la considerazione delle sofferenze emotive non si presta ad essere recuperata in sede di mera personalizzazione del danno biologico. Qualche maggiore incertezza può allora residuare in ordine alla possibilità di valorizzare, in sede di personalizzazione, il danno c.d. esistenziale. In questa sede, va dato atto di un orientamento apparentemente tranciante, secondo cui è «senz'altro da escludersi la possibilità che in aggiunta a quanto già determinato a titolo di danno morale, venga attribuito un ulteriore ammontare al (diverso) titolo di danno esistenziale» (cfr. Cass. 30 giugno 2011, n. 14402; Cass. 15 aprile 2010, n. 9040). Cass. 30 novembre 2011, n. 25575, parla del «danno esistenziale» in termini di «sintagma ampiamente invalso nella prassi giudiziaria», pur rivelando che esso non configura un'autonoma categoria di danno. È chiaro, peraltro, che, se il c.d. danno esistenziale non costituisce voce autonomamente risarcibile − ma è solo un aspetto dei danni non patrimoniali di cui il giudice deve tenere conto nell'adeguare la liquidazione alle peculiarità del caso concreto −, ne consegue che, laddove dalle lesioni personali sia scaturito un «danno biologico», all'importo determinato in risarcimento di tale voce di danno deve essere aggiunta una somma idonea a compensare le eventuali conseguenze non patrimoniali ulteriori, ove ricorrano gli estremi del pregiudizio morale, esistenziale, estetico etc. (così Cass. 30 novembre 2011, n. 25575). Cass. 26 maggio 2011, n. 11609, ha confermato una sentenza emessa dalla Corte d'appello di Messina con la quale era stato liquidato, in aggiunta al danno biologico, un importo (pari al 50% del biologico) a titolo di danno morale soggettivo ed un altro (determinato equitativamente) a titolo di danno alla vita di relazione sociale (in quanto il danneggiato aveva dimostrato che non avrebbe più potuto coltivare gli esercizi di atletica pesante in cui aveva ottenuto risultati lusinghieri e continuare la pratica di commercialista). Invero, così operando, il giudice di merito, in armonia con il principio della integralità del risarcimento del danno alla persona, aveva proceduto alla corretta personalizzazione del risarcimento del danno biologico (Cass. 18 febbraio 2010, n. 3906, e 30 novembre 2009, n. 25236). Tra le ipotesi di personalizzazione del danno biologico che, allo stato, sono state prospettate in dottrina e analizzate dalla giurisprudenza, si segnalano: l'amputazione del dito per una persona che pratichi l'hobby di suonare uno strumento musicale; la riduzione della funzionalità dell'arto inferiore per una persona che coltivi sistematicamente uno sport; una menomazione permanente che provochi una maggiore usura lavorativa (ad es., una menomazione alla caviglia per una barista che è costretta, per lavoro, a stare in piedi per molte ore al giorno). Il rischio di duplicazione dei danni
Al fine di stabilire se il risarcimento sia stato duplicato ovvero sia stato erroneamente sottostimato, rileva, quindi, non il nome assegnato dal giudicante al pregiudizio lamentato dall'attore (biologico, morale, esistenziale), bensì unicamente il concreto pregiudizio preso in esame dal giudice (Cass. 13 maggio 2011, n. 10527). Si ha, pertanto, duplicazione di risarcimento solo quando il medesimo pregiudizio sia stato liquidato due volte, sebbene con l'uso di nomi diversi. In quest'ottica, Cass., sez. lav., 2 aprile 2012, n. 5230, ha cassato la decisione di merito, in quanto, nella motivazione della sentenza impugnata, i danni liquidati a titolo di danno morale apparivano correlati alla medesime malattie considerate per il danno biologico e liquidati, nella loro entità, in una quota parte di tale ultimo danno, senza una specifica considerazione dei profili di danno ed anche una specifica e separata quantificazione. Occorrerà, soprattutto, distinguere l'ipotesi in cui si sia in presenza di una lesione di particolari condizioni soggettive del danneggiato (nel qual caso, potrà procedersi ad una maggiorazione fino ad una certa percentuale dell'importo base), o di una lesione di un interesse costituzionalmente protetto (ulteriore rispetto al danno alla salute tutelato ex art. 32 Cost.), la quale va risarcita autonomamente. Invero, il danno biologico, conseguente alla lesione del diritto alla salute garantito dall'art. 32 Cost., è ontologicamente diverso dal danno derivante dalla lesione di un diverso diritto costituzionalmente protetto, non potendo, quindi, essere risarcito come danno biologico il pregiudizio (da alcuni definito come esistenziale) che si affermi essere derivato da «stress psicologico da timore», per la compromissione della serenità e sicurezza del soggetto interessato; fermo restando che la serenità e la sicurezza, di per sé, non costituiscono diritti fondamentali di rango costituzionale inerenti alla persona, la cui lesione consente il ricorso alla tutela risarcitoria del danno non patrimoniale (Cass. 21 giugno 2013, n. 15707). Certo è che, ai fini del risarcimento, il danno biologico deve essere considerato in relazione all'integralità dei suoi riflessi pregiudizievoli rispetto a tutte le attività, le situazioni e i rapporti in cui la persona esplica se stessa nella propria vita; con riferimento, quindi, alla sfera non soltanto produttiva, ma anche spirituale, culturale, affettiva, sociale, sportiva, e a ogni altro àmbito e modo in cui il soggetto svolge la sua personalità e cioè a tutte le attività realizzatrici della persona umana (cfr., nella giurisprudenza di merito, Trib. Modena, 21.05.2013, n. 800). In conclusione
Il danno non patrimoniale costituisce una categoria unitaria ed omogenea, all'interno della quale le distinzioni tradizionali (come quella tra danno morale e danno biologico) possono continuare ad essere utilizzate al solo fine di indicare, in modo sintetico, quali tipi di pregiudizio il giudice abbia preso in esame al fine della liquidazione, e mai con l'effetto di risarcire due volte il medesimo pregiudizio, sol perché chiamato con nomi diversi (Cass., 19 febbraio 2013, n. 4043). In particolare, stante il carattere unitario della liquidazione di detto nocumento, non è consentito risarcire, pena l'illegittima duplicazione di tale misura (Cass. n. 21716/2013), separatamente ed autonomamente le specifiche fattispecie di sofferenza, comunque da considerare in sede di personalizzazione (Cass. n. 14402/2011) o, meglio, di liquidazione complessiva del pregiudizio: così, onde disporre un congruo risarcimento, il giudice non è obbligato a tenere conto di tutte le voci di danno non patrimoniale richieste dal danneggiato. Occorre, allora, domandarsi quali utilità conservino le vecchie categorie del «danno biologico» e di quello «morale». Se il «danno non patrimoniale» è unico, ricorrere in senso meramente descrittivo alle categorie precedenti potrebbe conservare una sua ragione nel momento in cui tali categorie, rifuggendo dagli automatismi e dalle duplicazioni riscontrati nella prassi, risultassero funzionali a una liquidazione integrale del pregiudizio cagionato. Ciò che conta, al di là delle espressioni utilizzate, è, in definitiva, la corretta determinazione del pregiudizio (Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972). La questione della liquidazione e quantificazione del «danno non patrimoniale», a ben vedere, va, allora, risolta sul piano probatorio: esigendo la prova rigorosa del danno stesso, evitando il disinvolto ricorso alle presunzioni e considerando le peculiarità del caso. Ciò facendo corretta applicazione dell'insegnamento per cui il «danno non patrimoniale», anche nel caso di lesione di diritti inviolabili, non può mai ritenersi in re ipsa, ma va debitamente allegato e provato da chi lo invoca, anche attraverso il ricorso a presunzioni semplici (Cass., 13 maggio 2011, n. 10527), purché gravi, precise e concordanti. Inteso nei termini in precedenza esposti, trova condivisione la conclusione cui è pervenuto M. Rossetti (La Corte di Cassazione e il danno non patrimoniale, in Ri.Da.Re.), a mente della quale tanto l'orientamento “rigoroso” quanto quello “liberale” «esigono che il giudice di merito accerti dei fatti, e non crei delle etichette; liquidi dei pregiudizi concreti, e non presuma dei pregiudizi in re ipsa; badi alla sostanza di tali pregiudizi, e non al nome con cui le parti li definiscono». |