Morte conseguita alle lesioni dopo 83 giorni: agli eredi va liquidato il danno biologico permanente
21 Novembre 2014
Massima
Trib. Vallo della Lucania, sent., 24 gennaio 2014, n. 25 Nel caso di morte conseguita dopo 83 giorni alle lesioni riportate dalla vittima di un sinistro stradale, al fine di evitare la disparità di trattamento che altrimenti si verificherebbe nei confronti di chi, dopo aver riportato un danno permanente, sopravviva, si deve riconoscere agli eredi del defunto il danno biologico permanente da quest'ultimo patito, parametro però non alla vita media bensì all'effettivo periodo di vita che la vittima ha vissuto dopo il sinistro. Sintesi del fatto
Lungo la strada costiera che, nel Cilento, conduce ad Acciaroli e Pioppi, un motociclista cade e subisce gravissime lesioni che, dopo 83 giorni, lo conducono a morte. I suoi congiunti, moglie, figli e genitori, agiscono in giudizio nei confronti del fondo di garanzia per le vittime della strada, chiedendone condanna al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale subito. Essi assumono che il sinistro mortale avrebbe avuto luogo per responsabilità di un veicolo rimasto sconosciuto: un'autovettura bianca (forse una Golf, forse una Chrysler, non si sa) avrebbe superato la motocicletta, una potentissima Kawasaki ZX 1200R, 180 cavalli circa per 230 kg di peso (su You-Tube ci sono video di piloti che l'hanno portata fino a 350 km/h), urtandola sul lato sinistro e scaraventandola contro il guard-rail. Il giudice ritiene che il sinistro abbia avuto luogo per concorrente responsabilità dei conducenti dell'autovettura rimasta sconosciuta e della motocicletta nella rispettiva misura del 90% del 10%: a tal fine valorizza talune pur contraddittorie testimonianze, alcune delle quali per di più de relato ex parte, e taluni elementi indiziari non proprio granitici. Ma non è questo l'aspetto che preme sottolineare: nel passare alla liquidazione del danno non patrimoniale il giudice riconosce infine agli eredi della vittima il danno biologico per le lesioni da essa vittima sofferte, mediante l'applicazione delle tabelle milanesi, personalizzandolo in ragione della sofferenza morale protrattasi per 83 giorni dal sinistro fino alla morte; e — questo il punto — liquida il danno biologico (€ 600.000) in relazione all'importo tabellarmente previsto per l'invalidità permanente nella somma complessiva di € 847.613. La questione
Ecco allora il quesito: posto che il risarcimento del danno biologico, sotto forma di c.d. invalidità permanente, si calcola rapportando il pregiudizio derivante dalla diminuzione della valetudine psico-fisica del soggetto, ed ormai consolidatosi, alla durata media della vita (è per questo che il risarcimento scema al crescere dell'età del danneggiato), come occorre procedere quando il danneggiato viene a mancare a causa delle lesioni? Occorre parametrare il risarcimento del danno biologico alla durata puramente figurativa della vita oppure alla sua durata effettiva? Ed occorre liquidare il danno biologico come danno temporaneo oppure come danno permanente?
Le soluzioni giuridiche
Il giudice, ponendosi in consapevole contrasto con la giurisprudenza della S.C., afferma che il danno, pur dovendo essere in tal caso ancorato alla durata effettiva, debba essere liquidato non già come danno da invalidità temporanea, secondo quanto affermato in alcune pronunce, bensì come danno da invalidità permanente. Se si seguisse tale orientamento — dice testualmente il giudice — «si finirebbe per non riconoscere alla vittima la lesione permanente della sua integrità fisica per un tempo pur apprezzabile. In altri termini, nei casi come quello oggetto del presente giudizio non si discute di una mera inabilità temporanea del soggetto (che sarebbe tale — cioè temporanea —, tra l'altro, non per la ripresa delle normali attività quotidiane bensì per l'intervenuto decesso!) ma di una lesione permanente (cfr. c.t.u. in atti) che sussiste per un periodo relativamente breve — e non per la durata media della vita considerata dalle tabelle — per il sopravvenire del decesso. Diversamente ragionando si avrebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra il soggetto che, dopo aver riportato un danno permanente, sopravviva (qui si riconoscerebbe senza dubbio il danno biologico permanente da tabella) e uno che, nelle stesse condizioni, non sopravviva (che, per l'orientamento qui criticato andrebbe risarcito solo con l'inabilità temporanea “personalizzata”). E, paradossalmente, sarebbe quest'ultimo ad avere il trattamento – sotto il profilo risarcitorio – deteriore (nella specie si perverrebbe a una liquidazione massima di 144 euro per 83 giorni, da personalizzare)».
Non mena certo scandalo che il giudice si sia discostato dall'insegnamento della S.C.: poiché egli è soggetto alla legge e non alla Cassazione, almeno per ora, può senz'altro ragionare in modo diverso. È anzi agevole constatare l'importanza che, in molti casi, la giurisprudenza di merito ha avuto: basti rammentare che all'epoca in cui i giudici di merito elaboravano, con l'aiuto della dottrina, il concetto egualitario di danno biologico, la Corte di cassazione era ancora ferma alla vieta «regola del calzolaio»: chi è avanti negli anni sa cos'è; chi per sua fortuna non lo è, e non sa di che cosa si tratti, non perde granché. Tuttavia, nel criticare la giurisprudenza della S.C., è sempre bene che i giudici di merito vadano con i piedi di piombo: se la cassazione assume un determinato indirizzo, in genere, una ragione c'è, ed è bene averla prima compresa a fondo, per poi poterla convenientemente criticare. In breve le cose stanno così. Nel caso in cui la morte della vittima di lesioni non sia immediata, ma sopraggiunga dopo un certo periodo di tempo, occorre distinguere secondo che la morte sia o non sia conseguenza delle lesioni. Se la vittima di lesioni muore per una causa diversa da esse, il diritto al risarcimento del danno — che è un diritto di natura patrimoniale — si trasferisce agli eredi, pro quota. Peculiare è però il criterio di liquidazione: come ognuno intende, il danno biologico è tanto maggiore, quanto minore è l'età della vittima: posto che il danno biologico è costituito dalle conseguenze verificatesi a valle della lesione, meno grave è il danno che si ha quando il danneggiato è costretto a tollerare tali conseguenze per un breve arco temporale, più grave è il danno destinato a perpetuarsi per l'intero arco di una vita di durata statisticamente normale, pressappoco 78 anni per gli uomini e 81 per le donne. Ciò si ripercuote sulla aestimatio del danno, sicché il giudice deve tenere conto non della vita media futura presumibile della vittima (78-81 anni), ma della vita effettivamente vissuta (di recente, tra le tante, Cass. civ., sez. III, sent., 31 gennaio 2011 n. 2297; una diversa soluzione si rinviene in Cass. civ., sez. lav., sent., 23 maggio 2003 n. 8204, la quale testimonia come anche la Corte di cassazione possa incorrere in errori evidenti). Diversi sono i criteri operativi adottati, tutti collocati nel campo dell'equità: quello che sembra più ragionevole consiste nel proporzionare la durata effettiva della vita a quella media e calcolare così il risarcimento. Nel caso di morte della vittima di lesioni personali quale conseguenze di questa ultime, la giurisprudenza ha per lungo tempo operato una distinzione tra morte contestuale alle lesioni ovvero sopravvenuta dopo un tempo «non apprezzabile» e morte sopravvenuta dopo un arco di tempo «apprezzabile». Nel primo caso si è negato l'acquisto, in capo alla vittima, e la trasmissione da questa ai propri eredi, del diritto al risarcimento del danno: si tratta della nota questione della non risarcibilità del danno da perdita della vita, che è stato recentemente rimesso in discussione da Cass. civ., sez. III, sent., 23 gennaio 2014 n. 1361, il cui responso ha determinato un contrasto su cui si attende la pronuncia delle Sezioni Unite. Nel caso di morte avvenuta dopo il decorso di un tempo «apprezzabile», la S.C. ha riconosciuto l'acquisto da parte della vittima del diritto al risarcimento del danno e la conseguente trasmissione del medesimo diritto agli eredi. Si è però osservato che il solo danno biologico risarcibile è quello temporaneo: difatti — questo il punto che il tribunale lucano pare non aver inteso — se la malattia causata dalle lesioni non guarisce, ma conduce la vittima alla morte, non è concepibile lo stabilizzarsi dei postumi, e di conseguenza non è configurabile alcun danno da invalidità permanente. Nondimeno, nel caso di morte causata dalle lesioni, occorre liquidare il danno biologico temporaneo patito dalla vittima attraverso una adeguata personalizzazione, che tenga conto della particolare intensità del danno consistente nella invalidità che precede la morte (Cass. civ., sez. III, sent., 28 agosto 2007 n. 18163; Cass. civ., sez. III, sent., 28 aprile 2006 n. 9959; Cass. civ., sez. III, sent., 30 gennaio 2006 n. 1877). In questo quadro e poi intervenuta la arcinota Cass. civ., S.U., sent. 11 novembre 2008 n. 26972, la quale ha affermato che la vittima, rimasta lucida in consapevole attesa della morte, acquista e trasmette agli eredi il diritto al risarcimento del danno morale, inteso non già quale mera sofferenza interiore transeunte, ma quale sinonimo di «danno non patrimoniale»: tuttavia, parrebbe da ritenere che la svolta indicata dalle Sezioni Unite non abbia inciso significativamente sull'indirizzo precedente, precludendo il risarcimento del danno biologico, dal momento che esso è costituito dal pregiudizio arrecato alla salute, non dalla percezione che di tale pregiudizio abbia la vittima. Il giudice di Vallo della Lucania, nel liquidare come danno da invalidità permanente un danno che tale non era, giacché il quadro patologico non si era stabilizzato, pare dunque essersi discostato dall'indirizzo della giurisprudenza di legittimità senza avvedersi delle ragioni che sottendono alle soluzioni accolte. Ciò ha fatto — egli dice — per evitare una disparità di trattamento e dunque, implicitamente, per i fini dell'osservanza del precetto basilare posto dall'art. 3 Cost., il che richiama alla mente una corrosiva chiosa di Salvatore esatta: «La lettura della Costituzione produce su certi giuristi l'effetto che la lettura dei libri di cavalleria produceva su Don Chisciotte».
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